Jackie McLean : un improvvisatore, educatore e attivista

Uno dei nomi forti del jazz contemporaneo, il sassofonista e compositore Steve Lehman, analizza in un brillante saggio i tratti essenziali della carriera del suo maestro Jackie McLean

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Per comprendere l’incalzante ritmo che ha guidato lo sviluppo professionale del giovane Jackie McLean è necessario prendere in considerazione la sua forte etica lavorativa e la sua determinazione nel calarsi nella musica improvvisata dell’epoca, da lui viste come una risposta alla sorgente creativa in cui si era trovato immerso. Cresciuto nella Harlem dei tardi anni Quaranta e dei primi Cinquanta, in uno dei momenti più produttivi nella storia della musica degli Stati Uniti, Jackie McLean si impegnò a fondo – in una vera e propria sfida con se stesso – per tenere il passo degli straordinari jazzisti che l’avevano accolto e invitato a suonare nella loro cerchia. È probabile che siano state quelle prime esperienze a Harlem a far nascere in lui la consapevolezza e la fiducia nei propri mezzi che contrassegnarono tutta la sua carriera.

Nella prima fase dell’attività di McLean, che va all’incirca dal 1950 al 1962, troviamo un linguaggio melodico e armonico in prevalenza influenzato dalla musica di Charlie Parker e di Bud Powell. «Bud è stato la persona più significativa nel mio sviluppo di musicista», dichiarò in seguito McLean a Bret Primack. «Tra i quindici e i diciassette anni frequentai regolarmente la sua abitazione e si trattò di un periodo di formazione molto importante. Se sono riuscito a crescere e a svilupparmi come musicista lo devo, così almeno credo, alla sua presenza». Non si trattava, peraltro, di lezioni formali. «Molti pensano che Bud mi facesse studiare teoria musicale, ma non andò così. Ero io che lo ascoltavo esercitarsi. Poi lui mi chiedeva di prendere il sassofono e suonare assieme. Mi mostrava ciò che stava componendo, su cui stava lavorando; in pratica, mi guidava con l’esempio».

Molti anni dopo, quando fu nominato professore all’università di Hartford, Jackie McLean adottò un metodo didattico che si basava proprio sulle sue esperienze giovanili con Powell, pur insegnando regolarmente teoria musicale. La profonda influenza di Powell, così come quella di Parker, è evidente su «Dig» (1951) e «Miles Davis Vol. 1» (1952), le prime incisioni di McLean come solista ospite dei gruppi di Miles Davis. In questi lavori, il sassofonista mostra di aver compreso e fatto proprie le idee armoniche e ritmiche portate avanti da Parker e dai suoi contemporanei, includendo spesso nelle sue improvvisazioni una serie di citazioni tratte alla lettera dagli assoli di Bird e di Bud. È in quel periodo che McLean inizia a sviluppare una sonorità personale e unica, destinata a farlo spiccare tra tutti i suoi colleghi di strumento.

Jackie Mclean and Miles Davis
Jackie Mclean con Miles Davis, 1952

Il timbro del contralto di McLean, così come appare dai suddetti dischi di Davis, è caratterizzato da un’evidente asciuttezza e incisività, resa ancor più tipica – almeno in parte – da un’accuratissima precisione ritmica e da un fraseggio essenziale come pochi altri. Lo stesso McLean, che ammirava lo stile di Lester Young, Ben Webster e Dexter Gordon, ha poi attribuito la propria inconsueta sonorità alla testardaggine con cui voleva far assomigliare il suono del contralto a quello del tenore (così da trovare una soluzione ingegnosa, e tipica del personaggio, al rifiuto della madre di acquistargli un sax tenore).

Nei tardi anni Cinquanta quella sonorità, perfezionata e curata nel corso del tempo, finì per diventare una delle più riconoscibili e caratteristiche nell’ambito della musica creativa di matrice afroamericana, indipendentemente dallo strumento. Nei primi anni Sessanta McLean cominciò ad ampliare il raggio dei suoi interessi musicali. Ovviamente, in quel periodo rimane forte l’influsso dell’apprendistato da lui compiuto in precedenza sotto l’ala di un iconoclasta come Charles Mingus, ma va considerata ancor più significativa la sua crescente presa di coscienza dell’opera di musicisti come Ornette Coleman e Cecil Taylor.

jackie mcleanJackie McLean iniziò anche a riflettere su come adattare la propria attività di compositore e improvvisatore alla situazione culturale e politica del momento. Nelle note di copertina da lui stesso scritte per «Let Freedom Ring» (Blue Note, 1962) troviamo direttamente citata l’influenza di Coleman: «Sto attraversando un periodo di enorme cambiamento, non solo dal punto di vista della composizione ma anche dell’improvvisazione. Ornette Coleman mi ha costretto a una pausa di riflessione. Pur con tutte le critiche che ha dovuto sopportare, Ornette non ha mai deviato dalla sua strada, quella della libertà d’espressione. Ecco, qui inizia la ricerca». Fu questa la prima volta in cui McLean decise di scriversi da solo le note di copertina, e sembra evidente che avesse capito benissimo la portata e l’efficacia di una tale autopromozione.

Anni dopo, intervistato da Terry Gross per la National Public Radio, spiegò che il titolo di quel disco voleva mostrare il legame tra la libertà mostrata dagli improvvisatori creativi e quella perseguita dagli attivisti nella lotta per i diritti civili. Nell’esprimere così apertamente il suo sostegno al movimento, McLean si affiancava quindi a musicisti come Max Roach, Abbey Lincoln e Archie Shepp, che usavano la loro produzione discografica per portare avanti una serie di programmi politici. Per quanto McLean avesse deciso di utilizzare una personale interpretazione dell’approccio politico e filosofico di Coleman, «Let Freedom Ring» non è così vicino al mondo musicale di Ornette come vorrebbero far intendere le note di copertina, situandosi più in prossimità del lavoro del quartetto di Coltrane con McCoy Tyner, Jimmy Garrison ed Elvin Jones.

Per ascoltare in maniera netta l’influenza della musica di Coleman su quella di McLean bisognerà attendere almeno la metà degli anni Sessanta, come dimostrano «Action» (1965) e «New And Old Gospel» (1967). In quest’ultimo lavoro è presente, alla tromba, lo stesso Ornette. E, come Mary Lou Williams negli anni Quaranta volle sostenere la musica di Thelonious Monk e Bud Powell prima ancora di accoglierne l’influenza nei suoi lavori, così McLean ebbe bisogno di tempo per elaborare le implicazioni della musica di Coleman e assorbirle nella propria.

jackie mclean old and new gospel frontcover

Nel documentario Jazz di Ken Burns (1996), è lui stesso a commentare l’evoluzione del suo percorso: «Negli anni Sessanta la mia band cambiò direzione. John Kennedy fu fatto fuori nel 1963; poi vennero assassinati Malcolm X, Medgar Evers, Martin Luther King, Robert Kennedy. Le città erano in fiamme. Il movimento per i diritti civili era in piena attività; la gente gridava la sua rabbia, c’era la guerra nel Vietnam. Così la musica si spostò da quella parte».

Come molti musicisti afroamericani dell’epoca, anche McLean reagì a tali avvenimenti usando la propria musica e la propria reputazione a sostegno delle organizzazioni di attivisti. Negli anni Sessanta lo troviamo impegnato su e giù per la East Coast ad allestire e dare concerti di raccolta fondi per le Black Panthers e per lo Student Nonviolent Coordinating Committee, così come a esibirsi durante le rivolte di Newark nel 1967. Questi impegni segnarono l’inizio di un coinvolgimento sociale che Jackie McLean avrebbe mantenuto fino all’ultimo. Possiamo quindi dire che i legami di McLean con Ornette e con gli altri esponenti della cosiddetta avanguardia degli anni Sessanta – con un fervore sconosciuto a quasi tutti i suoi coetanei, escluso Max Roach – nascono dalla condivisione, seppure parziale, del potenziale politico della loro musica.

Ornette Coleman e il batterista Rashied Ali, per esempio, furono chiamati nel 1967 da McLean per prendere parte ad alcune sue incisioni per la Blue Note. E McLean ha sempre sostenuto che la sua ammirazione per la vivacità e l’attualità della musica di Ornette non implicava il vederla come un corpo estraneo alla tradizione del jazz: «La musica è buona o cattiva, e questo vale anche per Ornette. Coleman e Coltrane si sono ritrovati addosso l’etichetta di New Thing, ma siamo sicuri che Ornette sia più nuovo di Charlie Parker? Credo che non lo pensi neanche lui».

La capacità di sistematizzare la musica di Ornette come un’evoluzione necessaria delle idee di Parker, e non come una rottura, può quindi aver consentito a McLean di espandere il proprio linguaggio in maniera più efficace di quanto non riuscissero a fare altri importanti musicisti della sua generazione. Di conseguenza, integrando certi esponenti emergenti dell’avanguardia nei suoi gruppi stabili, McLean seppe dar loro una ragionevole credibilità all’interno di ambiti più tradizionali, spingendo alcuni musicisti d’impronta mainstream ad aggiornare il proprio operato.

I contraltisti Gary Bartz ed Eric Person, anche se di generazioni diverse, sono tra i tanti ad aver risentito in maniera positiva dell’approccio avanguardista di McLean. «Se Jackie diceva che le cose nuove dovevano essere prese in considerazione», racconta Bartz, «mi spingeva a esplorarle a mia volta, tanta era la fiducia che avevo in lui». E Person: «Ha avuto un grosso impatto su di me perché mi ha fatto vedere cosa davvero servisse per essere un grande musicista di jazz. Lui ha saputo uscire da sotto l’ala protettiva di Charlie Parker, senza però buttare alle ortiche il bop o il blues. Anzi, li ha integrati con le espressioni più libere dell’avanguardia».

destination out jackie mcleanOltre a influenzare musicisti più giovani di lui come Bartz e Person, McLean inserì nei suoi gruppi, su disco o dal vivo, numerosi improvvisatori/compositori in ascesa come Tony Williams, Jack DeJohnette, Charles Tolliver, Woody Shaw, Bobby Hutcherson, Larry Willis, Hilton Ruiz e Grachan Moncur III, portandoli all’attenzione della comunità jazzistica internazionale. Anche dopo aver iniziato l’attività didattica in un contesto più formale e accademico, continuò a utilizzare le sue band per fornire quella che George E. Lewis definisce «un’esplicita vocazione educativa basata sulla pedagogia», capace di sviluppare «un ibrido tra l’esperienza pedagogica e la pratica musicale».

Se però all’epoca McLean continuava a progredire in maniera smisurata, diventando per molti versi un modello da seguire per la nuova generazione di musicisti, va anche detto che – come molti altri suoi colleghi del periodo – era costretto a confrontarsi con i problemi legati alla battaglia quotidiana con l’eroina. Aveva iniziato a usarla verso il 1948, a diciassette anni, e nel 1957 era stato già arrestato parecchie volte, con brevi permanenze in carcere per detenzione abusiva di stupefacenti. Di conseguenza gli era stata ritirata la cabaret card, non potendo così esibirsi nell’area urbana di New York, anche come sideman, fino al termine degli anni Sessanta. Proseguì comunque a incidere per la Blue Note e a lavorare fuori città, ma l’impossibilità di suonare a New York, come lui stesso dichiarò nel documentario di Ken Lewis Jackie McLean On Mars (1976), lo costrinse a cambiare direzione.

Nel 1959 gli fu chiesto di prendere parte come attore e musicista a una produzione del Living Theater: The Connection di Jack Gelber, una pièce di carattere sperimentale in cui un gruppo di sbandati eroinomani, tra i quali un quartetto di jazzisti, attende l’arrivo di uno spacciatore. A quel lavoro teatrale McLean prese parte fino al 1961, uscendo per la prima volta dagli Stati Uniti quando l’opera fu rappresentata a Londra nel 1960 e collaborando in seguito con la regista Shirley Clarke, che ne trasse un ben noto film. Oltre
a fargli conoscere nuove comunità di artisti impegnati nella sperimentazione, l’attività teatrale e cinematografica gli consentì di tracciare significativi confronti tra la sua stessa vita e quella del personaggio che si trovava a interpretare, tanto da spingerlo con buone probabilità a valutare con altri occhi la propria esperienza all’interno di una cerchia che vedeva un regolare e consistente abuso di sostanze stupefacenti.

È anche realistico pensare che tutto questo possa averlo spinto a superare la sua dipendenza e a impegnarsi in svariate attività di prevenzione. Nel 1961, dopo essere uscito dal Living Theater, McLean iniziò a lavorare con alcune comunità giovanili newyorkesi, sia come caporchestra in carceri minorili sia contribuendo a iniziative come il cosiddetto «Haryou-Act» (Harlem Youth Opportunities UnlimitedAssociated Community Teams), oltre che alla «Mobilization For Youth» lanciata da Robert Kennedy, che lo tenne impegnato per quasi cinque anni. «Fu il primo lavoro, tra quelli che riuscii a ottenere a New York», raccontò nel documentario di Ken Lewis, «che mi piacque almeno un po’. Lavoravo con i bambini due, tre pomeriggi la settimana, e mi pagavano pure».

Jackie McLean & John Coltrane
Jackie McLean con John Coltrane, 1957

La decisione di lavorare con i giovani in difficoltà nacque in parziale risposta alla necessità di trovare nuove fonti di reddito dopo il ritiro della cabaret card. Ma è anche giusto considerarla come l’ennesimo esempio di abilità nel reagire, in maniera costruttiva e creativa, alle costanti sfide di carattere personale e musicale. Sotto questo aspetto, la sua ingegnosità quotidiana viaggiava di pari passo con l’abilità professionale: una risposta positiva al cambiamento, soluzioni pratiche e creative ai problemi che potessero sorgere, una notevole disponibilità all’impegno sociale e una costante attenzione allo stato e al progresso delle cose.

Malgrado la dipendenza dall’eroina – che riuscì a sconfiggere solo nel 1964 – e la relativa perdita della cabaret card, Jackie McLean riuscì a non farsi travolgere dagli eventi, continuando alla meno peggio a sbarcare il lunario, a mantenere il suo impegno per il progresso sociale della comunità afroamericana e a porre le fondamenta di una carriera didattica che, in seguito, avrebbe saputo brillantemente integrare con quella di musicista. In tutta la sua storia musicale, Jackie McLean è sempre stato molto attento a cogliere le nuove idee che circolavano nell’ambito del jazz e a integrarle sia nel suo stile esecutivo, sia nella sua attività concertistica, didattica e sociale. Va comunque tenuto ben presente che gli spostamenti e le transizioni della sua carriera non furono semplici da gestire.

Il sassofonista non riuscì mai a risolvere fino in fondo il conflitto provocato dai compromessi cui aveva dovuto piegarsi per tenere in piedi una salda attività professionale. In Jackie McLean On Mars, per esempio, lo sentiamo lamentarsi della difficoltà di esercitarsi regolarmente sullo strumento a causa dei molteplici impegni universitari e presso l’Artists Collective, il centro culturale da lui fondato nel 1970, assieme alla moglie Dollie e ad altri partner, in uno dei quartieri più poveri della cittadina di Hartford. I sacrifici imposti a livello creativo e artistico da una carriera d’insegnamento universitario e di attivismo sociale rischiano fin troppo spesso di essere trascurati o sottovalutati. Lo ricorda il contrabbassista Reggie Workman, sostenendo che l’impegno artistico finisce per essere compromesso da attività parallele come l’insegnamento e l’attivismo sociale: impossibile riuscire a studiare, esercitarsi e creare musica quando sei tirato per la giacca da mille altre iniziative.

Però, conclude Workman, sono cose importanti e soprattutto necessarie, il cui effetto si fa sentire ogni volta che prendi in mano il tuo strumento. Ed è lo stesso McLean a sintetizzare il proprio percorso umano e professionale in un’intervista rilasciata nel 1990 a Kevin Whitehead di DownBeat: «Non sono mai stato all’avanguardia di alcun nuovo stile, ma ho saputo allinearmi con tanti stili diversi e forse sono anche riuscito a offrire qualche contributo personale». Ecco quindi come McLean concepiva il  suo contributo alla musica creativa di matrice afroamericana, non considerandosi un innovatore bensì uno stilista e ponendo l’accento sulla propria abilità, che, a nostro avviso, affonda le radici non solo nelle sue doti d’improvvisatore e di «integratore» ma anche nella sua eccezionale bravura di musicista.

L’abilità di cui parla McLean, ovvero il saper miscelare l’innovazione alla tradizione, ebbe un profondo impatto sia sulla musica da lui proposta e registrata sia su tutti coloro (sidemen, studenti, attivisti) che parteciparono alle sue molteplici iniziative. Senza quell’abilità e la sua ben nota forza di carattere, il sassofonista non sarebbe diventato il maestro da tutti riconosciuto, ma è anche vero che la sua vita si è calata a fondo, in maniera quasi unica tra i jazzisti a lui contemporanei, nei movimenti storici, politici e culturali della seconda metà del Novecento. Le declinazioni del passato, del presente e del futuro potranno forse apparirci più chiare se sceglieremo di vederle attraverso il prisma dell’irripetibile vita di uomo e musicista di Jackie McLean.

Steve Lehman
(traduzione e adattamento di Luca Conti)

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