Ornette Coleman: l’inizio del futuro

Una musica fuori della norma (e con uno strumento a sua volta singolare) scandalizzava quanti pensavano che il sassofonista facesse jazz a rovescio

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Non di rado il Tempo è portatore di belle scoperte. Quando nell’ottobre del 1959 la casa discografica Atlantic pubblicò «The Shape Of Jazz To Come», e soprattutto quando, il mese successivo, il quartetto di Ornette Coleman – attivo fino ad allora in California – fu impegnato in un ingaggio al Five Spot di New York, si ebbero reazioni indignate o comunque polemiche (sulle quali torneremo). Ci vollero molti anni prima che di quella musica, accolta come una proposta radicale e molesta, se non come vera e propria degenerazione del jazz, venisse finalmente considerata l’essenza sua: cioè la dolcezza. Del resto, gli uomini della New Thing, che tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Settanta hanno deviato il corso del jazz verso una grande libertà espressiva, sono stati esseri quieti e gentili, salvo rare eccezioni (il caustico Archie Shepp, per esempio). John Coltrane, Albert Ayler, Don Cherry, Ornette, Billy Higgins, Cecil Taylor, Roswell Rudd erano – e sono, nel caso dei pochi viventi – persone fatte di questa pasta, quando invece la generazione del bebop aveva allineato non poche personalità assai disturbate psicologicamente, fino al limite dell’asocialità. Va osservato, però, che Ornette – come anche Don Cherry e Billy Higgins, che gli erano a fianco in quel memorabile 1959 – fece qualcosa di diverso rispetto ai suoi contemporanei, e cioè portò la dolcezza umana all’interno della propria musica, facendone uno degli elementi caratteristici. «Dolcezza» secondo la sua idea che il mondo debba dotarsi il più possibile di cose belle, di melodie, di contatto diretto e incondizionato con i sentimenti, di naturalezza, soprattutto di gioco.
(N.d’A. È molto precisa e sensibile la descrizione data dal jazzista e musicologo Massimo Nunzi: «I gesti, la compenetrazione, la narrazione interiore sono nella musica di Ornette Coleman, che negli anni Cinquanta e Sessanta sembra interpretare la serietà assoluta e profondissima del gioco dei bambini, creando un luogo emotivo che è suo soltanto. Coleman è infatti un formidabile melodista che non ha mai perso il contatto con il suo bambino interiore. Il suo è un campo da gioco in cui si muove a suo agio con il suo sax di plastica, perfetto contraltare alla tromba da bambino di Don Cherry» tratto da Jazz: istruzioni per l’uso, Editori Laterza, 2008, Roma-Bari. La «tromba da bambino» alla quale Nunzi allude è la pocket trumpet, il trombino di origine militare che Cherry adotterà di lì a poco).

Vale la pena ricordare la grande attrazione nutrita per la musica ornettiana da due melodisti come Keith Jarrett e Pat Metheny.

Di tutto ciò, la «forma del jazz che verrà» (così si può tradurre il titolo del disco) è il manifesto. Nella musica di Ornette – passata, presente e futura – non si incontrano forse mai aggressività, violenze, sarcasmi, parodie. Quello che, equivocando, si può interpretare come qualcosa che vi assomiglia, altro non è che uno dei risvolti della sua irresistibile voglia di giocare. E senza ombra di cattiveria. A chi gli ha chiesto chiarimenti sul suo rapporto con l’armonia oppure con l’intonazione, a chi ha cercato di portarlo su discorsi più strettamente musicologici, il sassofonista ha immancabilmente risposto (più o meno): «Io suono sentimenti». Proprio questo è ciò che il Tempo ha avuto modo di chiarire, dopo che la musica di Ornette Coleman, in particolare la sua «forma», è finalmente entrata nell’orecchio dei jazzofili. I meno passatisti, naturalmente. Le controversie su Ornette, comunque, sono durate a lungo e ancora non si può dire che si siano del tutto esaurite.

Ornette Coleman - The Shape of Jazz to Come
Inciso in California, il primo album Ornette per l’etichetta Atlantic vede anche la presenza di Don Cherry, Charlie Haden e Billy Higgins, fedeli partner del sassofonista

RITRATTO DI ARTISTA

Nell’era del compact disc, con le sue minuscole copertine di centimetri dodici per dodici, è andata purtroppo perduta la profondità espressiva delle copertine dei long playing (che misuravano trentuno per trentuno). E questa è stata una tragedia per l’art direction, l’illustrazione, la fotografia. Dell’avvento del Cd si è giovata (e non sempre) la qualità del suono; ma per la cover art il piccolo formato ha rappresentato il patibolo. La copertina di «The Shape Of Jazz To Come» mostra una fotografia scattata in studio da William Claxton, della quale nel ristretto quadrato che accompagna il compact disc vengono rimpicciolite – con proporzioni matematiche, verrebbe da dire – la bellezza e l’espressività. Per la verità, questo ritratto andrebbe osservato con attenzione nella versione long playing, onde coglierne in pieno l’efficacia.

ornette coleman - free jazzSi è molto parlato della copertina di un altro disco ornettiano, «Free Jazz», principalmente perché essa sottolineava come il jazz appartenesse di diritto al novero delle arti, collegando nella fattispecie la musica alla pittura (un dipinto di Jackson Pollock, peraltro fuorviante nel caso in questione…).

Quella di «The Shape Of Jazz To Come» è, invece, di gran lunga superiore sul piano concettuale.
Per entrare nel merito, si vedono spiccare nella foto di copertina due elementi significativi. Uno è il modo «dolce» con il quale Ornette Coleman abbraccia il suo sassofono di plastica bianca (strumento, sia detto fra parentesi, che Charlie Parker aveva usato occasionalmente). Ma l’aspetto più interessante è l’altro: pur in posizione frontale, pur consapevole di essere inquadrato da un fotografo, Ornette non guarda, come suol dirsi, «in macchina». I suoi occhi sono rivolti di poco, anzi di pochissimo, sopra l’obiettivo. Non sappiamo se tutto ciò sia casuale oppure se sia stato voluto da Claxton, ma il risultato è questo: il sassofonista guarda oltre. Comunque, l’intenzione – così come fu per il celeberrimo ritratto di Che Guevara scattato da Alberto Korda – non sembrerebbe deliberata. Il Che ha un’espressione severa, mentre Ornette sorride in modo impercettibile. Alla fine, osservando l’immagine, viene da pensare soprattutto al modo nel quale presso l’Egitto antico venivano in genere ritratti i faraoni: uomini che guardavano lontano con il sorriso impercettibile ma fiducioso di chi sente di avere il futuro sotto controllo e portatore di idee, sogni, possibilità. Il progetto grafico di Marvin Israel, che oggi appare datato nell’impianto e nel lettering, riprende poi lo sfondo rosso vivo della fotografia. Il rosso, si sa, è anche il colore del fuoco e della rivoluzione. È fin troppo evidente, quindi, il senso della fotografia e dell’intera copertina che la contiene.

I PRO E I CONTRO

In quel primo scorcio di carriera del sassofonista, i titoli dei dischi insistono sulla novità, sul futuro al quale guarda Ornette: l’album di esordio si chiama «Something Else!!!!» (Contemporary, anno 1958), cioè «qualcosa d’altro»; l’«opera seconda» ha per titolo «Tomorrow Is The Question!» (Contemporary, anno 1959), cioè «la questione è il domani»; e alla fine del 1959, poco dopo aver realizzato «The Shape Of Jazz To Come», suo primo disco per l’Atlantic, il sassofonista registra per la stessa casa discografica «Change Of The Century», che significa «il cambiamento del secolo».

ornette colemanPer i prodotti destinati a essere immessi sul mercato, ben di rado si viene a sapere se le scelte dei titoli si debbano all’autore oppure all’editore. Ma questi dischi ornettiani difficilmente potevano essere battezzati in modo più appropriato. Fra tutti, «The Shape Of Jazz To Come» ha il titolo più complesso. Esso si riferisce, infatti, al concetto di forma (shape), parola che peraltro non è da intendersi in contrapposizione a contenuto. In una musica qual è quella di Ornette forma e contenuto sono inscindibili, se non indistinguibili. L’operazione compiuta dal sassofonista in questo disco (e appena accennata in «Something Else!!!! – The Music Of Ornette Coleman» e «Tomorrow Is The Question!») è stata, infatti, di far coincidere la massima espressività interiore con la liberazione dalle forme più consolidate: cioè con l’affrancamento della melodia dal giro armonico. Per dirla in parole povere, il tema (e l’arrangiamento, che in Ornette è peraltro rudimentale) costituisce grosso modo un tipo di materiale di lavoro al quale il solista si ispira. Esso ha una melodia e un ritmo. Partendo da questo punto, l’improvvisatore sviluppa il suo assolo in modo che scaturiscano altre melodie, frutto non più dello svisceramento di una successione di accordi bensì di libere associazioni mentali. Il pianista John Lewis, rievocando le prime volte che aveva ascoltato Coleman, vi ha colto perfino qualche parallelo letterario: «Ornette poteva suonare abbastanza a caso usando frasi che non avevi mai sentito prima, ma inframmezzate a queste c’erano frasi che conoscevi molto bene, riprese da vecchi standard o canzoni folk, e ciò mi ricordava l’uso della letteratura in James Joyce o in Dylan Thomas. Per me era una delizia, qualcosa di davvero nuovo nel jazz» (In A New History Of Jazz di Alyn Shipton, Continuum, Londra – New York, 2001).

È in questo disco che coincidono espressività e liberazione dalle forme

Viene da sospettare che a quei tempi la frase «forma del jazz che verrà» possa aver turbato chi vedeva in questa musica un imbarbarimento del jazz: se questo è il futuro… Così, vi furono particolari reazioni dopo la pubblicazione del disco. E dopo il leggendario ingaggio al Five Spot, che oggi possiamo considerare uno dei due grandi avvenimenti dell’autunno culturale newyorkese 1959, assieme all’inaugurazione del Guggenheim Museum disegnato dall’architetto Frank Lloyd Wright. Tra l’altro, in quel periodo la New York jazzistica era ascesa a uno dei picchi del suo splendore, grazie alla fitta circolazione di idee che si svolgeva fra i musicisti. Dalle due settimane inizialmente previste, quell’ingaggio fu esteso a sei, dato che il mondo del jazz era comunque incuriosito dal radicalismo di questo sassofonista texano ancora semisconosciuto. Da quel momento, come opportunamente ha osservato il pianista Paul Bley, il jazz non sarebbe stato più lo stesso. Le critiche negative non vennero solamente dagli ascoltatori di retroguardia. Formidabile fu l’abbaglio preso da Miles Davis, che pure è stato per tutta la sua vita un esempio di apertura mentale: «È sufficiente» dichiarò, sprezzante, al critico Joe Goldberg, «che ascolti quello che scrive e come suona. Quell’uomo dev’essere incasinato dentro di sé» (anche se poi avrebbe riconosciuto a Ornette la capacità di non lasciarsi mai andare a frasi fatte). Né fu più tenero Charles Mingus, la qual cosa è anche comprensibile: mentre il contrabbassista stava sgobbando per ottenere dal jazz la massima libertà senza abbattere i giri armonici, Ornette del sistema degli accordi si disinteressava bellamente.
Il sassofonista ebbe, però, anche sostenitori illustri, come John Lewis, Sonny Rollins, George Russell, Gunther Schuller, Percy Heath. E John Coltrane, il quale cominciò a frequentarlo e a dire di lui: «Lo adoro. Sto seguendo il suo esempio. Ha fatto tanto per aprirmi gli occhi su quello che si può ancora fare»
(N. d’A. Agli inizi degli anni Sessanta sia Coltrane sia Rollins erano talmente affascinati dal lavoro di Coleman che formarono quartetti con Don Cherry, inserendo nelle formazioni altri musicisti ornettiani, come Charlie Haden, Ed Blackwell e Billy Higgins. Inoltre, nel 1965 Coltrane propose addirittura a Coleman di entrare nel suo gruppo, e soltanto per un soffio la cosa non poté realizzarsi. Tra i due vi fu soltanto un paio di incontri sul palco, dei quali non esiste, purtroppo, alcuna traccia registrata).

cherry e coleman
Don Cherry e Ornette Coleman al Five spot nel 1959 – foto dell’archivio Getty Images

Fu John Lewis a convincere i responsabili dell’Atlantic che il sassofonista meritava di entrare nella loro scuderia. Nell’estate del 1959 il lungimirante leader del Modern Jazz Quartet volle, inoltre, che Ornette e Donald Cherry (che solo tempo dopo sarebbe ufficialmente diventato Don) partecipassero come studenti a una sessione estiva della School of Jazz at Music Inn di Lenox, Massachusetts, della quale era in quegli anni il direttore. Tra i fan di Ornette c’era anche un altro membro del Modern Jazz Quartet, appunto Percy Heath, che aveva suonato con lui per la seduta di marzo di «Tomorrow Is The Question!». Del contrabbassista viene riportata un’opinione significativa nelle note di copertina di «The Shape Of Jazz To Come»: «Quando ho sentito per la prima volta Ornette e Don Cherry mi sono chiesto: che cosa stanno facendo?, anche se quasi subito ne sono stato preso. Era come ascoltare Charlie Parker per la prima volta: eccitante e differente; e poi ti rendi conto che si tratta realmente di un nuovo approccio e che ciò produce musica davvero valida». Non è superfluo aggiungere che le composizioni del disco, tutte di Coleman, vennero pubblicate con il copyright Mjq Music, Bmi, quello usato dai membri del Modern Jazz Quartet. I quali diedero in questo modo il loro avallo alla musica di Ornette.

«Quando ho ascoltato per la prima volta Ornette e Don Cherry, non ho potuto fare a meno di domandarmi che diamine stessero combinando, quei due, ma ben presto l’ho capito. Era proprio come quando avevo sentito suonare per la prima volta Charlie Parker: uno stile diverso, una musica entusiasmante, un approccio completamente nuovo e che ottiene grandi risultati» (Percy Heath – 1959)

 

IL GRUPPO

«The Shape Of Jazz To Come» viene realizzato a Hollywood il 22 maggio 1959 ed è formato da sei brani: Lonely Woman, Eventually, Peace, Focus On Sanity, Congeniality e Chronology (N.d’A. In quella stessa seduta vengono registrati altri due pezzi, Monk And The Nun e Just For You, che però restano fuori dal disco. La casa discografica li pubblicherà negli anni Settanta in due album di inediti colemaniani, rispettivamente «Twins» e «The Art Of The Improvisers»). Il gruppo che entra in sala di registrazione comprende il cornettista Don Cherry (1936-95), il contrabbassista Charlie Haden (1937), il batterista Billy Higgins (1936-2001) e naturalmente Ornette Coleman (1930). Si tratta a tutti gli effetti, quindi, di quello che all’epoca veniva chiamato pianoless quartet, quartetto senza pianoforte (l’esclusione dello strumento armonico per eccellenza diventerà poi così frequente nel jazz da non avere più alcun bisogno di specifica). Il pioniere di questo tipo di organico era stato Gerry Mulligan, che nell’estate del 1952 aveva sperimentato per primo (con il trombettista Chet Baker come partner) le possibilità offerte dall’eliminazione del pianoforte. Strumento il quale, creando un accompagnamento basato sugli accordi, finiva inevitabilmente per orientare il solista. Mulligan aveva intrapreso un processo che otteneva almeno due grossi risultati: l’improvvisazione, pur costruita sulle progressioni di accordi, aveva una maggiore libertà di manovra; il rapporto solista-pianista poteva essere in molti momenti sostituito da polifonie che intrecciavano sempre almeno due dei tre strumenti eminentemente melodici (tromba, sax baritono, contrabbasso). Su quest’ultimo terreno stava muovendosi in quegli stessi mesi il Modern Jazz Quartet: occasionalmente il pianista John Lewis abbandonava il ruolo di accompagnatore in senso tradizionale per intrecciare con il vibrafonista Milt Jackson una specie di gioco canto-controcanto. Ornette Coleman, naturalmente, si spinge ben oltre. Il suo disco di esordio aveva visto la presenza di un pianista, Walter Davis

paul bley quintet(N. d’A. Vi sono, inoltre, delle magnifiche registrazioni dal vivo all’Hillcrest Club di Los Angeles (ottobre 1958), in cui quello che sarà il quartetto di «The Shape Of Jazz To Come» viene completato dal pianista Paul Bley. Attualmente questi brani sono in commercio in un Cd della Gambit pubblicato sotto il nome di Ornette. In realtà, Coleman non era il titolare: lui e Cherry erano stati invitati da Bley ad aggiungersi al suo trio, che era completato appunto da Haden e Higgins).

Nel secondo disco, invece, Ornette aveva definitivamente eliminato il pianoforte, ma lui e Cherry avevano avuto accanto una ritmica che, pur composta da eccellenti professionisti, rientrava nelle convenzioni (Red Mitchell e Percy Heath si erano avvicendati al contrabbasso mentre Shelly Manne sedeva alla batteria, fornendo uno swing di impronta classica); era stata con tutta probabilità una scelta del produttore Lester Koenig, che peraltro aveva già avuto grande coraggio nel far registrare per la sua etichetta Contemporary un musicista avanzatissimo come Ornette. Con il passaggio all’Atlantic, il sassofonista ottiene di avere al suo fianco due ritmi a lui ben più congeniali e con loro porta l’esperienza pianoless fino alle estreme conseguenze. In sostanza, attraverso la soppressione del pianoforte, il sassofonista ottiene il risultato di liberare il jazz dal vincolo della tonalità. La quale, a questo punto, può spostarsi continuamente e liberamente secondo la fantasia degli improvvisatori. All’interno del gruppo, dunque, l’interazione non dipende più da un predeterminato terreno di lavoro (progressione degli accordi, tonalità) ma dall’intuito. Il jazz è musica improvvisata, quindi l’intuito fa parte dell’equipaggiamento del bravo jazzista; ma proprio a partire da Ornette Coleman questo diventa uno dei principî costitutivi del fare musica. La dimostrazione definitiva la darà nel 1960 lo stesso Ornette con la storica performance del disco «Free Jazz».

ornette coleman

I BRANI

Quanto detto finora traccia già le grandi linee del disco, anche se qualcosa di più specifico va aggiunto parlando dei brani. Contravvenendo alla regola – valida sia nel jazz sia nel pop-rock – secondo la quale non bisogna cominciare un disco con un brano lento, Ornette Coleman apre «The Shape Of Jazz To Come» con ciò che per clima e per struttura è una ballad, cioè Lonely Woman. In tutta la sua carriera il sassofonista ha scritto pochissimi pezzi di questo tenore. Nei due dischi precedenti, soltanto Lorraine (in «Tomorrow Is The Question!») può considerarsi tale, e per di più unicamente nella prima parte. Eppure, se c’è un tema ornettiano che è diventato famoso e che è stato ripreso spesso da altri musicisti (memorabile la versione del Modern Jazz Quartet), si tratta proprio di Lonely Woman, una delle più drammatiche composizioni della storia del jazz. In questo brano Ornette, che ne è anche l’unico solista, fa un paio di notevoli esperimenti. Anzitutto, usa lo schema AABA, cioè lo schema classico delle ballad, in un modo tutto suo, dato che il B è di durata inferiore rispetto alle parti A, che a loro volta non hanno pari estensione. Ma soprattutto crea un effetto di alta poesia lavorando (e non lavorando…) sul tempo. Il brano viene introdotto dai due ritmi. Higgins dà vita quasi subito a una pulsazione regolare e veloce tenuta sui piatti, mentre Haden strappa alle corde del contrabbasso una cupa espressività. Su questa base, che viene mantenuta per tutta la durata del brano, Coleman e Cherry espongono il tema all’unisono, e lo fanno con un’andatura lenta, che non ha alcun rapporto con quella di Higgins. Nel suo assolo, naturalmente, Ornette esce più volte dalla tonalità di base e si avventura soltanto di rado nel registro acuto. La voce del suo sassofono è straziante. Si può immaginare da questo brano l’incedere della «donna sola» che si perde, disperata, in mezzo al frenetico pulsare della metropoli. Ma, come si diceva, Lonely Woman è una rara eccezione nella musica di Ornette Coleman, che predilige temi scattanti, spesso da considerarsi evoluzione delle composizioni bebop. Come è il successivo Eventually, un forsennato pezzo (anche questo in AABA) che porta all’eccesso la scrittura parkeriana. Peraltro, in questo secondo brano del disco Coleman sottolinea – e già lo aveva fatto in «Something Else!!!!» e in «Tomorrow Is The Question!» – i termini proprio del suo rapporto con Bird. Se come autore gli deve molto, come solista il suo stile non soltanto mostra tracce minime della sua lezione, ma le radici andrebbero cercate piuttosto nel jazz di epoca pre-parkeriana. L’attacco è lo stesso, esclamativo, così come medesima è la potenza sonora. Ma il modo di inventare la linea melodica non prevede gli intervalli sui quali era fondata l’improvvisazione di Parker. Le linee di Ornette non sono quasi mai a zigzag ma fluide, collane di note che si dipanano dal grave all’acuto e viceversa, in un modo che si può far risalire addirittura a Lester Young se non ai gloriosi clarinettisti di New Orleans. Il sassofonista, beninteso, adotta un lessico tutto suo: rende quasi impercettibile il passaggio da una nota a quella immediatamente vicina, come se le scale fossero delle curve; esalta il suo primitivismo con una pronuncia sporca e un disinteresse per l’intonazione accademicamente corretta; spezza le linee con frasette che ripete ossessivamente oppure trilli; dà fondo alla vocalità che lo strumento ha nelle sue mani, arrivando perfino a farlo ridere (al minuto 1:43).

 

«Ritengo che la musica di Ornette avrà un profondo e imperante effetto su tutte quante le forme del jazz, anche se non sono certo il solo a essersi reso conto della sua freschezza e originalità.Come tutte le innovazioni davvero valide, ciò che propone ornette finisce per sembrare autentico, semplice e inevitabile, ma ci rendiamo ben presto conto che solo una persona di tanta e sublime ostinazione poteva esserne capace» (Martin Williams – 1959)

 

Eventually è anche il primo brano nel quale Don Cherry mostra con chiarezza un rapporto gemellare con il leader. Il suo assolo parte ripetendo le ultime note di quello di Ornette e si dipana più o meno secondo gli stessi principi, ferma restando la differenza dello strumento. Fra i brani del disco, il lirico Peace è quello attraverso il quale è più facile capire l’arte ornettiana. Ciò perché possiede elementi riconoscibili: si svolge a tempo moderato, il tema è orecchiabile e di grande bellezza, Haden ha prevalentemente un classico ruolo da walking bass, Higgins accompagna con uno swing leggero, e i due strumenti a fiato non hanno le asprezze evidenziate nel brano precedente. Tutte le caratteristiche improvvisative di Ornette delle quali abbiamo parlato si presentano qui in forma più accessibile; ed è più frequente l’allungare la nota oltre la scansione, una caratteristica che si può far risalire a Billie Holiday e, prima di lei, al canto blues (che è stato uno dei cardini della formazione poetica del sassofonista). C’è, poi, una delle più notevoli improvvisazioni di Cherry fino a quella data, soprattutto sotto l’aspetto della costruzione dell’assolo. Invece Focus On Sanity, uno dei temi più conosciuti e bizzarri del primo Ornette, si segnala anche perché nella prima parte mette Haden e Higgins in primo piano. Il batterista sostiene il contrabbassista con un drive preciso e stimolante che ricorda l’Art Blakey non leader (per esempio quello che accompagnava Monk). E Haden suona alla sua maniera potente e scabra, uno stile che ha avuto pochissimi epigoni e che fa percepire all’ascoltatore il legno del contrabbasso: uno stile, verrebbe da dire, «di campagna» e intriso di blues (N. d’A. L’orientamento blues di Haden troverà il suo sbocco più esplicito nel 1995, quando il contrabbassista accompagnerà il cantante e armonicista James Cotton nell’eccellente album «Deep In The Blues»).

 

«Nel 1830, l’élite musicale parigina si ritrovò di fronte alla strana musica di un giovane compositore chiamato Hector Berlioz, e non fu un incontro cordiale. Pubblico e musicisti furono concordi nell’accusarlo di non conoscere l’armonia, di non avere senso melodico, di produrre orribili dissonanze e costringere gli strumenti a suonare in maniera bizzarra e orribile. Vent’anni dopo, però, era tutto cambiato. lo stesso sta accadendo con Ornette» (Gunther Schuller – 1959)

 

Ornette Coleman è un compositore eccezionale – cosa che andrebbe sottolineata più spesso – e lo dimostra negli ultimi due pezzi di «The Shape Of Jazz To Come». In Congeniality e Chronology Ornette, come accadde spesso nella prima parte della carriera, si confronta con la scrittura bop, la quale viene da lui ripresa ma subito sottoposta a ripetute forzature attraverso improvvise variazioni di tempo. Sono temi ben strutturati (N.d’A. Come ha notato Stefano Zenni osservando la prima parte della carriera di Ornette, «brani come Chronology, Eventually, Monk And The Nun, Una muy bonita, Bird Food sono tutti basati su regolari giri armonici, ma gli ascoltatori dell’epoca li percepivano come improvvisazioni libere, prive di strutture formali, perché Coleman, Don Cherry e Charlie Haden fraseggiavano senza curarsi troppo degli accordi di base» in I segreti del jazz, Stampa Alternativa 2008) e allegri, la cui regolarità viene spesso interrotta. Dopodiché le parti solistiche possiedono lo slancio, la spontaneità e la freschezza che si ottiene in genere non negli studi di registrazione ma nel corso delle jam session. In Chronology, poi, erompono nell’assolo di Don Cherry quel meraviglioso senso del gioco e quegli stupori infantili che hanno reso indimenticabili le improvvisazioni del cornettista.

Giuseppe Piacentino

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