Jazz & Cinema: Sonny Rollins – Swing e pistole

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Rispetto ai suoi compagni di scuola, musica e divertimenti nella New York dei primi anni Quaranta – Kenny Drew, Walter Bishop jr, Art Taylor e Jackie McLean – il giovane Sonny Rollins era animato da una passione morbosa: andare al cinema. Lui stesso ha rievocato, in molte interviste, i lunghi pomeriggi spesi nelle sale cinematografiche di Harlem a godersi tre, quattro film l’uno dopo l’altro; un dettaglio che spiega alla perfezione la sua enciclopedica conoscenza di polverosissime canzoni ormai dimenticate da tutti ma che, nei suoi ricordi, sono implacabilmente associate a questa o quella pellicola.
E il genere preferito dall’adolescente Rollins era il western. Addirittura, come ricordava lui stesso al giornalista Marc Myers nel 2009, la sua passione per i film di cowboy è stata di gran lunga antecedente a quella per la musica: «Ho iniziato a guardarli a sei anni e ho subito scoperto che avevano il potere di trasportarmi in un’altra realtà. Non che quella in cui vivevo io fosse brutta, no; ma i film western mi facevano credere all’esistenza di un mondo utopico, fatto di libertà e spazi infiniti, e in cui, alla fine, la giustizia ne usciva vincitrice. Nella mia visione di bambino, l’aspetto più importante era che i buoni trionfavano sempre».

Il primo musical-western afro-americano: «Harlem on the Prairie»

Tra le molte sale cinematografiche newyorkesi frequentate dal giovane Rollins citiamo il Renaissance, l’Odeon e il Lincoln (dove vide nel 1936 il suo primo film, Follie d’inverno). Fu in una di queste che, nel 1938, Sonny s’imbatté in Harlem on the Prairie, il primo musical-western afro-americano che, l’anno precedente, aveva debuttato in un cinema tra Broadway e la Quarantaduesima, il Rialto Theatre.
L’interprete di Harlem on the Prairie era un singolare personaggio ribattezzatosi Herbert Jeffrey, che di lì a un paio d’anni, sotto il nome di Herb Jeffries, sarebbe stato ingaggiato come cantante da Duke Ellington vendendo milioni di copie del 78 giri Flamingo. La cosa singolare è che sotto i nomi d’arte di Jeffrey/Jeffries, scomparso nel 2014 a 101 anni e rimasto in attività praticamente fino all’ultimo, si nascondeva in realtà Umberto Valentino, nato a Detroit nel 1913 da padre siciliano e madre irlandese: le presunte origini afroamericane si ridurrebbero forse – a detta dello stesso Jeffries – a un bisnonno etiopico, anche se per tutta la sua carriera Jeffries fu soprannominato «the first Black singing cowboy».

Tutto questo per dire che nel 1957, quando la Contemporary lanciò sul mercato «Way out West», sulla cui copertina appariva un Rollins appiedato nel deserto del Mojave, con tanto di cappello Stetson, cinturone e fondina (vuota), più sax tenore sottobraccio, l’immagine del musicista di jazz come cavaliere solitario non aveva certo abbandonato la mente del sassofonista: anzi. Tra l’altro, la scarsa presenza nera nella storia del western cinematografico è un’evidente falsificazione: alla fine del XIX secolo, almeno un quarto dei cowboy del Far West era afroamericano, così come dimostrato da numerosi studi recenti.

La band di Basie in «Mezzogiorno e mezzo di fuoco»

Ecco che, alla luce di quanto detto, il surrealismo della celeberrima scena di Mezzogiorno e mezzo di fuoco (Blazing Saddles, Mel Brooks 1974) in cui l’ex galeotto nero diventato sceriffo, interpretato da Cleavon Little, s’imbatte nella big band di Basie che suona April in Paris in pieno deserto non sembra più così improbabile (e, tanto per notare qualche altro collegamento, bisogna ricordare che l’autore della citata immagine di «Way Out West», il grande William Claxton, è lo stesso che nel 1960 firmò la foto di copertina di «2000 Years With Carl Reiner & Mel Brooks», primo album della coppia).

Insomma, i collegamenti tra due dei più importanti contributi degli Stati Uniti alla cultura mondiale, il jazz e il western, sono più frequenti e sottili di quel che comunemente sembra. Altri esempi, tra i tanti? Non predicare… spara! (Buck and the Preacher, 1972), il primo film diretto da Sidney Poitier (e interpretato da Harry Belafonte e dallo stesso Poitier), vanta una colonna sonora di forte influenza jazzistica firmata nientemeno che da Benny Carter, anche se è ambientato al termine della Guerra civile. Ma l’uso più improbabile del jazz nel western è rintracciabile nella serie Tv Shotgun Slade, andata in onda dal 1959 al 1961 e commentata dagli arrangiamenti per big band di Gerald Fried, con il chitarrista Howard Roberts come solista principale in partiture nettamente ispirate al Basie dei tardi anni Cinquanta. E la cosa buffa è che tra cowboy, indiani e pistoleri il jazz funzionava a meraviglia.

Copertina della colonna sonora (jazzistica) della serie tv di ambientazione western «Shotgun Slade».

Luca Conti