Si potrebbe vedere la carriera di John Coltrane come un’automobile giocattolo a cui viene lentamente e a fondo caricata la molla e che, lasciata andare al suolo, parte come una saetta sormontando ogni ostacolo e alla fine fermandosi inesorabilmente contro un muro.
Il punto di stacco, di partenza veloce e decisa dell’automobile, corrisponde, nella carriera di Coltrane, all’album «Giant Steps» (1959); da quel momento in poi, dopo un apprendistato come sideman anche con orchestre di rhythm and blues e dopo un continuo progredire come solista, soprattutto nei gruppi di Thelonious Monk e Miles Davis (e contemporaneamente in gruppi propri), per Coltrane la musica sarebbe stata un costante work in progress. Presto avrebbe scardinato i canoni (relativamente) usurati su cui si riposava da tempo il jazz, mettendo a punto una sintassi che per intensità, quantità, qualità e potenza di condizionamento non ha eguali nella musica afroamericana, a parte i casi supremi di Louis Armstrong e Charlie Parker. «Giant Steps» è lo spartiacque fra il Coltrane più acerbo e convenzionale e quello più maturo e sperimentale che avrebbe sempre continuato a evolversi studiando e ricercando. Anche con la molla ancora ben carica, si fermerà solo incontrando il muro: sarebbe morto il 17 luglio 1967, senza nemmeno aver compiuto i quarantun anni, per un tumore al fegato.
Con il titolo Giant Steps, «passi da gigante», dato prima al brano specifico e poi all’intero album che lo contiene, Coltrane non voleva riferirsi ai propri seppur evidenti miglioramenti di concezione e di tecnica (era un uomo schivo e timido, e compiacersi sino a definire giganteschi i passi del proprio cammino artistico non era nella sua indole poco smargiassa), bensì, secondo quanto lui stesso asseriva, ai lunghi balzi da terze minori a quarte con cui ha fatto muovere nel contesto il contrabbasso, contrastando con gli accordi gremiti di note provenienti dal suo sassofono che pure ha dovuto affrontare incessantemente durante l’esecuzione ampi salti fra tonalità distanti fra loro.
John William Coltrane era nato a Hamlet, nella Carolina del Nord, il 23 settembre 1926. Soprannominato Trane per l’assonanza con train e per il suo irruento e inarrestabile impeto nel fraseggiare che lo faceva assomigliare a un treno in corsa, è da annoverarsi tra i più grandi sassofonisti della storia del jazz. I suoi inizi non erano stati però forieri di cotanta grandezza. Aveva iniziato la professione nel 1945 e per una decina di anni si era barcamenato fra scritture di vario tipo, anche di rhythm and blues, senza mai eccellere e raramente uscendo in assolo: fu con Joe Webb, Eddie Vinson, Mel Melvin, Cal Massey, Howard McGhee, Mike Patton, Dizzy Gillespie, Earl Bostic, Johnny Hodges. Beveva molto e nel 1953 aveva cominciato a drogarsi, tanto da subire alti e bassi nelle proprie performance musicali.
Entrò nel gruppo di Miles Davis nel 1955 incidendo i suoi primi assoli nell’ottobre; vi rimase sino al novembre del 1956, quando Davis gli diede l’aut aut: o smetteva di drogarsi o se ne andava. Coltrane si licenziò, ma subito dopo decise di disintossicarsi e con uno sforzo sovrumano riuscì nell’intento (usando il cosiddetto metodo del tacchino freddo, già usato da Davis), abolendo nel frattempo anche alcol e sigarette. A metà del 1957 s’era quindi liberato da ogni dipendenza, e da quel momento si sarebbe dedicato completamente alla musica, con studio «matto e disperatissimo». Da metà del 1957 al novembre fu per sei mesi con Thelonious Monk. Tornò con Davis nel 1957 rimanendovi sino al 1959. Nel frattempo aveva firmato un contratto biennale con la Prestige con la quale registrò i primi dischi a proprio nome. Quello Prestige è il primo periodo di Coltrane (dal 1955 al 1958), cui seguirà quello Atlantic (1959-61) e quello Impulse (1961-67).
Nel 1959 Trane era pronto a lasciare Davis per reggersi sulle proprie gambe e dirigere una propria band. Era mentalmente e fisicamente a posto; pieno di forza e di idee che stavano germogliandogli dentro. Non fu una decisione presa alla leggera, quella di lasciare Davis: in primo luogo per la paga, che era consistente e soprattutto sicura; poi perché Davis insisteva affinché rimanesse nel gruppo. Invece il cambio di casa discografica, nel gennaio del 1959, rappresentò per Coltrane un avanzamento di carriera, o quantomeno un notevole miglioramento economico (settemila dollari all’anno, non una cifra da nababbo, ma considerando i tempi una più che rispettabile sommetta). In quell’epoca era tra i jazzisti più pagati dopo Davis e Brubeck; del resto era il sassofonista più celebre, assieme a Sonny Rollins, che fra l’altro proprio in quel 1959 gli aveva lasciato temporaneamente campo libero andando per un paio d’anni in ritiro, il famoso periodo del ponte di Williamsburg.
Un horror vacui
La fine della sua collaborazione con Davis, nel 1959, coincise con l’inizio di quella con l’etichetta Atlantic: così Coltrane si trovò a incidere negli stessi mesi «Kind Of Blue» di Miles per la Columbia e il proprio «Giant Steps» per l’Atlantic, diventando contemporaneamente protagonista di due dei più influenti e geniali dischi della storia del jazz. Miles in «Kind Of Blue» affrontò atipicamente l’hard bop allora imperante, cioè più con la leggerezza del poeta che con il cipiglio del corazziere: la sua tromba diventa essenziale, allusiva, aritmicamente asciutta, di un’irrequietezza malinconica. Se ci si rifà alla dicotomia horror vacui e horror pleni evidenziata dal critico d’arte Gillo Dorfles, dicotomia che viene a rappresentare modi opposti di atteggiarsi (re-agire) verso il mondo (anche se per l’insigne studioso è soprattutto l’horror pleni ad appartenere all’uomo moderno, sgomento per il sovraccarico di segni e di informazioni da cui quotidianamente è sommerso), l’eloquio di Davis diventa epitome dell’horror pleni; mentre quello di John Coltrane che si cala pienamente nel genere con un sassofono tenore travolgente, contorto, ossessivo e incalzante, diventa epitome dell’horror vacui. Proprio la contrapposizione stilistica fra i due, raggiungendo una perfetta sintesi di complementarietà, crea uno dei fascini dell’opera. Con «Giant Steps» John Coltrane rincara la dose, sembrando reagire ancor più veementemente all’horror vacui dimostrato nella sua militanza con Davis. Ma, se da una parte rincalza gli stilemi dell’hard bop, dall’altra ne decreta la fine portandone alle estreme conseguenze le istanze; così iniziando il suo volo oltre l’usuale, il conforme, il solito, il convenzionale.
Una falsa partenza
La prima seduta per l’Atlantic è del 15 gennaio 1959 e va a formare il disco «Bags And Trane», dove Coltrane è co-leader assieme a Milt Jackson, il vibrafonista del Modern jazz Quartet. Ma il primo disco di Coltrane pubblicato per l’Atlantic è «Giant Steps», perché «Bags And Trane» fu fatto slittare al 1961. «Giant Steps» ebbe due pubblicazioni ravvicinate, una alla fine del dicembre di quello stesso 1959, l’altra alla fine del gennaio 1960, entrambe con numero di serie 1311 (SD1311 per la versione stereo), con l’etichetta interna color nero con scritte in argento per la versione mono e color verde con scritte in nero per la versione stereo, una chicca per i collezionisti (e ancor più le poche copie stampate con un’etichetta di transizione denominata bulls-eye label, multicolore arancio-viola per il mono e grigio-blu per lo stereo).
Il disco fu inciso in tre sedute con brani interamente composti da Coltrane: Countdown e Spiral il 4 maggio (con Tommy Flanagan al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Art Taylor alla batteria), Giant Steps, Cousin Mary e Mr. P.C. il 5 maggio (con la medesima formazione) e Naima il 2 dicembre (con Wynton Kelly e Jimmy Cobb al posto rispettivamente di Flanagan e Taylor, ricostituendo in pratica la sezione ritmica di Davis).
Il 4 maggio venne registrato anche Sweet Sioux, bocciato e poi perso nei meandri degli archivi della casa discografica e mai pubblicato. Inoltre Coltrane era stato in sala di registrazione anche un mese prima, il primo aprile, registrando diverse takes di Giant Steps e Naima, con Cedar Walton al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Lex Humphries alla batteria, ma rimanendone insoddisfatto (in effetti erano versioni più leziose e meno dirette e implacabili di quelle successive). Adesso il sassofonista aveva il tempo di pianificare e organizzare le proprie sedute e anche quindi di cassare quelle che riteneva insoddisfacenti: infatti tutto questo materiale rimase negli archivi dell’Atlantic per anni e pubblicato solo dopo la sua morte.
Le terze maggiori
Con «Giant Steps» Coltrane porta alla perfezione le sue complicate sheets of sound, «cortine di suono» (espressione coniata dal critico Ira Gitler nelle note di copertina di «Soultrane», disco registrato a inizio 1958), cioè centinaia di note suonate velocissimamente dall’alto al basso e viceversa in frasi lunghe eseguite in sedicesimi (semicrome) o in trentaduesimi (biscrome) come a voler fondere fra loro le note in una specie di continuo vorticoso glissando. Disarticola gli spazi armonici come per liberarsi degli accordi, sostituendoli con pedali modaleggianti su cui costruisce assoli a mo’ di scatole cinesi, uno dentro l’altro. Mette infine a punto un modo di improvvisare basato sulle progressioni armoniche del cosiddetto triangolo delle terze maggiori, modo insolito e di grande difficoltà per il solista, progressione sviluppata a partire da un esercizio che aveva scritto per lo studio dello strumento e diventata a sua volta oggetto di studio per i musicisti, spesso indicata come Coltrane Changes o Coltrane Matrix.
Tutti i brani sono rilevanti, veri e propri capolavori riusciti in ogni singolo elemento e si presentano con un’omogeneità quasi monolitica, dai temi portanti alle linee di basso, dalle parti di pianoforte alle ritmiche di batteria e, ovviamente, agli assoli di sax: tema e assolo si fondono diventando un tutt’uno, l’improvvisazione prosegue il tema come se fosse tema e il tema chiude l’assolo come se fosse parte di esso. Il modo è certo matematico, ma non esclude la passionalità, è logico senza escludere l’istintività della soluzione subitanea. Coltrane conferisce il massimo di attenzione ai dettagli, molto più di prima o dopo, sembra non esserci una virgola al posto sbagliato. Anche se i brani sono lunghi, non si ha mai l’impressione di allungamento del brodo, come si poteva avere in alcune improvvisazioni precedenti con la Prestige. Il brano più importante è certamente il travolgente Giant Steps, dove soprattutto il sassofonista presenta la progressione armonica da lui ideata basata su intervalli di terza maggiore, di tale difficoltà per il solista (anche perché il tempo è staccato velocissimo) che sarebbe diventato in futuro una sorta di sfida definitiva per ogni improvvisatore (le difficoltà sono dimostrate dalla fatica di esecuzione dimostrata sia da Cedar Walton nelle diverse takes della seduta del primo aprile che da Tommy Flanagan in quella del 5 maggio).
La modulazione di terza maggiore, per lo studioso di numerologia Coltrane, aveva il pregio di dividere l’ottava in tre parti uguali potendo inscrivere un triangolo equilatero nel circolo delle quinte che per la sua forma mentis numerologica e cabalistica era la quadratura del cerchio: le segrete corrispondenze fra i suoni e i numeri venivano a risolvere l’antinomia fra il suo continuo cercare il progresso tecnico e il suo viscerale afflato verso il regresso primordiale. Coltrane, girando turbinosamente dentro questo cerchio, rimbalza solo negli apici degli angoli del triangolo equilatero inscritto, componendo un capolavoro di trionfante e trascinante forza ascensionale.
Il triangolo delle terze maggiori è applicato da Coltrane anche in Countdown, preso a velocità ancora maggiore, sul giro armonico di Tune Up di Miles Davis e Eddie Vinson. Gli strumenti vi entrano uno alla volta, batteria, tenore, pianoforte, contrabbasso; quando l’ultimo ha fatto la sua comparsa, si espone il tema e il pezzo è finito.
Cousin Mary (dedicata alla cugina) è un ingegnoso blues alterato armonicamente, in cui come ha spiegato lo stesso Coltrane, sebbene i cambi non siano delle progressioni convenzionali del blues, si cerca ugualmente di mantenerne lo spirito.
Mr. P.C. (dedicato a Paul Chambers) è un più canonico blues in minore, preso a velocità sostenuta.
Syeeda’s Song Flute è un omaggio alla figlia – che allora aveva dieci anni – perché, spiega sempre Coltrane, una volta composta gli era sembrata una di quelle canzoni fatte apposta per rendere felici i bambini.
In Spiral Coltrane fa uso del pedale, cioè mantiene una voce costantemente ripetuta su un unico centro tonale mentre le altre si muovono sopra. L’uso del pedale era un’altra delle sue idee fisse: esso consente, come in Spiral, di costruire assoli concitati e inquieti (il titolo dà l’idea di come il solista si accanisca a spirale sul solo centro tonale che costituisce il pedale); oppure giocare sulla tranquillità, la placidità e la calma come nel tenero Naima (che è il nome, di origine araba, della prima moglie di Coltrane, Juanita Grubbs), dove un unico pedale al basso lega tra loro accordi diversi e la melodia breve e commossa di una dolcezza e una tensione incomparabili. Naima è l’esatto contrario di Giant Steps: è lenta, senza improvvisazione, bastando la bellezza della melodia e del suono del sax a raggiungere una toccante intensità espressiva, come a ridare valore alla pura semplicità (l’horror pleni di Davis).
«GIANT STEPS»: UN WORK IN PROGRESS
1 aprile 1959, New York City
John Coltrane (ten.) Cedar Walton (p.) Paul Chambers (cb.) Lex Humphries (batt.)
Giant Steps, Naima, Like Sonny
4 maggio 1959 New York city
John Coltrane (ten.) Tommy Flanagan (p.) Paul Chambers (cb.) Art Taylor (batt.)
Cousin Mary (take 1) Cousin Mary (take 2) Spiral Sweet Sioux (inedito)
5 maggio 1959 New York city
John Coltrane (ten.) Tommy Flanagan (p.) Paul Chambers (cb.) Art Taylor (batt.)
Countdown (2 takes), Naima, Syeeda’s Song Flute (2 takes), Mr. P.C., Giant Steps
Come in tutte le opere d’arte, in «Giant Steps» non c’è solo il vile corpus della materia musicale, ma anche i riflessi, i riverberi. Riflessi limpidi, ma densi, densissimi, che ritornano alla materia diventando un tutt’uno. Luminosi, ma folti. Pesanti, quasi più pesanti del corpus materico stesso, dell’improvvisazione che procede inesorabile. L’intensità, la penetrante intensità di Coltrane diventa anche affare mentale, non solo di materia (per parafrasare un asserto di Leonardo da Vinci). I muri di suono di strapotente qualità espressiva alla fine si fanno muro unico, dove l’intensità dell’udibile è concentrata come al termine di un diabolico processo di solidificazione. La speculazione altissima è tenuta al massimo livello di rischio sperimentale e di realizzazione del pensiero rappresentativo del bop: è il bop portato alle estreme conseguenze melodiche, ritmiche e armoniche traslato in quello che c’è di imperituro nell’avanguardia. Tutto comincia, dopo tanta preparazione, fra infiniti tormenti e con infinito strazio poetico, con «Giant Steps». Si farebbe torto a Coltrane se non si comprendessero le impervie montagne che ha superato per arrivare agli ultimi pastorali afflati giù a valle, quando sembra tornare al punto di partenza dopo aver lasciato una serie memorabile di capolavori.
Aldo Gianolio
Una analisi musicale del disco, brano per brano
Giant Steps
Il titolo non cela fascinose metafore, legate magari all’evoluzione dello strumentista Coltrane, o all’abilità tecnica indispensabile per potersi avvicinare a questo brano, bestia nera degli apprendisti jazzisti: è il centro tonale della composizione a compiere i balzi inusuali (e complicati da affrontare in fase di improvvisazione) cui fa riferimento il titolo. Nell’arco delle sedici misure del tema, preso tra l’altro a velocità molto sostenuta, si susseguono repentinamente ben ventisei accordi, ma il centro tonale gravita attorno a sole tre scale: Si maggiore, Mi bemolle maggiore, Sol maggiore. Si tratta di tre note, distanti tra loro una terza maggiore (quattro semitoni), che dividono l’ottava (che è composta da dodici scalini di semitono) in tre parti uguali. Pezzi eseguiti a velocità elevate e pieni di accordi erano, in effetti, il pane quotidiano del jazzista post bop, ma gli spostamenti di centro tonale della stragrande maggioranza dei brani in repertorio erano abbastanza standardizzati, e comunque le modulazioni di terza maggiore non erano frequentissime. Le più ricorrenti all’interno delle griglie armoniche dei brani più frequentati prevedevano salti di semitono, di tono o di quarta ascendente. L’improvvisatore poteva così sviluppare un collaudato ed efficace repertorio di automatismi tattili, che gli permettevano sempre di trarsi d’impaccio, anche affrontando brani non conosciuti, purché basati su quelle progressioni, su quei nuclei armonici, lungamente praticati. La sezione B di qualche standard, il bridge, modulava a volte a distanza di terza maggiore (succede in In A Sentimental Mood, per esempio), ma l’esecutore aveva tutto il tempo di preparare il passaggio e, in ogni caso, una volta avvenuta la modulazione, la nuova tonalità era mantenuta spesso per tutta la durata della sezione.
Coltrane spinge ai limiti questa tecnica, creando una modulazione continua, circolare e rapidissima, procedendo per salti ascendenti o discendenti di terza maggiore e preparando ogni nuova tonica con il relativo accordo di settima di dominante (o con la relativa progressione II V I). Il risultato è un vortice di accordi e di tensioni, tenuti insieme da un tema che è un piccolo miracolo di semplicità e cantabilità, se si tiene conto di ciò che accade armonicamente. La griglia armonica di Giant Steps rendeva di fatto inutilizzabili gli automatismi che ogni jazzista tiene in serbo per i momenti meno ispirati.
A spulciare bene nei vari real books, ci si imbatte in un noto standard considerato ostico da suonare per via di un bridge costruito proprio con modulazioni simili a quelle di Giant Steps, così simili da far ritenere che lo stesso Coltrane ne abbia tratto evidente ispirazione. Si tratta di Have You Met Miss Jones?, di Richard Rodgers, che nel bridge modula da Si bemolle maggiore a Sol bemolle maggiore a Re maggiore: salti discendenti di terza maggiore, l’ottava divisa in tre. Praticamente i Coltrane Changes (così sono stati poi definiti i cambi d’accordo di Giant Steps) erano già lì. Ma Coltrane ha smontato il giocattolo, si è impadronito del meccanismo e ha cominciato ad applicarlo non solo scrivendo nuovi brani basati sulla progressione, ma anche sostituendo con essa gli accordi tradizionali e convenzionali di molti standard, regalandoci così riletture visionarie e stupefacenti. La stessa Countdown è una riarmonizzazione della davisiana Tune Up, con l’uso dei Coltrane Changes.
Ascoltare il sassofonista che improvvisa a tutta velocità su questa struttura armonica impervia lascia di stucco ancora oggi, dopo cinquant’anni. Il fraseggio è debordante, trascinante, le idee melodiche sembrano inesauribili, chiarezza e forza espressiva di ogni frase sono ineguagliabili, e il tutto con il suono di John Coltrane. I continui spostamenti di centro tonale disorientano con quell’idea di circolarità, come tornare continuamente a un punto di partenza per poi essere nuovamente proiettati lontanissimo.
Si è detto spesso che in queste registrazioni il leader è anni luce avanti rispetto ai compagni, una sorta di fase di passaggio in cui Coltrane usa dei musicisti (peraltro eccezionali) come mero supporto funzionale all’espressione di idee assolutamente personali. Qualcosa di ben diverso dalla prodigiosa coesione del quartetto con McCoy Tyner. Il celebre assolo di pianoforte, incerto e zoppicante, di un maestro come Tommy Flanagan, in chiara difficoltà alle prese con la struttura armonica e la velocità di Giant Steps (ma che anni dopo ebbe modo di rifarsi in un disco in trio intitolato proprio così, «Giant Steps»!), è la dimostrazione di quanto Trane fosse avanti.
Il brano che intitola il disco è senz’altro il più rappresentativo ma gli altri sei sono altrettanti capolavori, che racchiudono molti altri elementi di originalità.
Cousin Mary
È un singolare blues che dalla tradizione eredita la tipica struttura di dodici battute oltre che, più in generale, il sapore, ma l’armonia sulla quale il tema si poggia non è quella classica. Coltrane si produce in un altro assolo esemplare, da gustare nota per nota (e le note sono tante). Le frasi si inerpicano sugli insoliti changes con sconcertante naturalezza, non ci sono incertezze di emissione, non c’è una nota falsa, solo un travolgente flusso di strepitose invenzioni melodiche e quel personalissimo senso del blues. È evidente che Coltrane aveva lavorato duramente su questa e sulle altre progressioni armoniche dei brani e proprio la sua imbarazzante disinvoltura rende ancora una volta ingeneroso il contrasto con il seguente assolo di Flanagan, più coerente di quello su Giant Steps, ma di nuovo lontano dai suoi abituali livelli. Anche in questo caso la tonalità del pezzo (La bemolle, insolita per un blues) e la velocità sostenuta del brano non facilitano le cose per il pianista che parte nuovamente incerto, per poi focalizzare meglio il suo assolo, ricorrendo anche a qualche trucco del mestiere (un frequente accordo di 13a/#11a suonato sulle battute di La bemolle, un paio di passaggi accordali di derivazione gospel).
Countdown
Come detto si tratta di una riarmonizzazione del celebre brano di Miles Davis e Eddie Vinson Tune Up, ottenuta applicando i principi dei Coltrane Changes. Manipolando con questa tecnica brani costruiti sull’ormai abusata progressione II-V-I, Trane apre nuove porte e dipinge inaspettati scenari per gli improvvisatori. Senza avere la pretesa di condensare un trattato di armonia jazz in poche righe, proviamo a sintetizzare l’idea che sta alla base della riarmonizzazione, analizzando solo le prime quattro misure dell’originale davisiano.
È il più classico dei II-V-I (secondo grado, quinto grado, tonica), un tipico e rassicurante percorso armonico che conduce alla momentanea stasi delle ultime due battute, all’accordo conclusivo di riposo. Coltrane vuole giungere alla stessa meta, quel Re maggiore, ma ci arriva mediante un percorso molto più tortuoso e complicato.
Mentre le quattro misure di Tune Up rimangono rigorosamente nella tonalità di Re maggiore, la riarmonizzazione di Countdown compie, in quel breve spazio, tre balzi, tre «passi da gigante»: da re maggiore a Si bemolle maggiore, quindi a Sol bemolle maggiore, per finire ancora a re maggiore. Sono tre tonalità a distanza di una terza maggiore l’una dall’altra, che dividono l’ottava (da Re a Re) in tre parti uguali. Il procedimento è applicato anche nello sviluppo successivo del tema: per tutte le sedici misure del chorus si ripropongono così anche le enormi difficoltà improvvisative tipiche di Giant Steps. Questa intuizione geniale permette a Coltrane, e a tutti i jazzisti dopo di lui, di rivoluzionare, ripensare le sequenze accordali più comuni e di reinterpretare così anche i vecchi standard, rivitalizzandoli attraverso linee melodiche nuove, immaginifiche e fresche, per padroneggiare le quali, tuttavia, è richiesta un’applicazione severa, uno studio lungo e impegnativo.
La struttura di Countdown è anch’essa singolare. Il tema non viene esposto all’inizio ma solo alla fine, mentre l’esecuzione si apre con un’introduzione di batteria e prosegue con Coltrane che improvvisa selvaggiamente sulla struttura incalzante dei suoi nuovi accordi, accompagnato ancora dalla sola batteria di Art Taylor: l’assenza del riferimento armonico del pianoforte e la stratosferica velocità d’esecuzione rendono davvero arduo decifrare il flusso improvvisativo del sax, l’orecchio fa fatica a sistemarlo in una precisa tonalità, ricevendone piuttosto una sensazione di anarchia armonica, di improvvisazione libera. Ma ciò che rende la performance ancora più stupefacente è che in realtà Coltrane sta improvvisando perfettamente, a velocità supersonica e con fluidità disarmante, dentro cambi prestabiliti e particolarmente ostici. Solo l’ingresso successivo di pianoforte e contrabbasso svela l’arcano, finalmente l’idea visionaria e spericolata di Coltrane si chiarisce: ascoltare le linee improvvisate su un riferimento armonico rende ora percepibile la complessità della costruzione. Con una specie di colpo di scena teatrale, Coltrane, solo alla fine, rivela la sua trama esponendo il tema vero e proprio. Pianoforte e contrabbasso non si avventurano in assolo in questo brano. Neanche due minuti e mezzo di puro genio jazzistico.
Spiral
Il pezzo, anche questo un medium-up, si apre con un pedale (una nota fissa tenuta dal basso) sul quale si sviluppa il tema, adagiato su una serie di accordi maggiori discendenti, a salti di semitono. A ogni salto di semitono corrisponde una scala su cui improvvisare, è linguaggio modale e non tonale. Da questa sequenza di accordi, che suggerisce quell’idea di spirale del titolo, scatta improvvisamente uno swingante tema, questa volta squisitamente tonale, in Si minore, che va però a infrangersi ben presto in una nuova spirale di accordi. Il respiro del brano è basato su questa successione di tensione (creata dalla sezione modale) e distensione (determinata dalla risoluzione tonale). Dell’ennesimo assolo perfetto di Coltrane è ormai quasi superfluo dire, ma stavolta anche Flanagan e Chambers si ritagliano brillanti parti solistiche.
Syeda’s Song Flute
Syeeda era il nome della figlia di Coltrane, e il carattere giocoso del brano (quasi una canzone per bambini, come dice Coltrane) ne spiega la dedica. Il pezzo è molto accattivante: il tema ruota all’inizio attorno a due accordi a distanza di mezzo tono l’uno dall’altro e, nell’arco di tutta l’esecuzione, è Paul Chambers a ricoprire un ruolo fondamentale, ora con il suo solido swing in 4 (sempre incollato all’impeccabile Taylor), ora punteggiando con dei salti tonica-quinta lo sviluppo del tema. Anche il suo assolo è stupendo, melodico e ritmico insieme. Coltrane, come del resto su tutti i brani del disco, è ancora in stato di grazia e la transizione dall’assolo del sax a quello del pianoforte è da manuale di improvvisazione e interplay: il sax sfora di qualche beat sul chorus del pianoforte, ma Flanagan non si fa cogliere di sorpresa e riesce a cesellare in tempo reale una frase che è la perfetta e logica continuazione del discorso di Coltrane, per poi lanciarsi a sua volta in un assolo strepitoso, il più bello del pianista sul disco, insieme a quello di Mr. P.C.
Naima
È un altro pezzo immortale, uno dei marchi di fabbrica del genio di Coltrane. Stavolta la dedica è per la moglie. Naima è una ballad di struggente, malinconica bellezza, il cui incantevole tema è basato su una progressione armonica che fa, ancora una volta, largo uso di pedali modali. L’uso della tecnica dei pedali di basso permette, grazie alle cangianti armonie costruite su di essi, di ottenere colori e suggestioni che riflettono pienamente la sensibilità musicale di quel particolare momento. Non dimentichiamo che sono questi i mesi in cui viene registrato «Kind Of Blue», e i musicisti che suonano in Naima, Wynton Kelly al pianoforte e Jimmy Cobb alla batteria (al posto di Flanagan e Taylor), parteciparono in effetti alle sedute di registrazione del capolavoro davisiano. Naima, in particolare, fu incisa successivamente alle sedute di «Kind Of Blue», e fin dalle prime battute è impossibile sottrarsi alla suggestione che questo brano risenta ancora, in qualche modo, dello spirito di quell’album. Le armonizzazioni di Kelly, il cui ruolo nel disco di Davis fu circoscritto alla sola realizzazione di Freddie Freeloader, assumono contorni e retrogusti evansiani e sottolineano magistralmente l’appassionata voce del tenore. Anche nel suo bellissimo assolo il pianista dilata gli spazi, centellina le note, spruzza macchie di colore: è evidente che il lavoro di Evans con Davis aveva fatto breccia anche nella sensibilità dei colleghi musicisti.
Dopo l’intervento del pianoforte Coltrane non prende a sua volta un assolo ma espone nuovamente il tema, che va a concludersi su una sequenza di due accordi maggiori ripetuti, in un finale finalmente sereno, dolce, senza più alcun residuo di urgenza e agitazione interiore.
Mr. P.C.
Il signor P.C. è Paul Chambers, contrabbassista sempre stimatissimo da Coltrane. I due condivisero palcoscenico, studio di registrazione e, purtroppo, anche il destino di una scomparsa prematura. Si tratta di un blues fast in Do minore, questa volta abbastanza tradizionale sia nella struttura armonica, sia nell’esecuzione, basata sulla classica sequenza tema, assolo sax, assolo pianoforte, scambi con la batteria, tema. Ma, pur non introducendo particolari elementi di innovazione, questo pezzo è comunque una magistrale interpretazione, quel tipico brano destinato a essere studiato nei dettagli, i cui assoli vengono «tirati giù» dai musicisti di tutto il mondo e di ogni epoca e il cui tema è frequentemente campo di battaglia in jam session. Oltre al proverbiale assolo impetuoso e torrenziale di Coltrane, vanno segnalati il bellissimo assolo bluesy di Flanagan e l’unico spazio solista concesso nel disco ad Art Taylor, impegnato in un serrato e scoppiettante dialogo con il leader.
Antonio Iammarino