Paolo Conte a 17 anni sul rimorchio di un camion con un’orchestrina dixie

Nel 1952, durante un viaggio a Grenoble, il giovane astigiano si invaghì della musica di Stéphane Grappelli, Sidney Bechet e Django Reinhardt  

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Un giorno del Carnevale 1954, per il centro di Asti, si assiste a uno spettacolo inaudito. Otto ragazzi in verde età, quasi tutti studenti del liceo classico Vittorio Alfieri», sfilano suonando sul rimorchio di un camion come un’orchestrina dixie al Mardi Gras di New Orleans. Si chiamano Original Barrelhouse Jazz Band, portano camicia bianca con farfallino, pantaloni con bretelle colorate e paglietta, e suonano a tutta birra i classici del jazz nella culla, allora molto meno sciupati di oggi: When The Saints Go Marchin’ In, Tiger Rag, quelle dolci nostalgie del tempo che fu. Asti non è una città digiuna di jazz: in quegli stessi anni spicca il volo un grande come Gianni Basso. Però quel dixie per le strade sorprende e fa buon sangue, e la gente applaude, si diverte, dando la carica ai ragazzi che temevano un salto nel buio.

Uno di quei giovani musicisti scatenati, il trombonista, altri non è che Paolo Conte, nello splendore dei suoi diciassette anni. Viene da una famiglia di appassionati di musica, il jazz non lo ha neanche dovuto scoprire ma gli è arrivato dal latte materno e dagli ascolti del giradischi in famiglia, tarato sulla grande canzone americana e francese, sulle più elegante orchestra, su Duke Ellington, Louis Armstrong, Benny Goodman. La spinta decisiva gliel’ha data un viaggio a Grenoble nell‘estate della quinta ginnasio, 1952; lì ha scoperto il magico mondo delle caves jazz e si è invaghito della musica dell’Hot Club de France, inebriandosi dei suoni di Stéphane Grappelli, Sidney Bechet, Django Reinhardt. Gli faranno compagnia tutta la vita, insegnandogli molto.
Conte lo chiamano «il Canadese», in una formazione in cui non valgono più i nomi del registro scolastico ma pseudonimi leggendari; Magnesia, il Bue, Cicalino, Mistinguett. Anche il direttore artistico e arrangiatore ha un nome d’arte, anzi più d’uno: si chiama Domenico Chiodo, detto Mingo, «il Duca» e agli occhi di quegli «emeriti dilettanti, nessuno studio, nessuna tecnica, solo passione e cultura fatta sui dischi» è un mito – lui sì che sa suonare e ha suonato, con veri musicisti. Chiodo è l’insegnante amorevole e severo, un piccolo Socrate che ama dispensare le sue lezioni all’aperto – «jazz peripatetico», chiamiamolo così.
Paolo Conte ricorda «due anni di insegnamenti empirici, ripetuti quotidianamente, che consistevano per camminare per corso Dante e corso Alfieri in fila per quattro, producendo ciascuno un suono diverso con la bocca per imparare ritmi e contrappunti (tu fai ‘’blum’’, tu fai ‘’zum, zum’’, tu fai ‘’rad, rad’’). Così passavano i pomeriggi il guru e i suoi otto adoranti allievi».

Freddy Mancini, Gino Basso, Paolo Conte (vibrafono), Piero Gasparini negli anni sessanta
Da sinistra, Freddy Mancini, Gino Basso, Paolo Conte (vibrafono), Piero Gasparini negli anni sessanta

La passione è divorante, gli ormoni giovanili fanno il resto. Conte e i suoi amici fondano l’USMA, «Unione Studenti Medi Astigiani», e aprono un circolo presso l’associazione Alpini della città. Suonano tutti i sabato pomeriggio, dalle 16 alle 19 e 30, facendo conoscere a compagni e compagne di scuola i tesori dei grandi autori che l’Italia fascista aveva censurato e quella del dopoguerra faticava a scoprire, almeno in provincia: George Gershwin, Cole Porter, Jerome Kern, Rodgers & Hammerstein. Ogni tanto escono dal guscio e provano l’ebbrezza di qualche locale «serio» o di qualche gara tra complessi: unal la vincono persino, al circolo Ferrovieri, eccellendo a un «Festival delle Orchestre Astigiane».
La favola dura fino al 1955, l’anno della maturità per Conte e buona parte dei suoi orchestrali. È una gragnuola di materie da ripetere, Paolo ne ha addirittura cinque sul groppone. Scatta la ghigliottina familiare, e il trombone va in soffitta: non solo metaforicamente. La vita è altro, sembrerebbe, mica Stardust o Take The «A» Train. Conte si iscrive a giurisprudenza e pare farsi strada senza troppi dispiaceri sulla via del padre e del nonno. Il jazz lo solletica ancora, anzi lo rode, e presto torna a frequentarlo. La musica è sempre il dixie beneamato e il grande jazz anni Trenta, ma lo strumento non è più il trombone: Paolo, anzi Paul Conte ora si cimenta con il vibrafono, suona il pianoforte (che da bambino aveva sdegnosamente rifiutato, tanto per ribellarsi ai genitori) e ogni tanto sussurra perfino al microfono, molto diversamente – pare – da come farà da grande.

Dalle ceneri della Original Barrelhouse nasce la Lazy River Band Society, che punta presto le antenne oltre il vej Piemont. È il 1959, i ragazzi si iscrivono al concorso radiofonico «Coppa del Jazz» e calano a Roma per le selezioni finali. Temono di fare la figura dei provincialotti e tremano davanti a rivali agguerriti come la Roman New Orleans Jazz Band, i decani della «via italiana al dixieland». In realtà se la cavano egregiamente: arrivano quarti nella sezione trad e qualcuno si appunta il loro nome. Quando nel 1962 la RCA prepara un’antologia di gruppi dixie italiani, dirama l’invito anche a loro, incaricati di tradurre due pezzi di Nick LaRocca, Original Dixieland One-Step e Fidgety Feet, e uno standard del lontano 1917, Indiana. Il disco si intitola «Italian Way To Dixieland» e riceve un’affettuosa recensione da Musica Jazz, la bibbia dei jazzofili italiani, che non manca di fare i complimenti ai ragazzi di Asti: una band che «dimostra il fatto suo, con la precisione degli assoli, la buona costruzione delle esecuzioni e soprattutto con la sua verve».

Rarissimo primo ep 45 giri di Paolo Conte con quattro brani ( standard jazz ) del 1962 a nome Paul Conte quartet intitolato Italian way to swing. Etichetta RCA
E’ una copia rarissima di un già raro ep di Paolo Conte in quanto è un campione non commerciabile. Si presenta con etichetta bianca e foderina neutra.

Tutti contenti? Macché, lo scrive anche la suddetta bibbia che la band nel frattempo si è sciolta («ed è un vero peccato…; avrebbe potuto essere un elemento interessante nel mondo del jazz tradizionale italiano»). D’altronde è nei patti, quello dello spettacolo è un mondo inquieto e mutevole, e anche ai piani inferiori si balla. Paolo, anzi Paul, si è stancato del teatrino dixie e preferisce lo Swing, più moderno, più nervoso. Mette su un quartetto che porta il suo nome, coinvolge il fratello Giorgio alla batteria, Fred Mancini al pianoforte e Cosimo Occhi al contrabbasso, e chiede alla RCA se può avere spazio. Quelli rispondono sì, anche se con il freno tirato; non un album intero ma mezzo, un EP dieci pollici con quattro brani. Sono didascaliche traduzioni di standard, un bigino per avvicinare i curiosi più che una tesi di laurea per esperti. Così, in francescana umiltà, Conte e i suoi ricalcano fedelmente Christopher Columbus, I Cover The Waterfront, More Than You Know e Out Of Nowhere, «quattro temi che ricorderete nelle rispettive versioni di Chu Berry, Artie Shaw, Benny Goodman e Les Brown». Anche la RCA è didascalica e intitola il disco «Italian Way To Swing», a fare pendant con il dixieland precedente.
È la prima volta che il signor Conte ha il suo nome in bella vista su un disco, e possiamo immaginare l’orgoglio. Soddisfazione, complimenti, copie autografate agli amici, ma poi che accade? Che Musica Jazz recensisce il disco e questa volta picchia duro. Una delusione, scrive Pino Maffei in una colonnina al vetriolo nella rubrica delle recensioni, salvando solo il batterista, il Conte minor, «che merita un posticino in vista nella scala dei valori nazionali». Gli altri sono «musicisti molto modesti», con una menzione particolarmente negativa per il vibrafonista.

Chissà le discussioni al bar dopo un simile pelo e contropelo, e gli sfottò in famiglia. «Eh sì, Paolo l’ho fatto ‘’ciccare’’ non poco», ricorda oggi Giorgio Conte. Il Quartet non regge all’affronto e se ne perdono le tracce. Paul torna Paolo e impacchetta il suo vibrafono, non prima però di avere sfruttato un’altra occasione discografica. Lo chiama Gianni Sanjust, che sarà buon cantante e funzionario discografico ma, prima e soprattutto, è uno stimato clarinettista. Lo chiama e un pomeriggio del settembre 1962 lo porta in studio a Milano, inserendolo nel suo Middle Jazz Sextet che deve registrare per una compilation della Ricordi, «Lo Swing». Vanno sul sicuro: Between The Devil And The Deep Blue Sea, Take The «A» Train, Stardust, Flying Home. È dai tempi di Mingo Chiodo, il Duca, che Conte conosce quei brani, e non sbaglia. I pezzi del sestetto di Sanjust sono tra i più gradevoli di un album, l’ennesimo bigino per principianti, che al Sextet affianca altre cinque formazioni con musicisti come Carlo Lorredo, Luciano Fineschi, Marcello Rosa, Lino Patruno.

Paolo Conte al vibrafono
Un giovane Paolo Conte al vibrafono, in una foto degli anni cinquanta

«Non ero un grande suonatore di vibrafono», racconterà candidamente Paolo anni dopo. Già, ma che importa? Quello che conta è che il jazz è entrato nelle vene del giovane procuratore di Asti, presto avvocato, e non lo lascerà più. Verrà usato, con le distillazioni e trasfigurazioni del caso, nella sua seconda vita; quando comincerà a scrivere canzoni, prima per altri e poi per sé, lungo una strada tortuosa e tutta particolare. Questa second life inizia timidamente alla metà degli anni Sessanta, prende un’accelerata grazie ad Adriano Celentano (Chi era lui, La coppia più bella del mondo, Azzurro) ed esplode nel 1974 quando l’avvocato pubblica il primo album «solo». Ma questa è una storia che sanno tutti. Quello che invece sanno in pochi è che Paolo Conte continua ad avere «la scimmia del jazz» anche negli indaffarati anni in cui si destreggia tra lo studio legale e le prime canzoni leggere. Ascolti su ascolti, dischi su dischi, che restano stampigliati in memoria e vanno a comporre una piccola enciclopedia, soprattutto del genere classico. Potrebbe partecipare a un quiz, si dice in casi del genere, e detto fatto. Paolo Conte, «un avvocato di Asti ex suonatore di vibrafono», come lo presenta Gian Mario Maletto su Musica Jazz, è invitato a rappresentare l’Italia alla quarta edizione del «Quiz Internazionale di Jazz» a Oslo. Deve rispondere a quindici domande più o meno bestiali, su «ascolti ciechi» che spaziano dalle origini del jazz all’attualità. Se la cava alla grandissima e ariva terzo, indovinando naturalmente le domande su Fats Waller, Jimmie Noone e Duke Ellington, confondendo John Lee Hooker con T-Bone Walker nella sezione blues e facendo scena muta davanti a un Keith Jarrett con i pantaloni corti nella band di Charles Lloyd (per la cronaca, è l’unica domanda cui nessuno sa rispondere). Il sospetto fondato è che se i quesiti fossero stati tutti sul jazz d’anteguerra o lo Swing classico, l’avvocato «ex suonatore di vibrafono» avrebbe vinto.

La nuova vita succhia il tempo a Paolo Conte e possiamo immaginare che gli ascolti diradino col tempo, specie a partire dagli anni Ottanta, quando si affollano dischi e concerti in tutto il mondo. Il jazz è un fantasma evocato distintamente in qualche canzone (la trasparente Sotto le stelle del jazz) e poi rielaborato con genio in Razzamatazz, il libro che diventa musical e spartito dei ricordi, tra Asti, Parigi e New Orleans. Un forte amore, con occasionali derive nostalgiche: come nel 1982 e nel 1984, quando il vibrafono è rispolverato per un progetto bolognese di vecchi innamorati dixie, o nel 1985, quando Bruno Lauzi coinvolge il vecchio amico in un suo viaggio nel passato, il trascurato «Back To Jazz». In questi pudichi pellegrinaggi da elefanti sulle piste della giovinezza, Conte ritrova altri «ragazzi scimmia del jazz» che i casi della vita hanno spinto altrove: Pupi Avati per esempio, che sfrigola il clarinetto in Big Butter And Egg Man, e Lauzi, che negli stessi mesi in cui Paolo ragazzino furoreggiava con la Barrelhouse era impegnato a Genova con un altrettanto improbabile Jelly Roll Morton Boys Jazz Band.
Chissà dov’è finito il vibrafono di quei primi anni Sessanta, chissà se esiste ancora la collezione di 78 giri con i dischi dell’amatissimo Louis Armstrong, il mito che la famiglia Conte tentò anche di ammirare dal vivo ma «il sogno si infranse sulla salita del Palucco, causa rottura della pompa di benzina della Fiat 1400 di papà».
Quanto all’idea di rivedere sul palco il non celebre vibrafonista, le speranze sono scarse ma esistono. Conte stesso ha lasciato aperto uno spiraglio, nella prefazione che ha lasciato ad Armando Brignolo per il suo libro sul Jazz ad Asti, Una sottile linea rossa. «Mingo Chiodo da più di quarant’anni ha deciso di non suonare»i, ha scritto. «Ma se volesse prendere in mano uno strumento sarei pronto ad accompagnarlo ancora, per sæcula sæculorum».
Il Duca ha 82 anni, per la cronaca, e il suo allievo 71. Il Buena Vista insegna che mai dire mai.

Riccardo Bertoncelli