Paolo Conte: la rivoluzione del jazz è nata negli anni Venti

Tra un insolito disco strumentale, un tour e l'approssimarsi degli ottant'anni, l'artista astigiano si racconta a 360 gradi.

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Paolo Conte - foto U. Germinale per Phocus Agency

Ti chiederei anzitutto di inquadrare dalla prospettiva che preferisci questo tuo strano ultimo album, praticamente tutto strumentale.
Le musiche raccolte in «Amazing Game» risalgono fino agli anni Novanta. Le più antiche erano servite come plafond per una lettura di poesie di Montale, poi ce ne sono altre scritte per due pièces teatrali, Corto Maltese e Le bal des maniquins. Le tenevo in un cassetto conservandone un buon ricordo, per cui, essendosi venuta a creare questa bella opportunità con la Decca, ho deciso di tirarle fuori. E devo aggiungere che, essendo io un vecchio collezionista di dischi, pubblicarne uno con questo marchio storico, prestigiosissimo, è un grande onore.

Il tuo rapporto con la musica per il teatro, del resto, ha radici antiche. Ricordo di aver assistito più di trent’anni fa a un tuo allestimento col gruppo Mago Povero di Asti centrato su Scaramouche.
Certo. All’epoca la collaborazione con quelli del Mago Povero Teatro Mediterraneo era al quarto anno, alla quarta rappresentazione. Eravamo partiti con un lavoro imperniato su un’immaginaria metamorfosi di Cesare Pavese nel capitano Achab del Moby Dick di Melville, autore molto amato, e anche tradotto, da Pavese. Poi è venuto un On The Road ispirato all’omonimo romanzo di Kerouac, quindi un Galileo che è rimasto per poco nel repertorio del gruppo. Purtroppo, dico io, perché a mio avviso si trattava della cosa migliore. C’è stato quindi questo Scaramouche, che era un po’ una reinvenzione attorno alla figura di questo individuo mitico in cui l’attore surclassava decisamente l’autore adottando il vecchio escamotage del teatro nel teatro. Per le musiche, avevo compiuto il tentativo, se vuoi un po’ cialtrone, proprio all’italiana, di recuperare tutto il bacino mediterraneo, sfiorando la Francia, la stessa Spagna… Ma ci sarebbe potuta stare benissimo anche la Turchia. Ricordo che un critico si era detto sorpreso dalla presenza di certi aromi di sapore scopertamente spagnoleggiante. Ma perbacco: gli attori, a un certo punto, ballavano addirittura un paso doble! Era esattamente quello che volevo fare: raccogliere gli umori di tutta un’Europa di tipo esplicitamente mediterraneo. Il nome del gruppo, del resto, non dà adito a troppi equivoci, e io volevo tradurre in immagini sonore un certo spirito, certi umori, certi profumi che lo spettacolo emanava e spandeva attorno a sé.

Come ti aspetti che possa rapportarsi il tuo pubblico di fronte a questo nuovo album?
Non vedo grossi rischi di comprensione e immedesimazione: c’è sempre il mio stile – chiamiamolo così – presente anche nelle canzoni, quel gusto novecentista che è sempre forte in me. Magari con gli anni che avanzano può anche svilupparsi una qualche vena di follia, ma qui grandi spericolatezze non ce le trovo, perché è musica quasi tutta scritta, salvo un paio di brani improvvisati, quindi free, ma ci tengo a precisare non in senso jazzistico, perché non ci sono i patterns del jazz. E’ un’improvvisazione free proprio perché completamente libera, scevra da ogni specifica appartenenza di genere. Moderna, se vogliamo definirla così.

Hai fatto una serie di riferimenti che non possiamo lasciar cadere: l’età che avanza, il jazz, tua antica passione, e il tuo gusto novecentista. Partiamo dal primo, tenuto conto che il prossimo 6 gennaio virerai la boa degli ottanta. Come ti ci stai approssimando? Agli ottant’anni mi preparo con un po’ di comprensibile fatica ma comunque cercando di tener duro, di reggere gli impegni e ancora di sognare qualcosa. Intanto sono ripartito per un giro di concerti, che in febbraio mi porterà a Parigi e Amburgo. Ovviamente mi prendo ampie pause, tra un impegno e l’altro. Comunque non aspettatevi riflessi di questo nuovo disco: i concerti rispettano la formula consueta, un misto di canzoni vecchie, magari rimesse a nuovo, e altre più recenti.

Da qualche anno in qua hai preso l’abitudine di alternare brani in cui siedi al pianoforte, come una volta facevi sempre, e altri in cui invece ti alzi e ti limiti a cantare. Però proprio in «Amazing Game» c’è un pezzo, Largo sonata per O.R., in cui suoni la marimba, per esempio, e in passato ti sei dedicato spesso al vibrafono. Oggi come ti regoli?
Ho sentito il bisogno di suonare la marimba, in quel brano, per ravvivarlo un pochino, per avere una terza voce, oltre al pianoforte e al violino, come un sostituto un po’ empirico, se vogliamo, di un violoncello. Di vibrafono, invece, ne conservo uno bellissimo, che però serve ormai solo alle donne di casa per appoggiarci sopra tutti i loro vestiti…

Paolo Conte – foto Nicolas Guerin

Veniamo al jazz, di cui sei un appassionato talmente rispettoso da tenerci a precisare che «Amazing Game» non è un disco di jazz, giustamente. E allora ti chiedo: qual è il tuo attuale rapporto con questa musica con cui hai un legame così antico?
Antico, sì, è proprio il caso di dirlo. In effetti sono un vecchissimo lettore proprio di Musica Jazz, di cui conservo annate lontanissime rilegate in volume. Comunque, come collezionista, ho percorso tutto l’iter, tutto il percorso della storia del jazz, e poi piano piano, criticamente, mi sono rifugiato negli arcaici, quegli anni Venti e Trenta in cui sento più forte il profumo di rivoluzione, perché all’epoca si trattava di fare dei distinguo e passare dal non jazz al jazz. In questo senso le rivoluzioni successive, bebop e compagnia bella, mi appaiono più piccole, muovendosi dentro una rivoluzione più grande avvenuta prima, appunto quella fra jazz e non jazz. Questo naturalmente non significa che non ci siano cose che ho amato anche in seguito, però le sento meno rivoluzionarie di quelle arrivate agli albori. Poi magari uno psicanalista potrebbe indagare su una nostalgia che può essermi rimasta addosso verso la musica che ascoltavo in casa da bambino, nell’immediato dopoguerra, grazie ai miei genitori, molto aperti alle novità musicali provenienti dall’America, ma non so se sia del tutto vera questa ipotesi, perché io ho continuato ad ascoltare jazz anche nelle sue forme più avanzate, fino a oggi, ma con una certa consapevolezza critica sono sempre tornato indietro.

Negli anni cui fai riferimento, d’altronde, si registrava in parallelo un autentico pullulare di avanguardie artistiche, in musica come in pittura e non solo. Eccoci quindi al famoso gusto novecentista di cui dicevi…
In effetti ne farei proprio un discorso che abbraccia tutte le arti. Rimanendo per un attimo al jazz, comunque, c’è sempre stata una coincidenza, pur con una piccola sfasatura temporale, con quanto accadeva in ambito classico. Fin dagli anni Dieci, grandi autori come Stravinskij e Ravel avevano aperto delle grandi finestre di interesse e di sensibilità verso il jazz, che nel decennio successivo ha iniziato a ricambiare nitidamente tali aperture, in particolare attraverso certe formazioni bianche di taglio abbastanza cameristico. Penso a Bix Beiderbecke, al primo Joe Venuti… C’era, quindi, questa sorta di marcia parallela. E c’era una potenza particolare: si sente veramente un linguaggio che si forma, che viene costruito e modellato, in quegli anni. C’era un dispiegamento espressivo, nei musicisti sia neri che bianchi, straordinario. È questo che mi ha sempre impressionato.

E della contemporaneità musicale, invece, cosa ti impressiona?
In realtà non vedo grandi novità in giro. Rilevo sempre una grossa presenza, che personalmente mi dà anche un po’ fastidio, del contenuto ai danni della forma, che si disgrega, si modifica, ma sostanzialmente non si rinnova. Trovo, appunto, che ci sia un eccesso di messaggio, troppa voglia di spiegare, che mi sembra una lesione della libertà, così come, per esempio, anche una certa tendenza, da almeno trent’anni a questa parte, ad affidare il ritmo a un gioco troppo pesante di percussioni, non in equilibrio con la componente sia melodica che armonica. Da un po’ di tempo mi vado domandando cosa possa essere invece la musica vista dalla parte di un batterista sensibile, colui che sostanzialmente deve portare il ritmo e non produce nessun suono né melodico né armonico, però assiste a tutto quello che avviene ed è trafitto – magari anche piacevolmente – da armonia e melodia. In quest’ottica va un po’ letta la maniera lieve in cui le musiche di questo mio ultimo album sono state concepite e congegnate. La mia antica passione jazzistica mi porta anche verso il silenzio, che è sempre stato per me una bellissima strategia. I napoletani, che capivano tutto della musica, ai tempi della loro grande tradizione, parlavano di «silenzio cantatore». Quindi il silenzio è eloquentissimo, tanto quanto le parti suonate: trattiene tutta la tensione di quanto è stato suonato un attimo prima e ti restituisce quella stessa tensione un attimo dopo. Non è soltanto un fatto teatrale ma proprio un elemento sostanziale della musica.

Paolo Conte – foto d’Agostino per Phocus Agency

Approfondiamo un attimo il tuo rapporto con la composizione, partendo proprio dai tuoi inizi, di cui in genere si parla pochissimo, vale a dire il periodo in cui scrivevi per altri: quale rapporto avevi a quei tempi con la scrittura, con un mondo che in fin dei conti ti apparteneva fino a un certo punto? Con quali aspettative?
Aspettative particolari non ne avevo. Per mio piacere personale componevo un po’ all’americana, avendo in mente tutte le grandi canzoni, da Gershwin a tutto quel tipo di universo, per cui scrivevo più o meno in quel gusto lì.

Ma poi le cose hanno preso un’altra piega.                          Sì, le cose sono andate per un’altra strada perché all’epoca io, che ero un puro amante del jazz e quindi snobbavo un pochino tutto quello che era il panorama dei cantanti italiani, a un bel momento ho iniziato ad avvertire in me una certa curiosità, che nasceva dall’essermi accorto che qualcosa stava bollendo in pentola, per cui ho cambiato un po’ la mia prospettiva, impegnandomi per dare dignità a un tipo di canzone schiettamente italiana. Prima di allora, c’erano canzoni italiane bellissime sul piano musicale ma con testi in genere piuttosto deboli.

Quindi mettiamo i puntini sulle i: anche quando firmavi le tue canzoni in coppia con Vito Pallavicini i testi erano tuoi.
Perbacco, certo!

Credo che a quel punto tu abbia iniziato a scrivere avendo in testa certi interpreti specifici.
Infatti. All’inizio sono stati Caterina Caselli e Adriano Celentano, soprattutto per un particolare tipo di credibilità vocale e interpretativa, e poi la prima Patty Pravo. Più tardi sono arrivati Bruno Lauzi ed Enzo Jannacci, ma qui parliamo già di colleghi, anche autori. In questo senso devo dire che, fra tutti, secondo me Jannacci rimane insuperato.

Jannacci ci fa a pensare a Dario Fo, la cui scomparsa è arrivata proprio alla vigilia dell’uscita di «Amazing Game», oltre che lo stesso giorno in cui si è saputo che Bob Dylan aveva vinto il Nobel per la letteratura. Come chioseresti questo intrico di coincidenze?
Sono d’accordissimo con l’assegnazione del Nobel a Bob Dylan, e al proposito non posso non notare come un certo tipo di apertura fosse arrivato proprio col Nobel a Dario Fo, nel momento in cui si era pensato di poter lasciare da parte per un momento il senso più filologico e dogmatico legato al concetto di letteratura, sposando forme imparentate in quel caso col teatro e oggi con la musica. Quindi non me ne scandalizzo e mi congratulo con Dylan, anche se sullo specifico mi sentirei di aggiungere e osservare che tra gli anni Settanta e Ottanta, ma anche Novanta, nella canzone d’autore italiana c’è stato un dispendio di energia letteraria di gran lunga superiore alle altre nazioni: per cui, parlando di quantità oltre che ovviamente di qualità, forse il Nobel sarebbe dovuto andare a uno dei nostri.

The Sound of Silence «La mia antica passione jazzistica mi porta anche verso il silenzio, che è sempre stato per me una bellissima strategia. Il silenzio è eloquentissimo, tanto quanto le parti suonate» – foto Dino Buffagni

Tornando alla composizione, come ti ci rapporti oggi?
Non le dedico più troppo tempo, onestamente. E’ un po’ che non mi metto più a spolverare la tastiera cercando qualcosa di nuovo. Però è anche vero che sono momenti che vanno e vengono, per cui se arriva la cosiddetta ispirazione, lo stato di grazia, bastano due snodi armonici di un certo tipo per farti venire la voglia di andare avanti. Non è un segreto per nessuno che io nasca autore di musiche ben prima che di parole, che ho iniziato a metterci sopra in un secondo tempo. Quindi non faccio una differenza sostanziale tra musica strumentale e musica per le canzoni: il mio stile, il mio gusto è sempre il medesimo. Negli strumentali ovviamente non c’è la distrazione che possono portare le parole, che hanno dei significati precisi e raccontano qualche cosa. La musica porta avanti anche lei un racconto, però molto più astratto, impalpabile. Io ho sempre curato molto la costruzione della mia musica, sia essa in funzione della parola o solo strumentale. Quelle che ho raccolto in questo disco, per esempio, sono esecuzioni che mi sono parse venute bene, suonate ottimamente dai miei musicisti e anche un pochino da me, ben registrate, con un bel suono, per cui le ho lasciate così com’erano, montando la successione dei brani ovviamente a posteriori, in base a motivi musicali, tipo un brano lento seguito da uno più veloce, oppure a colori dell’orchestrazione non troppo simili, lasciando in fondo i due blocchi dalle pièces teatrali di cui dicevo all’inizio, perché sono delle suites e quindi andavano diversificate dal resto. Poi nei cassetti giace ancora qualche cosa, pagine che mi son piaciute molto nel momento in cui le ho scritte ma poi le ho magari dimenticate: il profumo se n’è andato ma a distanza di tempo potrebbe tornare, inducendomi a riaprire il cassetto e andare a curiosare per vedere cosa c’è dentro.

Torniamo un attimo ai due brani improvvisati cui facevi riferimento prima, tenendo a precisare che non si tratta di jazz.
Proprio perché, da vecchio appassionato, credo di conoscere piuttosto a fondo il jazz, ormai ho cristallizzato le mie idee e so, almeno per quanto posso capirne io, quando è jazz e quando non è jazz: e questo non è jazz. I due brani improvvisati, comunque, sono F.F.F.F. (For Four Free Friends), che ovviamente è un po’ un calembour che si rifà appunto a questo concetto di improvvisazione, dove i quattro amici liberi siamo io al pianoforte, Max Pitzianti al clarinetto, Jino Touche al contrabbasso e Daniele Di Gregorio alla batteria, e Fuga nell’Amazzonia in Re minore.

Paolo Conte – foto d’Agostino per Phocus Agency

Un titolo molto da pagina classica. C’entra qualcosa?
C’è sempre stato un bel rapporto fra me e la musica classica, soprattutto in questi ultimi anni in cui amo seguire grandi concerti in televisione (oltre a qualche bella partita di tennis, sport che ho anche praticato con esiti discutibilissimi), per cui è chiaro che magari qualcosa può venir fuori.

Amori particolari?
Ovviamente tantissimi. Uno di quelli che mi sono più profondamente congeniali è César Franck. Un altro che mi ha sempre impressionato, fin da ragazzo, è Erik Satie. E poi le composizioni per pianoforte di Chopin, Beethoven, anche lui quando c’è di mezzo il pianoforte, Schumann, Ravel… Ma sono talmente tanti….

Cambiamo scenario: visto che sei un enigmista, e quindi un amante degli anagrammi, ti chiedo due parole su quello che in questo senso è un tuo omonimo, Luigi Tenco, di cui poche settimane dopo il tuo ottantesimo compleanno cadrà il cinquantesimo anniversario della morte. Quale ruolo reale pensi abbia avuto nella genesi di quella che siamo soliti chiamare canzone d’autore?
In realtà devo dirti che amo soprattutto i rebus e le crittografie. Il resto lo lascio generalmente da fare. Detto ciò, secondo me Tenco era dotato di grandissimo talento sia come cantante che come compositore, sia di musiche che di testi. Però, purtroppo, quel destino che tutti conosciamo non gli ha consentito di avere un corso sufficientemente lungo, per cui rimane anche difficile giudicarlo compiutamente. All’inizio, secondo me, era molto concentrato sulla componente musicale più che sulle parole. Più in generale mi è sempre parso un uomo molto tenero, e proprio questa sua tenerezza ha senz’altro una qualche responsabilità in quello che gli è capitato.

Al di là di questo tuo ultimo lavoro, ti eri già allontanato dalla forma canzone in quanto tale – oltre che nelle musiche di scena di cui abbiamo detto – anche in un’opera composita e sotto un certo profilo controversa come «Razmataz», dove ti immergevi nel mondo del musical, oltretutto curando quanto mai in passato l’immagine, disseminando di tuoi disegni e dipinti le sequenze della storia collegata alla musica, così come oggi hai voluto accompagnare ogni brano di «Amazing Game» con una tavola di tuo pugno. Tutto ciò è molto bello, molto gratificante anche per l’occhio.
Se sei interessato ai miei scarabocchi, effettivamente la versione in dvd di «Razmataz» è il veicolo ideale, visto che ce ne sono circa duemila montati assieme alla storia e ai dialoghi. Lì troverai anche la spiegazione di tutto quello che sta dietro al cd omonimo, che contiene solo una selezione di musiche e canzoni della colonna sonora integrale. Per quanto riguarda i disegni abbinati ai brani di «Amazing Game», è un omaggio che ho voluto fare a quelli che compreranno il disco, uscito in cd ma anche come doppio long playing.

Prima o poi riprenderai questa strada, diciamo di teatro musicale?
Non saprei. Al momento ci può essere semmai, vaga vaga, qualche traccia di film, ma senza testi e senza musiche, soltanto delle idee di trama, e vediamo se questo mi aiuterà a lavorare con i mezzi soliti che ho a disposizione. Già nel mio penultimo disco, «Snob», c’era un brano, Si sposa l’Africa, da cui pensavo di trarre un cartone animato. Cinema più che teatro, comunque.

E da questo tuo ultimo album cosa ti aspetti?
Come al solito non mi aspetto niente, anche se mi dicono che – soprattutto all’estero – in questo momento i dischi strumentali godono di buone chances. Per cui, visto che il disco sarà distribuito in tutto il mondo, spero di ottenere qualche riconoscimento anche su questo versante.

Alberto Bazzurro