Paul Motian: guida all’ascolto – prima parte

di Paolo Vitolo

1863
paul motian

I cd fondamentali

«Conception Vessel», ECM, 1972

Sei pezzi diversi per struttura, strumentazione e atmosfera ma che sembrano accorparsi in tre sezioni consecutive. L’iniziale Georgian Bay, per chitarra (Sam Brown), contrabbasso (Charlie Haden) e percussioni (Motian), può essere visto come un esempio ante litteram di «folklore immaginario»: categoria teorizzata almeno un decennio dopo dal clarinettista francese Louis Sclavis. Il titolo allude alla Georgia transcaucasica, ma l’anima armonica del pezzo (la cui melodia sfugge, enunciata più dal contrabbasso che dalla chitarra) può sembrare anche spagnola: la desolazione mediterranea come stato dell’essere, senza dipendenza dal luogo geografico. E con la stessa prevalenza dello spirito sul luogo, il successivo Ch’i Energy per percussioni (eseguito solo da Motian) s’ispira ai riti dell’Estremo Oriente soprattutto nelle parti di canonica batteria. Porta invece al cuore della musica di Paul Motian la seguente coppia di pezzi, Rebica e Conception Vessel, a partire dalle strutture compositive.

Rebica, per chitarra, contrabbasso e batteria (ma non altre percussioni), con un tema di quattro sole battute enunciato dalla chitarra di Brown, immette in un’atmosfera dolorosissima, sostenuta principalmente da un incalzante supporto armonico-ritmico di Haden e Motian, sul quale prendono lentamente corpo interventi di Brown, in crescente passaggio dal sonoro al musicale.

Conception Vessel, che è un tema lungo e articolato eseguito da Keith Jarrett al piano e Paul Motian alla batteria, può facilmente ricordare esecuzioni del trio di Paul Bley alle prese con i temi dark di Annette Peacock. Jarrett stesso, citando brandelli di tema nella sua improvvisazione, scivola più volte in frasi vagamente bleiane. Della bellezza di questa composizione e della sua autonomia dallo stile della Peacock ci si accorgerà infatti ascoltandone la versione del 1984, con la melodia affidata ai suoni continui di Lovano e Frisell.

Di peso minore i due rimanenti brani, ispirati più linearmente dal folklore. American Indian: Song Of Sitting Bull, in cui Paul Motian duetta con un Jarrett flautista poco più che amatoriale, non ricava grande originalità dal mescolare colori nativo-americani e andini. Naturalmente più ricco Inspiration from A Vietnamese Lullaby, eseguito da Motian e Haden accanto al violinista Leroy Jenkins e la flautista Becky Friend. Ma non bastano né l’intreccio delle loro fantasie né il magistrale tappeto armonico-ritmico di Haden e Motian a sollevare da una suggestività piuttosto scontata questo pezzo: che, se si vuole, è anche il più jazzistico del repertorio, mentre la musica di Paul Motian è già oltre il jazz.

Paul Motian Conception Vessel

 

«Tribute», ECM, 1974

Se «Conception Vessel» può soffrire qualche ansia di Motian di presentare i diversi aspetti già allora presenti nella sua immaginazione musicale, Tribute è una proiezione sincera della musica che Paul Motian «sentiva» e voleva far ascoltare di sé. Per questo il repertorio comprende anche pezzi altrui d’immediata affezione quali War Orphans di Ornette Coleman e Song For Che di Charlie Haden, creati entrambi per la Liberation Music Orchestra. E per questo la formazione è ancora non identica in tutti i brani. Lo stesso trio con Brown e Haden impiegato in «Conception Vessel» accoglie Carlos Ward al sax alto in qualche pezzo e Paul Metzke come seconda chitarra elettrica in qualche altro, perché ogni esecuzione sia in tutto appropriata allo spirito della composizione.

Sicché i due pezzi in cui è presente Ward, che fa ampio uso di note prolungate (Victoria e Sod House), sono melodie dolorose che rimandano all’Ornette di Lonely Woman. I due con l’aggiunta della chitarra di Metzke (Tuesday Ends Saturday e il colemaniano War Orphans), due pezzi che in modi diversi richiedono «respiro» del suono. La versione di Song for Che, lasciata al trio, una meditazione intima e raccolta su quel tema, con Motian che adopera solo piccole percussioni, Brown solo la chitarra acustica e Haden al meglio della sua vena lirica.

Un disco forse un po’ «caldo» per la ECM e forse poco radicale rispetto a tutta la produzione di Paul Motian dei primi quindici anni. Ma un piccolo capolavoro che non può essere di altri, in nessun modo.

Da ascoltare e riascoltare dalla prima all’ultima nota.

paul motian tribute

«Dance», ECM, 1977

Un trio di sassofono, contrabbasso e batteria impiegato per creare altro da improvvisazioni a perdifiato. Charles Brackeen, che suona il soprano in cinque pezzi su sei, si concede rarissime increspature; David Izenzon lavora di fino come neppure Ornette gli aveva dato occasione di fare; Motian suscita e commenta la musica passaggio per passaggio con i suoi ineffabili interventi percussionistici, dopo averla composta nello spirito di un folklorismo passato da «immaginario» a trasfigurato attraverso la riduzione dei segni.

Tre pezzi sono ispirati da fonti musicali dell’Asia. Mediorientale la desolata melodia in modale minore di Waltz Song; vagamente cinese quella un po’ sognante di Asia, malgrado frequenti evasioni di campo; vietnamita quella di Lullaby, che ripropone la Vietnamese Lullaby del 1972. E ancora più limpida è la natura di Kalypso, che è un song ortodossamente caraibico. La squisitezza di questi pezzi, tutti e quattro con Brackeen al soprano, è data infatti dalla giustapposizione della linearità dei tracciati melodici/monodici, anche fuori dall’esposizione del tema, alla trasversalità del lavoro sia di Izenzon che di Motian. Controritmi o ritmi disarticolati o ritmi regolari scanditi da Izenzon all’archetto mentre Motian ne scandisce di irregolari che estraggono la melodia, in sé fedele, dal suo mondo per ricontestualizzarla in uno di cui è concreta soltanto l’emozione musicale, pertanto passibile di ogni associazione semantica soggettiva.

L’ascendenza mediorientale – se non propriamente armena – si può riconoscere anche in Dance e Prelude ma con una mediazione tanto più spessa. Dance, ancora con Brackeen al soprano, stilizza la danza in un riff spigoloso e concitato, che procede out Of tempo per blocchi di quattro battute come per respiri che si susseguono prima in crescendo, poi esitando fino a ritirarsi in un punto fermo (con l’unisono finale di Brackeen e Izenzon all’archetto). Un riff imperioso che Paul Motian fa opportunamente ricomparire più volte durante l’esecuzione e che Brackeen stesso non perde mai di vista nella sua improvvisazione.

Altrettanto complesso e importante è Prelude, il solo pezzo con Brackeen al tenore. Un tema articolato e che pure procede per «respiri»; ma più lungo e con richiami forse più diretti all’armenità, forse alla musica sacra. Brackeen lo affronta con una sonorità potente e dolorosa e ne rievoca l’atmosfera grave durante la sua intensa improvvisazione, che a tratti assume inflessioni quasi ayleriane, o meglio antesignane di David S. Ware, su un tappeto sonoro ricchissimo e variegatissimo di Izenzon e Motian.

paul motian dance

«Le Voyage», ECM, 1979

Due aspetti collocano questo disco lievemente al di sotto di «Dance»: primo, la sostituzione dell’avventuroso e sopraffino Izenzon con un contrabbassista di medio filone free quale Jean-François Jenny-Clark; secondo, il maggiore spazio occupato dalle improvvisazioni di Brackeen, spesso arbitrarie rispetto alla chimica introdotta dal tema.

Il solo pezzo che rimanda alle magiche atmosfere di «Dance» è l’iniziale Folk Song for Rosie, desolato e con Brackeen al soprano come Waltz Song. Il successivo Abacus decisamente parla d’altro e in altra lingua. Un riff armonicamente africano (che si collega a fatica all’oscuro mondo di Motian), un lungo sproloquio in solo di Brackeen al tenore, perfettamente decontestualizzato, un assolo di Jenny-Clark che quel riff lo cita per mancanza di idee, si direbbe, e quindi uno del leader, insolitamente più virtuoso che fantasioso, prima di tornare al rituale punto di partenza. Siamo però alla pagina più infelice del disco, o la sola che può dirsi tale.

E il recupero è rapido passando a Cabala-Drum Music, che già in questa prima versione si rivela tra i massimi capolavori di Motian compositore. È un tema particolarissimo: una cantilena effettivamente da rito esoterico, sviluppata per blocchi di due battute che rimandano invece a un fraseggiare batteristico – motivo per il quale in seguito si chiamerà semplicemente Drum Music. Qui, oltretutto, l’intero trio lavora soltanto per esporre il tema in apertura e chiusura, con al centro un lungo, vivace assolo di batteria, e l’unisono di Brackeen e Jenny-Clark, naturalmente con l’archetto, è efficacissimo.

Anche The Sunflower è un tema importante e sul quale Motian tornerà in futuro. Un tema la cui drammatica suspense è ottenuta da note con intervalli arditi, improbabili. E non portano affatto fuori rotta certi toni un po’ free dell’improvvisazione di Brackeen al tenore.

Chiude il disco la lunga esecuzione di Le Voyage, dal bel tema rarefatto, esposto all’unisono da Brackeen al soprano e Jenny-Clark con l’archetto. Forse perché dedicato al dramma della storica diaspora armena (vissuta dai genitori di Motian in prima persona), la lunga improvvisazione di Brackeen appare soprattutto «erratica»; attraversa più registri, più atmosfere. Con la conseguenza di consegnarci una musica tanto suggestiva, quanto non unica. Piuttosto targata ECM.

paul motian

 

«Psalm», ECM, 1981

Opera prima del quintetto concepito da Motian come gruppo-strumento, «Psalm» può dirsi un manifesto della musica di Motian e l’opposto di un blowing record, anche quando è di turno un assolo di Lovano o di Drewes.

I pezzi in questo senso più radicali sono i tre basati su liturgie armene. L’etereo Psalm, posto in apertura del disco, che è una lenta melodia armonica condotta come una nube di suono dalla chitarra di Frisell e periodicamente commentata da passaggi sassofonistici. Yahllah, dalla melodia lievemente più articolata, che si sviluppa fra unisoni e intrecci dei sassofoni sull’avvolgente base armonica della chitarra. Etude, costituito da una sola frase armonica reiterata, che è addirittura eseguito da Frisell in solo come voce di «sintesi» o di «rappresentanza» del gruppo. Particolare è poi l’esecuzione di Fantasm, la cui anima narrativa fa procedere un’evanescente linea melodica con in primo piano un intrecciarsi di suoni sassofonistici che sembrano liquefatti – e che quasi ricordano quelli di Teo Macero e John LaPorta in certi audaci esperimenti mingusiani degli anni Cinquanta.

Ma frutti dell’alchimia di Paul Motian lo sono almeno altrettanto i pezzi dai referenti meno riconoscibili. Un tema spartanissimo e dal ritmo apertamente rock (White Magic), uno costituito da una progressione di tre frasi (Boomerang) e uno che, attraverso una progressione di poco più estesa, scivola dall’idillio all’isteria (Second Hand). Pezzi in cui la breve parte composta propaga per l’esecuzione il proprio specifico carattere di assalto emotivo anche per mano di interventi solistici molto liberamente improvvisati.

Soltanto un gioioso calypso, che proprio la steel guitar di Frisell riconfeziona in chiave country (Mandeville), sembra inserirsi un po’ gratuitamente nella pur variegata unità di questo disco eretico e profetico, rendendolo però in ultima analisi ancora più sconcertante.

Alla sua uscita, tanta critica ne era rimasta spiazzata, se non infastidita. È musica che come allora nessuno si aspettava.

paul motian

«The Story Of Maryam», Soul Note, 1983

Il tenorista e sopranista Jim Pepper – che rimpiazza Drewes nel quintetto da questo disco in poi – è un solista decisamente passionale. Soprattutto per la sonorità vibrata, a tratti abrasiva, che ha al tenore, si pone in sensibile contrasto con lo stile di Lovano. Il che sembra aver distolto Motian dal realizzare pezzi ascensionali.

La chitarra di Frisell non fa mai da filtro generatore di un sound d’insieme, stabilendo invece un rapporto paritario con i sassofoni, tra unisoni delicatissimi o ferocissimi – un po’ alla maniera di quello in apertura del monkiano Brilliant Corners del 1956 – e illuminate assistenze armoniche alle loro parti solistiche individuali, che sono ben più numerose che in Psalm. Fermo restante il carattere evocativo e ineffabile di tutti i sei temi presenti, nessuno escluso, sono infatti i più lirici a suscitare la conservazione di un perfetto «stile Motian» per tutta l’esecuzione (5 Miles To Wrentham, Trieste e The Story Of Maryam). Quelli più movimentati (9 x 9, The Owl Of Cranston e Look To The Black Wall), sempre ipersuggestivi nelle enunciazioni, provocano improvvisazioni irruente, sia individuali che simultanee. In queste ultime, un interessante tratto di differenza dalle prassi free è che spesso Lovano, Pepper e Frisell s’intendono sul portare contemporaneamente la nota all’acuto facendola svanire.

paul motian

 

«Jack Of Clubs», Soul Note, 1984

A parte due pezzi di poca composizione e tanto solismo (Split Decision e Tanner Street), che neppure si lasciano confondere con il jazz di altri, la tipicità della regia di Paul Motian riacquista tutto il suo spazio in cinque piccoli capolavori, intensi e logici nei loro svolgimenti anche in presenza di audacissime improvvisazioni.

Gli episodi emergenti di questo tipo appartengono a due pezzi: l’eponimo Jack Of Clubs e la splendida nuova versione di Drum Music, entrambi dai temi tortuosi e sinistri, esposti da spettrali unisoni. Certi intrecci a cappella di Lovano e Pepper ricordano quelli di Marshall Allen e Pat Patrick nell’Arkestra di Sun Ra, ma la sensazione è che si trovino «al posto giusto», che siano momenti di ciò che il tema ha suggerito; così come un assolo rock di Frisell, tale nei suoni e nel ritmo, o uno raccolto, quasi perfettamente tematico, di Schuller o uno insolitamente rigoglioso del leader.

E capolavori lo sono almeno altrettanto i due frutti del Motian ascensionale ricomparsi nell’economia del quintetto, Cathedral Song e Lament. Armeni o no, forse anche gotici. Cathedral Song fa tornare a galla il pieno esercizio del gruppo-strumento svolgendosi per continue variazioni sul tema che i tre solisti si rimbalzano – sublime il passaggio dall’iniziale apparenza out of tempo alla parte in esplicito ¾. Lament rilancia invece lo strumento-gruppo manovrato da Frisell in solitudine e attraverso una melodia armonica più evanescente e diradata di quella di Etude.

Il gruppo-strumento sembra muoversi nei paraggi di un minimalismo zen in Hide And Go Seek, costruito interamente su un bordone ritmico di Frisell, sul quale si stratificano interventi improvvisati degli altri. Un esperimento anomalo ma pertinente di cui almeno le sensibili linee armonico-melodiche di Schuller e Lovano rivendicano l’autonomia da un Terry Riley.

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«It Should’ve Happened A Long Time Ago, ECM, 1984

Al suo debutto su disco, il trio con Lovano e Frisell è già un «sistema» e stila un secondo manifesto della musica di Motian: al limite meno irritante di «Psalm».

Il fatto nuovo è che, in assenza di raddoppi di strumenti, Lovano e Frisell operano elaborando individualmente continue variazioni/divagazioni sul tema, dalle più sobrie alle più ellittiche, e in continuo dialogo con un Motian la cui facoltà di frammentare e sottintendere il tempo puntando sui suoni, anziché sul ritmo, è alla massima evidenza. Nulla di «sperimentale», se si vuole: gli ingredienti sono una summa del jazz come «musica di persone» e un’ipotesi contemporanea sulle ragioni dell’improvvisazione tematica. Con il risultato che la musica scorre e colpisce in profondità.

Sul piano compositivo, la maggior parte dei pezzi rimanda in vario modo a un Motian già noto. Il title piece, posto in apertura, e Introduction, eseguito da Frisell in solo, sono tipiche melodie melanconiche in modale minore; Fiasco, un’esasperazione anemozionale e patafisica del filone ansiogeno inaugurato con Dance; India, una concretizzazione compiuta dei tanti spunti che nella musica di Motian hanno fatto interagire spiritualità e folklorismo reale (bellissima e inquietante l’armonizzazione di Frisell con l’effetto sonoro di un unisono di contrabbassi); Conception Vessel, la giusta revisione sonoro-psicologica di quest’antica pagina all’origine tanto laconica e ambigua.

Il solo pezzo di un colore nuovo è In The Year Of The Dragon, prima traccia di un Motian che si avvicina a stati d’animo meno affermativi e perciò meno tesi e cupi. In tanti passaggi, auspice un eccelso Lovano, è un pezzo persino sensuale. Mentre il solo pezzo dall’esito un po’ incerto è Two Women from Padua, il cui tema eccessivamente tortuoso non riesce, almeno in questa versione iniziale, a sfociare che in pochi momenti di musica realmente emozionale. Ma nulla toglie a questo disco la qualità di pietra miliare.

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«Misterioso», Soul Note, 1986

Forse in quanto ultima tappa del quintetto e realizzata quando il trio è già attivo da due anni, «Misterioso» è un disco che potrebbe apparire non molto curato: quanto meno per la sua eterogeneità d’insieme.

Motian affronta per la prima volta il jazz passato, e non a caso Monk, con belle versioni di Misterioso e Pannonica. Ma soltanto la presenza di Frisell e l’improvvisazione simultanea dei due tenori in Pannonica ci ricordano che sono esecuzioni dovute a un suo gruppo.

Esiti alterni si riconoscono d’altronde nelle riproposte di vecchi originali del batterista. Splendide quelle di Folk Song For Rosie, che ripristina le magiche atmosfere del gruppo-strumento motianiano, e di Byablue, nuova gemma di Frisell in solitudine. Non così rilevanti quelle di Abacus e Dance, alle cui esposizioni tematiche seguono assoli free.

Due dei tre nuovi temi originali sono in realtà molto belli: il lirico e sospeso Once Around The Park e soprattutto il dolente Gang Of Five. Entrambi saranno infatti ripercorsi. Il terzo è invece una melodia folklorica costruita appositamente per l’esecuzione in solo di Pepper, con il suo solito pathos, il suo solito vibrato che ricorda Ayler, Gato Barbieri, Jan Garbarek… Un tipo di espressione che non sempre si monta bene al particolare spirito della musica di Motian.

Nonostante questo, o forse proprio per questo, «Misterioso» è il primo disco di un gruppo di Motian con Frisell che non abbia suscitato perplessità da parte della critica.

paul motian

«One Time Out», Soul Note, 1987

Il trio con Lovano e Frisell torna in studio dopo tre anni, mostrando soprattutto i frutti di tanta esperienza dal vivo. Quasi scomparse le atmosfere nebulose che caratterizzavano gran parte del precedente «It Should’ve Happened A Long Time Ago», ma a vantaggio di uno standard esecutivo tonico e flessibile che ci consente di viaggiare tra più situazioni emozionali. Dalla forsennata cupezza di One Time Out, The Storyteller e Morpion, che a Frisell suggerisce ampio uso del distorsore, alla delicatezza intima di If You Could See Me Now (di Tadd Tameron) e Monk’s Mood (nuovo e più avveduto passo verso Monk); dalla meditatività evanescente di Portrait Of T. (curiosamente dedicato al padre di Lovano) agli stati d’animo più precari, meno affermativi, di For The Love Of Sarah, Good Idea (che pure ha qualcosa di monkiano) e Circle Dance (folklorico, senza arcane implicazioni).

Si tratta dunque di un disco che contiene ben sette nuove composizioni, più o meno tutte di rilievo e due illuminate rivisitazioni del jazz passato, auspice un gruppo di musicisti cha sanno dosare ciascuno la propria libertà, appropriarla volta a volta al caso, farla sfociare nella più accesa informalità o convertirla in scelta di romantico affetto o persino stemperare l’una cosa nell’altra. Lovano, Frisell, Motian, tutti e tre e al più naturale livello di interplay.

 

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«Monk In Motian», JMT, 1988

Dopo la sensibile versione di Monk’s Mood eseguita in «One Time Out», il trio affronta dieci composizioni monkiane in un disco che, più che un omaggio, è lo specchio di un dialogo ideale tra Motian e Monk; un’attenta speculazione sui segreti e la bellezza di questa musica alla luce di ciò che per Paul Motian e i suoi eccezionali compagni è insieme linguaggio e sentimento.

Le pagine originali sono pertanto rispettatissime. Il delicato Crepuscule with Nellie che apre il disco è addirittura – come dettava Monk – eseguito senza assoli: condotto sulla sola melodia del tema da una fusione sonora di Frisell e Lovano, commentata da soffusi accenni batteristici del leader. Ma la riduzione del tema a cosiddetto pretesto è un principio assente da tutti gli interventi solistici del disco. Nei pezzi più ritmici, che sono inevitabilmente i più numerosi (Evidence, Straight No Chaser, Bye-Ya, Trinkle Tinkle, Epistrophy, Off Minor), rigogliose improvvisazioni tematiche portano la musica all’attualità attraverso il carattere inedito di suoni (soprattutto di Frisell) e frasi, oltre che dell’antiritmico drumming motianiano. In quelli dal tempo occultabile, che qui viene infatti occultato (Ruby My Dear, Ugly Beauty, Reflections), si procede per continue variazioni, secondo lo stesso criterio rapsodico adoperato da Motian nelle esecuzioni di tanti suoi originali e privilegiando un gusto sonoro che, in perfetta chiave post-moderna o post-ideologica, li trasforma in pezzi essenzialmente lirici: quando il lirismo di Monk, lo sappiamo bene, non era che una simulazione, una sorta di impertinenza surrealistica.

È solo un peccato che Motian abbia concepito la presenza di ospiti in alcune esecuzioni. Non necessaria l’aggiunta del tenore di Dewey Redman in Straight No Chaser ed Epistrophy e persino fastidioso l’inserimento del pianismo di Geri Allen in Ruby My Dear e in Off Minor.

paul motian

«On Broadway vol. 1»/«On Broadway vol. 2», JMT, 1988-89

In questi primi due dischi dedicati ai gloriosi highlights dei musical di Broadway anni Trenta-Quaranta, altrimenti noti come classici standard jazzistici, il trio diventa quartetto con l’aggiunta del contrabbasso di Charlie Haden. Cioè un normale quartetto di sassofono, chitarra, contrabbasso e batteria. Ma occorrerebbe un ascolto davvero superficiale per non avvertire la qualità singolare di quasi tutte le esecuzioni.

I piccoli capolavori, come sempre, sono i pezzi lenti il cui tempo viene occultato o mimetizzato, offrendo al gruppo occasioni di un interplay più libero (Somewhere Over The Rainbow, Last Night When We Were Young, Someone To Watch Over Me, Good Morning Heartache). E per motivi diversi anche la versione di Body And Soul, cui fa da introduzione una splendida parafrasi del tema in tonalità minore, enunciata da Frisell.

Dall’insieme dei due dischi emerge comunque un «modo» di far vivere gli standard nel presente; una formula allora parallela, complementare a quella di Keith Jarrett con il suo Standards Trio: per quanto opposta, non essendo per nulla analitica. Versioni di cui si apprezza dal diramarsi del suono di Frisell nel gruppo (qui, come nel disco monkiano, senza uso di distorsore), alle raffinatezze di Lovano, dai controritmi di Motian a qualche bella esplorazione armonica. Proprietà che si combinano in modi sempre diversi da un’esecuzione all’altra, mostrando a pieno titolo il senso del gruppo e della regia di Motian anche alle prese con il jazz passato.

 

paul motianPaolo Vitolo

Leggi la seconda parte della Guida all’ascolto, e l’articolo monografico Paul Motian: la musica della batteria