Keith Jarrett: diciotto ore di vita vissuta

L'uscita di due lavori molto diversi tra loro – una scelta di improvvisazioni del 2014 e la brillante esecuzione di due celeberrimi concerti novecenteschi per pianoforte – coincide con il settantesimo compleanno di un Jarrett molto disponibile a parlare di sé e della sua arte

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Suppongo che Keith Jarrett la pensi sulle interviste come Gesualdo Bufalino: Saprò mai dare risposte valorose a domande stupide?, visto che al telefono non adotta la «filosofia del rifiuto» teorizzata da Flaiano: Agire come Bartleby lo scrivano. Preferire sempre di no. Non rispondere a inchieste, rifiutare interviste, non firmare manifesti, perché tutto viene utilizzato contro di te.
Per chi non possiede la disinvoltura dell’intervistatore abituale (se tale figura esiste…) non è facile avvicinare, oltretutto senza la presenza fisica e senza il contatto «eye to eye», una personalità che è notoriamente poco incline alla pazienza: il rischio di farsi sbattere sul muso il ricevitore alla prima avvisaglia di scontentezza non è trascurabile.

Il mio primo ricordo di Keith Jarrett risale a qualche decennio fa, a uno dei suoi primi concerti da solista in Italia, al Teatro Verdi di Firenze, se non vado errato: un uomo snello e minuto, dalle mani piccole ma vigorose, seduto al sole nei pressi della piscina di un albergo, con un incongruo (almeno per il contesto) volume di Roland Barthes fra le mani…
(Una sua breve risata) Leggere è per me fondamentale. Non per l’esercizio della lettura in sé, ma perché nulla ti lascia un segno dentro di te come quello che leggi. La vita cambia, si modifica all’atto del leggere, nello scorrere di una frase che ti risuonerà dentro e diventerà parte di te.

Credevo che la musica facesse lo stesso effetto…
Sì, ma non come la grande letteratura. E non sto parlando, ovviamente, solo dei «classici». Io misuro tutto attraverso la lettura. E’ vero, anche la musica può lasciarti qualcosa di indelebile, ma credo sia più difficile avvertire qualcosa del genere per un musicista. Quando ascolto un lavoro musicale mi confronto con esso, cerco di afferrarne il meccanismo: una volta capito il funzionamento, mi limito a prenderne atto ma cerco di evitare che esso interferisca con il mio modo di pensare la musica. La letteratura mi ha sempre affascinato di più, soprattutto mi ha maggiormente segnato: tu sei e diventi ciò che leggi. Sotto questo profilo, sia la letteratura sia la scrittura mi hanno accompagnato costantemente e incessantemente.

Anche la scrittura? In che senso?
Mah, forse è meglio non soffermarci su questo punto, lasciamo perdere…

Non volevo invadere alcun ambito privato…
Diciamo che scrivo, ho sempre scritto, anche se adesso è un po’ di tempo che ho sospeso tale attività…

Scrivere… cosa? Di fantasia? Saggi?
Ho scritto saggi, certamente. Ma in modo particolare mi ha attratto la forma del racconto. Racconti umoristici, soprattutto.

In che senso?
Nel senso che erano scritti per far ridere fragorosamente!

Però… A pensare alla fama che l’accompagna, si sarebbe detto proprio il contrario…!
(E’ vero che voce dal sen fuggita poi richiamar non vale, per un attimo ho però temuto che la mia uscita provocasse un risentito irrigidimento o un secco addio: è stato con innegabile sollievo che ho ascoltato la risata – fra il timido e il soddisfatto – che echeggiava nel ricevitore).

L’esecutore: come ricorda Paul Griffiths nelle note di copertina, quasi tutte le incisioni «classiche» di Jarrett sono comprese tra i primi anni ottanta e i primi anni novanta. Questo nuovo cd presenta materiale registrato a Saarbrücken e a Tokyo nel 1984 e nel 1985.

Ecm ha pubblicato una sua incisione del Piano Concerto op. 38 di Samuel Barber, un autore purtroppo poco frequentato in Europa (credo che solo Giancarlo Menotti ne presentasse abitualmente la musica, ai tempi in cui era l’anima del Festival di Spoleto). Eppure si tratta di una pagina splendida, a lungo prediletta da un pianista come John Browning; credo che dopo di lui solo Ted Joselson lo abbia eseguito con una certa regolarità. Barber viene ad aggiungersi ad una serie curiosa di compositori americani come Alan Hovhaness, Lou Harrison, Peggy Glanville-Hicks (che, pur australiana di nascita, può dirsi americana de facto). Uso il termine «curiosa» perché trattasi tutti di compositori in qualche modo «fuori dal coro» in quella cultura musicale accademica americana a lungo divisa fra Schönberg e Stravinskij, fra serialisti e neoclassici…
Non è stata una scelta intenzionale, non credo. No, adesso che ci penso, no, non penso che vi sia stata un’intenzionalità cosciente. Forse in un angolo del mio cervello…

Tutti autori comunque interessati ad «altro» rispetto al proprio contesto: Barber preso dalla cultura europea post-romantica, Harrison interessato al mondo dell’Estremo Oriente, Hovhaness rivolto alla sua eredità armena, la Glanville-Hicks affascinata dall’Oriente e soprattutto dalla musica indiana… In questo senso non pensa che i compositori americani, più che da Stravinskij e Schönberg, avrebbero molto beneficiato dall’insegnamento di Bartók, con il suo interesse per i rapporti fra accademia e cultura popolare?

Assolutamente. Bartók fu letteralmente ignorato per gran parte della sua permanenza a New York; un gran peccato, perché per la musica americana egli avrebbe potuto essere la figura di riferimento.

Ho trovato estremamente interessante la sua interpretazione del Concerto di Barber: brillante, chiara, leggera, traslucida nel delineare il materiale contrappuntistico e priva di quelle tentazioni neoromantiche troppo spesso ed erroneamente attribuite al compositore…
In Barber vi è sempre del grande materiale tematico, delle grandi melodie e non vi è nulla di quel «romanticume» che gli viene imputato. Anzi, è un compositore estremamente moderno, soprattutto nei suoi lavori più maturi.

Keith Jarrett

Ho notato che, ancora una volta, lei ha lavorato con la New Japan Philharmonic, con la quale, se non erro, ha collaborato per concerti di Mozart e incisioni di Lou Harrison. Un’orchestra che sembra sapere assecondare, il che, nel Terzo Concerto di Bartók, non è facile…
Con la New Japan Philharmonic ho trovato una splendida intesa proprio in Mozart. Ero in Giappone con Dennis Russell Davies per suonare Mozart con loro. Finite alcune prove ho capito in che cosa consisteva la loro abilità: si limitavano – si fa per dire – ad «accompagnare» il solista, lo assecondavano nota per nota, frase per frase, senza farsi condizionare dalle smanie di qualche direttore più o meno impegnato, pensando solo alla musica e a come renderla efficacemente e il più fedelmente possibile, il più accuratamente possibile sotto il profilo ritmico, come se fosse stata la prima volta che la suonavano e per di più in presenza dell’autore: non avevo bisogno di guardare né loro né il direttore, potevo completamente concentrarmi su quello che suonavo, ero sicuro che l’orchestra sarebbe sempre entrata al momento giusto. In più, i giapponesi hanno una grande tradizione ritmica, una grande scuola di percussioni, di tamburi; perciò hanno una particolare affinità con la pulsazione ritmica, il che in Bartók porta a eccellenti risultati. Mia nonna era ungherese, forse anche questo mi ha aiutato… In più, se vogliamo, il jazz ha affinità con la musica del Ventesimo secolo e viceversa, per quanto questo voglia dire qualcosa fino a un certo punto. In fin dei conti, il jazzista che Stravinskij amava e ammirava di più era… Shorty Rogers!

Un pianista di jazz che suona in trio o in gruppo è costretto a misurarsi col suono della batteria e dei piatti e deve fare in modo di essere ascoltato, di non venire sommerso

Lo avevo sentito dire, anzi mi pare che proprio lei lo ricordasse in un’altra intervista. Dunque, l’interesse che Stravinskij dichiaratamente provava o aveva provato per il jazz nascerebbe da un equivoco, da una… non-comprensione… Per esempio l’Ebony Concerto?
Certe musiche mi attraggono relativamente, anche se possono interessare. Di Stravinskij ho molto studiato, ad esempio, il Concerto per pianoforte e strumenti a fiato. Sicuramente, il jazz ha esercitato un’influenza su molti compositori del Novecento, ma sotto più forme, non necessariamente legate all’improvvisazione.

Lei improvvisa suonando Mozart, per esempio?
No.

Non si concede qualche libertà neanche nella cadenze? Io ho avuto modo di ascoltare Friedrich Gulda che, soprattutto nei concerti di Mozart, si concedeva degli spazi, non solo per degli abbellimenti…
No, in genere no. Ogni tanto, forse, qualche piccola cosa. Ma non è semplice, perché devi trovare una «spalla» che la pensi come te. Una volta ho eseguito un concerto di Mozart con Vladimir Ashkenazy, che aveva accettato di dirigermi: in certi punti mi sono concesso delle brevi improvvisazioni. A fine concerto Ashkenazy mi si è avvicinato e, fingendosi meravigliato, mi ha fatto: «Conversazioni con Mozart?», e io gli ho risposto: «Perché no?». L’improvvisazione esisteva ai tempi di Mozart, non vi erano cd che immobilizzassero il momento per l’eternità e credo comunque giusto che ci si ponga rispetto all’autore non solo in modo esclusivamente aderente ad una prassi di cui conosciamo solo quello che ci dicono i cosiddetti specialisti… Se Mozart fosse qui oggi, non credo che non reagirebbe al contesto…

Mi ricordo un concerto di Gulda, a Roma se non erro, in cui Mozart fu suonato in una baldoria di cui faceva parte anche il dj Pippi di Ibiza. E Gulda che sosteneva: «Se Mozart fosse oggi assieme a noi, festeggerebbe e si ubriacherebbe con noi…»
Be’, diciamo che io non sono proprio incline a condividere l’opinione di Gulda, non sono così… estremista! Sto un po’ in mezzo: non voglio stravolgere il pensiero dell’autore, né però voglio pensare che esso possa essere del tutto immobilizzato.

Nell’interpretazione del terzo Concerto di Bartók ho notato la stessa chiarezza, la stessa nitidezza di approccio manifestatasi in Barber, anche nei passaggi ritmici più complessi…
Ricevetti un insegnamento significativo da Lou Harrison, quando gli commissionai il Concerto per pianoforte. Egli aveva un profondo interesse per il ritmo, aveva una grande conoscenza di musiche come il gamelan, per cui gli chiesi di non rendermi la vita «troppo difficile»… Per tutta risposta, poco tempo dopo mi portò il secondo movimento (Stampede), una specie di vero tour de force per le dita. E in più mi mise in mano un tocco di legno (octave bar), con dei feltri alle due estremità, con cui dovevo realizzare più velocemente ancora tutta una serie di cluster. Avevo problemi alla schiena che mi provocavano continui dolori e irrigidimenti e pensavo con spavento a quello che mi aspettava, ma Harrison si limitò semplicemente a dirmi: «Non ti affidare mai solo ai muscoli per suonare». Credo, comunque, che avere avuto molte esperienze in campo jazzistico possa essere d’aiuto nell’affrontare certo repertorio. Un pianista di jazz in un trio o un gruppo, ad esempio, è costretto a misurarsi con il suono della batteria e dei piatti, cioè con suoni che lo possono sovrastare e deve fare in modo di farsi sentire, di non farsi sommergere. Molti pianisti accademici hanno difficoltà, in certo repertorio, a far emergere il proprio suono rispetto al contesto orchestrale.

In tutto ciò che facciamo deve esserci integrità. Per me questa è la parola chiave e ho sempre cercato di uniformarmi a tale concetto

Bartók, Barber, Bach, Mozart, Händel, Šostakovič, Hovhaness, Harrison, Granville-Hicks, verrà anche la volta di Copland o di Elliott Carter?
Carter è un autore che mi attrae molto. Come ho detto prima, non c’è una vera e propria logica in queste scelte. Sono interessi che si coagulano, si stratificano nel tempo. Forse solo la musica di Bach è stata una scelta sempre voluta.

Penso a pianisti che hanno saputo o voluto operare sia nel campo della musica scritta che in quello della musica improvvisata, come André Previn, Friedrich Gulda, Alexis Weissenberg, in tempi più recenti penso a Fazil Say: pur riconoscendo le loro straordinarie capacità – soprattutto in Gulda, visto che Previn ha compiuto un tragitto opposto – devo altresì riconoscere che lei mostra una naturalezza fuori dal comune, al di là di ogni valutazione sui risultati, nel dividersi fra contesti che molti vedono incompatibili fra di loro. Lei si sente del tutto a suo agio, dunque, nel cambiare costantemente mondi: dall’accademico all’improvvisazione, e viceversa… Mi chiedo però se sono contesti che si influenzano a vicenda oppure lei vuole o sa tenerli separati…
Fondamentalmente cerco di tenerli separati, anche se negli ultimi tempi mi sono concentrato su altro. Se devi affrontare un testo musicale scritto devi lavorare e prepararti in un altro modo. Se improvvisi, sei solo con te stesso, cerchi di approfondire il tuo pensiero, di esplorarlo compiutamente, di dare forma e logica a quello che sei in quel momento e oltre. E’ una relazione intima, personale, profonda. Se devi avvicinarti a un altro autore, il procedimento per certi versi è lo stesso, perché devi immedesimarti, devi arrivare al momento in cui tu sei l’altro compositore, in cui riesci a pensare come lui, non devi pensare a te stesso e a come suonare quella musica attraverso te stesso. Devi, invece, pensare a come essere il compositore e a come suonare la sua musica attraverso di lui, identificandoti nel suo pensiero. Ecco perché non si può eseguire e interpretare musica di altri autori senza conoscere tutto il loro contesto, almeno quello storico.

Questo approccio vale anche nel campo del jazz, ad esempio? Che so, nel campo del Great American Songbook: è utile conoscere gli autori, conoscere i testi dei song che si interpreteranno?
Certamente. In tutto quello che si fa bisogna avere integrità. Ecco, per me questa è la parola chiave. Ho cercato di uniformarmi sempre a questo concetto. Prendiamo ad esempio «Creation», che raccoglie nove segmenti da concerti tenuti in diverse parti del mondo (Tokio, Toronto, Parigi, Roma) l’anno scorso: ho lavorato su circa diciotto ore di musica. Ora, come scegliere da tutto questo materiale? Da quale criterio farsi guidare?

Da quello che ho capito all’ascolto, non si tratta di «estratti», ma di nove diversi lavori improvvisati…
Esattamente.

Mi sembra che vi sia un cambiamento progressivo nel suo approccio, direi che a un virtuosismo digitale si è sostituito un virtuosismo compositivo, la capacità di concentrare il materiale in ambiti molto meno estesi in cui però lo sforzo di elaborazione è estremamente intenso, anche sotto il profilo dell’espressività. Allo stesso tempo ho avuto l’impressione che in qualche modo ogni pagina rifletta il luogo stesso in cui è stata creata, non vorrei sbagliarmi… Ascoltando il bis inciso dopo l’esecuzione del Terzo Concerto di Bartók, nonché la parte IX di «Creation», m’è venuto da pensare – molto banalmente, lo riconosco – che in Giappone «succeda» un «qualcosa» di diverso, un’intensità e una concentrazione maggiori, un che di quasi ritualistico…
La interrompo prima che finiamo in qualche banalità in stile «silenzio religioso in un tempio di Kyoto»… (ride)

Uhm, non volevo arrivare a tanto…! O almeno credo. Ma sì, probabilmente ci sarei arrivato, capisco la banalità del concetto, era un modo di cercare di farmi capire.
Ovviamente vi sono reazioni diverse rispetto ai luoghi, rispetto al pubblico… In Giappone, per esempio, v’è un rispetto diverso per gli strumenti, v’è una cura eccezionale nella loro conservazione, per cui lo strumento usato a Tokio aveva delle caratteristiche eccezionali, cui ho risposto. Il pianoforte usato in Canada era così così, ma me lo aspettavo. Per questo, scegliere da diciotto ore di vita vissuta, da qualcosa che non è semplicemente superficiale o passeggero, implica integrità, verso te stesso, verso chi ascolta, verso quello che hai fatto o che avresti potuto fare, significa investigare direzioni prese, chiedersi dei perché… Mi ricordo che qualcuno ebbe a obiettare su quello che avevo suonato nel concerto di Rio de Janeiro, dicendo che non era all’altezza di altri lavori; eppure, non solo sono estremamente soddisfatto del risultato ma soprattutto anche del criterio con cui ho impostato quello che poi ho realizzato. Io amo creare struttura, dare corpo e logica, il che è ben più complesso da fare in un ambito che non sia scritto ma improvvisato. A Rio de Janeiro m’è venuto particolarmente bene, così come mi è venuto particolarmente bene a Napoli, ad esempio.

Napoli e Rio, due posti assai diversi che pure possono avere qualcosa in comune… Ma, per esempio, non v’è nulla di «brasiliano» in «Rio»
No, e non ci doveva essere, non era quella l’intenzione, per quanto io conosca la musica brasiliana, una musica che ha influenzato il jazz in modo determinante e sostanziale. Ma ho pensato al fatto che ero «io» a essere in Brasile, così come avrei potuto essere altrove. Il contesto può darmi qualcosa, il luogo, il tipo di pubblico, ma sono «io» a reagire, è pur sempre la «mia» musica a dovere prendere le mosse da tutto ciò. A Rio de Janeiro vi è stata una sorta di particolare alchimia, un condensato di echi, di memorie, di rimandi, qualcosa che non succede sempre, o succede ogni volta in modo diverso e, dunque, con risultati diversi.

L’improvvisatore: Toronto, Tokyo, Parigi, Roma, dal 30 aprile all’11 luglio 2014: quattro grandi città, cinque celebri sale da concerto, 72 minuti di musica suddivisi in nove parti e selezionati dallo stesso Jarrett, ben diciotto ore di esibizioni in piano solo: questo è «Creation

In «Creation» v’è dunque una vera e propria logica, un filo conduttore, come se fosse un concerto svoltosi in quell’ordine, in quel succedersi di impressioni…
Esattamente. E’ stata una scelta condotta con molta intensità, che ha implicato una mia rinnovata partecipazione al riascolto dei materiali. A un primo ascolto avevo preso degli appunti, chiamiamole delle note di produzione, ma erano molto succinte, qualcosa del genere: «Inizio in Re bemolle, tempo lento», tutto molto schematico. Non volevo farmi influenzare da me stesso, da appunti presi in tempi diversi. Per questo continuo a dire che ci vuole integrità: si tratta di scegliere non tanto quello che piace a te, ma quello che ha un significato, un valore rispetto a quello che hai fatto, dove l’hai fatto, come l’hai fatto. Dev’esserci una logica, un’onestà di fondo da cui non si può derogare. Integrità, per l’appunto.

Leonard Bernstein sosteneva che un compositore americano, per essere veramente e originalmente tale, doveva saper aggiungere il proprio bagaglio di esperienze personali (e anche, eventualmente, etniche) a due costanti della cultura musicale statunitense: il jazz (con tutto ciò che esso ha implicato) e l’innodia protestante, cioè gli unici due elementi che, secondo lo stesso Bernstein, abbiano in qualche modo toccato tutta la popolazione degli Stati Uniti. Più volte, e direi che tale impressione riguarda una buona parte delle sue realizzazioni discografiche così come diverse esperienze concertistiche cui ho assistito, si avverte in molti suoi lavori emergere caratteristiche innodiche, sia nell’ambito di prolungati excursus improvvisativi, sia all’interno di forme apparentate al song

Vengo da un contesto religioso e questo sicuramente ha influito sulle mie convinzioni spirituali, che credo siano percepibili anche all’ascolto della mia musica. Direi, anzi, che ne facciano inscindibilmente parte. Suonare è un rituale comunitario, che – se vuoi – può assurgere allo stato di una preghiera e nel silenzio di una preghiera. Non parlo in termini di religioni, ma di religiosità, del rivolgersi a un potere superiore, a un’entità suprema che ci connette al mondo così come alle nostre aspirazioni e realizzazioni interiori. Racconto sempre un episodio che riguarda me e Gary Peacock, e al quale torno spesso per spiegare la concentrazione richiesta per ottenere il risultato che vorresti, quanto sia importante ‘ascendere’ a un risultato. Prima di un concerto Gary si rivolge verso di me e, mentre ci avviamo verso il palcoscenico, mi dice: «Knock’em dead!» «Stendili!». Io gli risposi: «Voglio soltanto riuscire a suonare due buone note.» Perché quello sarebbe già stato un ottimo risultato. Ritorniamo ancora una volta al concetto di integrità. Quanto alle considerazioni di Bernstein, le trovo in larga parte condivisibili. Soprattutto perché l’improvvisazione è stata in grado di connetterci a qualsiasi cultura, senza avvertire il peso di un obbligo interpretativo, di una mediazione forzata. Un musicista classico ha per forza un rapporto, per quanto creativo, con un testo immutabile, un improvvisatore può spostarsi in ogni parte del mondo, interagire con qualsiasi cultura, dialogare nei modi che reputa più idonei per arricchire la propria esperienza e la propria musica. Questa è la forza del jazz, soprattutto del jazz americano, così come la musica classica europea ha la sua forza che, invece, è più difficile da cogliere e replicare per un autore americano.

Gianni Morelenbaum Gualberto