«Oggi è domenica, mister Haden. L’ambasciata è chiusa»

Il contrabbassista racconta alla conduttrice di Democracy Now! le vicende che precedettero e seguirono il suo arresto in Portogallo

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Come nacque il primo disco della Liberation Music Orchestra? Come avevi formato la band, e perché quel nome?
Ero molto preoccupato per ciò che stava accadendo nel mondo, tra l’amministrazione Nixon e la guerra in Vietnam, e iniziai a pensare che forse era il caso di fare qualcosa. Nel corso degli anni avevo raccolto una serie di canzoni della Guerra Civile spagnola, e decisi che mi serviva un contesto in cui suonare quelle canzoni dal contenuto politico. Era una cosa che non avevo mai fatto prima. Certo, potevo scrivere un brano sul mio idolo Che Guevara e chiamarlo Song For Che. Potevo scriverne un altro sulla convention del partito Democratico che si era tenuta a Chicago nel 1968, dove la gente era stata picchiata per le strade e sbattuta in galera.
Così chiamai Carla Bley, che conoscevo fin dal 1957 e che era ed è una grande arrangiatrice e compositrice, le spiegai cosa volevo fare e cle chiesi di scrivere gli arrangiamenti. «Vediamo un po’ la musica», rispose lei. Così le feci ascoltare tutto quanto. Lei scrisse dei brani, io ne buttai giù altri. L’idea era di arrangiarli come le vecchie incisioni della Spanish Republican Band, con trombe, corno, tuba, sassofoni, e facemmo proprio così. Io convocai tutti i miei amici con cui suonavo jazz all’epoca – Don Cherry, Dewey Redman, Paul Motian, il grande Roswell Rudd – e chiedemmo loro se se la sentissero di partecipare. Tutti risposero di sì, e allora Carla scrisse gli arrangiamenti.
Per prima cosa dovevo trovare una casa discografica. Tutte quante mi dissero di no perché era un disco politico. Alla fine pensai a Bob Thiele, che era stato il produttore di John Coltrane alla Impulse! e lavorava ancora per quell’etichetta, di proprietà della ABC. Andai a trovarlo e gli spiegai la situazione. «Un gran bel progetto», disse lui. «Facciamolo. Non posso garantirti che verrà pubblicato, ma facciamolo lo stesso». Così Thiele affittò la Judson Hall, sulla 57th a New York. Io conoscevo alcuni veterani della Abraham Lincoln Brigade che avevano combattuto in Spagna e che abitavano in città e nei dintorni. Ne chiamai uno, lui sparse la voce tra i suoi ex commilitoni e vennero tutti in massa con le mogli.
Dopo il concerto, mi recai a Los Angeles – all’epoca abitavo a New York – per parlare con uno dei funzionari della casa discografica. Volevo dargli qualche informazione fasulla, senza che lui lo sapesse. Erano tutti preoccupati della parola «liberation» nel nome della band, per via del Fronte di Liberazione in Vietnam e di tutto ciò che si portava dietro. «Guardi che è una parola importante», gli dissi. «Su questa parola si fondano gli Stati Uniti. E se non mi pubblicate questo disco, qualche gruppo rock è già pronto a chiamarsi in questo modo». «Santo cielo!» rispose lui. «Non ci avevo pensato. Va bene, procediamo pure». Insomma, non fu difficile convincerli a pubblicare il disco. Quando uscì, l’album suscitò parecchie discussioni, perché l’ala più conservatrice della critica jazzistica lo stroncò in massa. Quindi finì per passare sotto silenzio. Ma col tempo è diventato un classico.

Il quartetto di Coleman all’epoca dei capolavori per l’Atlantic: da sinistra Don Cherry, Ed Blackwell, Ornette e Charlie Haden. Con una formazione pressoché analoga (Dewey Redman al posto di Cherry) il sassofonista si esibì a Cascais nel 1971 e Haden visse una brutta esperienza

Ci racconti la vicenda del Portogallo? Cos’era, il 1971?
Esatto. Avevo appena avuto tre gemelle, Rachel, Petra e Tanya, che adesso sono anche loro musiciste, e poco dopo Ornette mi chiamò per dirmi che eravamo stati invitati a partecipare a un tour europeo del Newport Jazz Festival, assieme all’orchestra di Duke Ellington, al gruppo di Miles Davis, a Dexter Gordon e ai Giants Of Jazz, che comprendevano Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, Sonny Stitt, Al McKibbon, Art Blakey. Roba da non credere. E io facevo parte del quartetto di Ornette, assieme a Ed Blackwell e Dewey Redman.
Prima di partire, controllai il nostro itinerario e vidi che avremmo dovuto suonare in Portogallo, che aveva un governo che non mi piaceva affatto. Una sorta di regime fascista. Avevano ancora le colonie, Guinea-Bissau, Angola e Mozambico, e vessavano sistematicamente i neri. Così chiamai Ornette e gli dissi che non intendevo suonare in Portogallo. «Charlie, abbiamo già firmato il contratto», rispose lui. «Ci tocca suonare per forza. È l’ultima data del tour. Forse, però, puoi trovare un modo per esprimere il tuo dissenso, non credi?»
Insomma, nel corso del tour suonammo sempre uno dei miei brani, Song For Che, e visto che il pezzo era mio decisi di dedicarlo ufficialmente ai movimenti di liberazione dei neri in Mozambico, Angola e Guinea-Bissau. Al festival del jazz di Bucarest mi misi a parlare con un giornalista portoghese, che conosceva già il disco della Liberation, e gli spiegai cosa intendevo fare nel suo Paese. «Cosa mi può succedere?» gli domandai. «Tre o quattro cose», rispose lui. «Ti possono fucilare sul posto, o ti fanno scendere dal palco, o ti arrestano mentre suoni. Magari alla fine del concerto, in camerino. Oppure in albergo. Ma che ti arrestino è sicuro». Non gli credetti più di tanto. Come possono arrestarmi? Sono un musicista di jazz, sono americano, questo è un festival del jazz, non una manifestazione politica. Posso stare tranquillo.
Così feci la mia dedica – eravamo a Cascais – e non mi arrestarono subito, questo no, ma le prime file erano piene di giovani, di studenti, che alle mie parole cominciarono a gridare di gioia con tale forza da coprire la musica. Allora arrivarono valanghe di poliziotti che si misero a girare tra il pubblico con le armi in pugno, e appena finimmo il nostro set sospesero il festival e chiusero il grosso stadio in cui stavamo suonando. Noi tornammo in albergo, e fu allora che iniziai a preoccuparmi un po’.
Il giorno dopo ci recammo all’aeroporto, e io mi accostai al banco delle partenze per accertarmi che mi facessero portare il contrabbasso in cabina. Ma davanti agli sportelli delle compagnie aeree c’erano centinaia di persone. Alla fine un addetto della TWA uscì da dietro il bancone e mi disse: «c’è una persona, qui, che vorrebbe parlare con lei». «Non ho niente da dichiarare», risposi. Sopraggiunse Ornette, e chiese cosa stesse accadendo. «Vogliono parlare col signor Haden», rispose il tizio. «Voi imbarcatevi pure, ma lui resta qui». «Noi non ci muoviamo», disse Ornette, «restiamo qui con lui». Ma li presero con la forza, lui, Ed e Dewey, e li trascinarono a bordo. Io, invece, venni fatto scendere in un seminterrato, in una stanza da interrogatorio, e lì attaccarono a bombardarmi di domande. «Poi ti trasferiremo al quartier generale della PIDE». La PIDE era la polizia politica del Portogallo. «Sono un cittadino americano e ho un passaporto degli Stati Uniti», dissi. «Esigo di chiamare la mia ambasciata». E il tizio che lavorava per la TWA mi guardò e rispose, con un sorrisetto: «Oggi è domenica, mister Haden. L’ambasciata è chiusa. Lei sbaglia a mischiare la politica con la musica».
Tempo cinque minuti e mi avevano caricato su una macchina per portarmi in carcere. Mi gettarono in una stanza buia e rimasi là dentro per non so quanto. Parecchio tempo, comunque. Fu un vero shock. Pensavo che non avrei più rivisto i miei figli, che fosse ormai finita. Non sapevo cosa avessero intenzione di fare. Finalmente mi tirarono fuori di lì e mi portarono in una stanza per interrogarmi, sotto una luce accecante. Non vedevo nulla. C’era un tizio che parlava inglese e iniziò a tartassarmi a forza di domande, senza sosta. Una di queste domande me l’aspettavo, in realtà, e mi ero ripromesso di cercare di fregarli. «Perché hai fatto quella dedica?» mi chiese. «L’ho fatta in ogni Paese in cui abbiamo suonato. In Germania ho dedicato qualcosa ai tedeschi, in Francia ho fatto altrettanto». «E ti aspetti che ci crediamo?» Poi volevano che firmassi una dichiarazione, ma rifiutai, e allora si fece avanti un altro tizio che impugnava un manganello e se lo sbatteva nel palmo dell’altra mano. È davvero finita, pensai. Ma proprio in quel momento giunse un tale che bisbigliò qualcosa all’orecchio del capo degli sbirri, il cui atteggiamento cambiò all’istante. «Signor Haden», disse, «adesso la portiamo di sopra. Dall’ambasciata degli Stati Uniti sono venuti a prenderla». Così mi fecero salire in questa stanza arredata con sfarzo, tutt’altra cosa rispetto a prima, e il tizio dell’ambasciata mi abbordò subito: «Ehi, Charlie, ma cos’ha detto l’altra sera per provocare tutto ‘sto casino? Mi chiamo Bob Jones, vengo da Chicago e sono l’addetto culturale. Venga con me, che la portiamo fuori da questo posto». Così mi accompagnò a casa sua, dopo di che all’aeroporto e…

Era l’addetto culturale di Nixon in Portogallo.
Proprio lui. In seguito, venni a sapere da Ornette e da altra gente che gli Stati Uniti non avrebbero voluto muovere un dito, perché gli seccava terribilmente quel che avevo fatto, per via della NATO. E non volevano entrarci. Ma alla fine fu Ornette a darsi da fare, così come uno degli organizzatori del festival, dicendo: «Guardate, si tratta di un jazzista famoso, e cercate di toglierlo dai guai perché altrimenti non ci fate una gran bella figura».
Tornato a casa, dopo un po’ iniziai a preoccuparmi di nuovo perché ricevetti una visita dall’FBI. Sapevo che stavano tenendo d’occhio la casa, perché c’erano sempre delle macchine ferme là davanti, e so riconoscere un’auto civetta quando la vedo. Alla fine mi suonarono alla porta e dissero: «Siamo dell’FBI, vogliamo parlarle». «Perché dovrei farvi entrare? Comunque non ho niente da nascondere. Accomodatevi». Così mi chiesero perché mi fossi comportato in quel modo, e io risposi che ero in disaccordo con la politica del governo portoghese, ecco perché. Avevano un intero dossier su di me, vi rendete conto?
Ma lo rifarei di nuovo. Combattere per l’uguaglianza nel mondo è un impegno. Quando vedi attorno a te cose che non sono degne di un essere umano non puoi restare zitto. Louis Armstrong non era riuscito a tacere, e lo stesso hanno fatto Charles Mingus e Max Roach, e anche Archie Shepp. Sono lieto di essere uno di loro.

Testo di Amy Goodman, traduzione di Luca Conti