Carla Bley e il suo doppio

Gli incontri e gli incroci musicali di Carla Bley non sono mai stati casuali se non in apparenza, e sembrano una guida pratica alla teoria dei sei gradi di separazione. Ecco un viaggio tra le sue numerose esperienze «di frontiera» intraprese nel corso degli anni.

796
Photo by Michael Putland/Getty Images

Quando Carla Bley salì sul palco del Jazz Fest Berlin sapeva bene in che razza di situazione si sarebbe andata a cacciare. Ad attenderla c’erano schiamazzi e fischi a volontà, la cattiva e inveterata abitudine con la quale il pubblico berlinese si era conquistato una fama non certo invidiabile. Manco a dirlo, la tradizionale cerimonia della gazzarra si ripeté puntuale quel 14 novembre 1979, ma l’impavida californiana non si fece certo intimorire e rispose a muso duro. Battibeccò, zittì tutti e la sua band attaccò Boo to You Too, un brano da lei scritto proprio per stigmatizzare l’ostinata maleducazione di un certo pubblico. La vicenda venne anche documentata in un disco confezionato per il mezzo secolo d’esistenza del festival: «50 Jahre Jazz Fest Berlin», album fuori catalogo del quale si è già invocato ristampa nella rubrica Li salvi chi può (Musica Jazz, marzo 2019); quanto al brano che impugnò per menar sonori fendenti, ne parleremo più in là.

L’esecuzione fu un magistrale coup de théâtre con il quale Carla Bley chiarì tre cose in un colpo solo. In primo luogo dimostrò una straordinaria presenza sul palco; inoltre ribadì il suo spiccato senso per l’ironia, non solo nella sua musica pervasa spesso da humor, quanto nel saperci fare con lo sberleffo vero e proprio. Infine, di fronte a un pubblico ostile, non mostrò alcun timore alzando la posta con un brano pop, invece che pescare tra le meraviglie del suo repertorio più squisitamente jazz.

Questa era Carla Bley, o meglio: anche questa era Carla Bley. Una donna capace di andare per la sua strada grazie a un temperamento ardimentoso, e un’artista curiosa che ha ficcanasato dove le pareva, che si è lasciata sedurre da qualsivoglia tentazione musicale e poi, sempre in virtù di un’intelligenza vivace, ha tenuto per sé il meglio di ogni avventura, facendo maramao anche a barbose e fumose critiche fatte in difesa di un ideale purismo privo di costrutto. In particolare, nelle sue relazioni con le musiche pop la sua capacità di mettersi in gioco (e di esporsi) è ben messa a fuoco, illuminata a dovere.

Questa parte poco ortodossa della sua carriera si può far iniziare nel 1974, quando in coppia con Mike Mantler, suo compagno ormai da un decennio dopo la separazione da Paul Bley, Carla si trasferisce in mezzo al verde di Willow. Qui i due aprono il Grog Kill Studio, spazio per registrazioni professionali nel quale è stata prodotta gran parte dei suoi lavori in studio fino a oggi. La loro etichetta era nata da circa un anno, si chiamava Watt Works, e il pensiero va subito a Samuel Beckett del quale Mantler aveva da poco messo in musica estratti da Come è (Comment c’est, 1961), affidando il tutto a un trio (Carla Bley, Don Cherry e Jack Bruce), che pare una sfrondatura radicale della Jazz Composer’s Orchestra al pari di quanto operato dall’irlandese sulla parola letteraria. Il tutto viene registrato tra il febbraio e il luglio del 1973 a New York e l’album sarà il secondo pubblicato dalla Watt: «No Answer». A inaugurare l’etichetta fu lei con «Tropic Appetites», il primo disco registrato nei nuovi studi, magari anche per galanteria. A Willow, inoltre, siamo dalle parti di Woodstock, ma forse è un caso. Fatto sta che qualche mese dopo Carla Bley compare tra i membri di una band dedita a un jazz-rock, per così dire, autoriale: la Jack Bruce Band. I tempi dei Cream erano oramai lontani e Bruce, fresco dell’estemporanea esperienza hard rock con i Mountain, si era già distinto anche come musicista sensibile, anch’egli curioso (dunque intelligente) coinvolto da Carla già nel maestoso organico impegnato nelle registrazioni di «Escalator Over the Hill», opera jazz dai mille colori, scritta e diretta dalla Bley (su testi del poeta canadese Paul Haines) e pubblicata all’alba dei Settanta. La nuova formazione del bassista inglese schierava Mick Taylor alla chitarra solista, ex a sua volta di un’altra rock band di fama planetaria, i Rolling Stones dai quali aveva da poco divorziato. C’erano con loro Bruce Gary, batterista assai affidabile che aveva fatto la sua gavetta blues con Albert Collins, e Ronnie Leahy, pianista acustico ed elettrico (l’immancabile Fender, all’epoca) prelevato dagli Stone The Crows, scozzesi dediti a un rude e robusto rock-blues.

A sua volta, Carla Bley si dilettava per lo più all’organo elettrico (un Hammond), al mellotron e al sintetizzatore. Il gruppo se ne andò in tourneé nella primavera successiva, partendo da Barcellona (dove suonò il 22 aprile) per poi chiudere il nove giugno alla Cambridge University con l’ultimo di ben ventisei concerti europei. Qualcosa di quella esperienza è rimasto su disco: il concerto alla Free Trade Hall di Manchester del 1 giugno 1975, finito su un doppio lp intitolato «Live ‘75». Ebbene, che cosa ci faceva Carla Bley alle prese con un anthem rock come Sunshine of Your Love dei Cream o altri brani dagli album intestati al solo Bruce? È presto detto: si divertiva molto e imparava qualcosa. Andarsene in giro con una band le piacque assai, e non le fu facile sulle prime tornarsene semplicemente a fare la compositrice. Imparò anche a far fronte a un pubblico poco compassato come quello assai giovane del rock. Dal punto di vista più strettamente musicale prese alcuni appunti, per esempio sperimentando timbri inusitati, cosmici, nelle incursioni con il mellotron. Quanto a Sunshine of Your Love, lavorò finemente all’Hammond per estrarne la vena più bluesy di solito sovrastata dall’onnipotente riff. Registrazioni di migliore qualità audio si trovano inoltre nel box antologico «Spirit», con otto brani eseguiti il 6 giugno di quell’anno negli studi della BBC dove la band fu ospite per promuovere il tour europeo.

Chiusa l’esperienza, Carla Bley e Jack Bruce si sarebbero ritrovati ancora una volta molti anni dopo. E a fare da trait d’union come ai tempi di «Escalator Over the Hill» fu nuovamente Haines. L’occasione si intitola «Darn It!», un album intestato al poeta canadese e pubblicato nel 1993 dalla American Clavé, l’etichetta fondata da Kip Hanrahan. Un doppio monumentale zibaldone messo in musica chiamando a raccolta una folla di praticanti ogni genere di credo musicale, da Evan Parker ad Alex Chilton (lui, quello di The Letter dei Box Tops, hit del 1967), da Robert Wyatt a Paul Bley. Carla venne coinvolta unicamente come autrice, riprendendo due brani. Il primo, Rawalpindi Blues, arrivava da «Escalator Over the Hill» e fu riaffidato a Jack Bruce, qui accompagnato da un Don Pullen in forma smagliante. Dell’altro si occupò il sassofonista e «plagiarista» canadese John Oswald, che ripropose – arrangiato per carillon – Funnybird Song, il brano che in «Tropic Appetites» cantavano in rapida sequenza Julie Tippetts, la piccola Karen Mantler (otto anni) e Howard Johnson. Funnybird Song fu poi ripresa in versione strumentale nel successivo «Dinner Music» dove assunse movenze caraibiche. Oswald fu assai delicato nei confronti della creaturina di Carla Bley, e c’è di che meravigliarsi se si tengono a mente i Frankenstein sonori che andava creando in quegli anni, con non pochi guai legali, ma probabilmente a contare fu la suggestione nata dalla presenza di una bambina nell’originale.

Le convergenze tra Jack Bruce e Carla Bley continuarono a rimanere parallele quando entrambi finirono nel giro dei Golden Palominos e suonarono nel disco «Visions Of Excess», (1985, Celluloid) non però negli stessi brani. Nati come versione più urticante dei Material di Bill Laswell, i Golden Palominos modificarono a più riprese il loro assetto. Li partorì il batterista/produttore newyorchese Anton Fier dopo aver prestato servizio nei Pere Ubu per registrare «Song of the Bailing Man», e sulle prime puntarono forte su una sorta di avant funk, come testimonia il primo album, ma con «Visions of Excess» virarono verso un neo-pop luccicante, ritrovando un certo gusto per le melodie soppiantate nell’esordio dal ritmo. Carla Bley presenzia in Buenos Aires, un brano cantato dall’allora esordiente Syd Straw sopra uno spesso e ingombrante tappeto percussivo. Oltre alla voce brillante di Straw si apprezzano le vaghe trame soul che Carla disegna all’Hammond. Incontri e incroci non casuali che, come si vedrà ripercorrendo i viaggi musicali della Nostra, non saranno gli unici, assomigliando quasi a una guida pratica alla teoria dei sei gradi di separazione.

Paul Haines aveva conosciuto Hanrahan ai tempi di «Escalator Over The Hill», quando il giovane Kip aveva viaggiato tra Magreb e India. In seguito, tornato in patria, Hanrahan era finito a lavorare per la JCOA e infine, nel 1979, aveva fondato la sua American Clavé, che inaugurò con un omaggio a Teo Macero, da lui ammirato e studiato. Il disco, intitolato semplicemente «Teo» (1980) fu prodotto a quattro mani con lo stesso Macero e faceva risplendere diverse perle vecchie e nuove del repertorio del sassofonista e compositore newyorkese. Personaggio inclassificabile e quindi chimicamente affine a Carla Bley, ufficialmente scultore e percussionista, Hanrahan amava mescolare i generi con disinvoltura e misura, soprattutto negli album pubblicati fino a metà anni Ottanta, infarcendoli di rimandi e suggestioni letterarie e cinematografiche, di jazz (free e post-free), rock, musica latina e funk. Una rotta obliqua tracciata fin dal primo album, «Coup de tête», pubblicato nel 1981. All’opera uno sciame variegato di musicisti, tra cui lo stesso Macero impegnato al tenore in Heart On My Sleeve, un brano da egli stesso composto e dove aleggia aria tanghèra. Alla festa presenziò anche Carla Bley, impegnandosi con una canzone scritta da Carlos d’Alessio (su testo di Marguerite Duras): India Song, tratta dall’omonima pellicola firmata nel 1975 dalla scrittrice e regista francese. Iniziò in tale occasione un proficuo sodalizio artistico tra Hanrahan e Carla, che canta in francese dopo aver introdotto e accompagnato al piano, assai intriso di blues, il robusto tenore di Chico Freeman nella lunga esposizione del tema. La signora canta quasi recitando e sembra pronunciare le strofe quasi da un tempo lontano, ottenendo un effetto spiazzante e in perfetta coerenza con lo spirito irriverente di Hanrahan. A margine, va annotato che in seguito un ospite fisso nei lavori di Hanrahan (anzi, il collaboratore più stretto) sarà, guarda caso, proprio Jack Bruce.

Quella di Carla non è l’unica voce che si ascolta nell’album. Lo stesso Hanrahan declama in diversi brani, e in un paio tocca a Lisa Herman impegnare l’ugola. Sarà una delle poche occasioni in cui l’inafferrabile cantante si rifarà viva dopo l’exploit  del 1976 di «Kew. Rhone.», assieme a «Smell of a Friend» (1988, Antilles) dei Lodge, formazione vagamente annoverabile nel giro del rock d’avanguardia inglese, quello di derivazione Henry Cow. Ne facevano parte gli altri due responsabili di «Kew. Rhone.», John Greaves e Peter Blegvad, assieme al chitarrista Jakko M. Jakszyk tuttora in forza ai King Crimson. Il disco non riuscì un granché e a salvarsi è proprio la ballad scritta, cantata e suonata al piano da Herman: Swelling Valley. Nel mezzo, c’era stato il terzo album dei Golden Palominos assieme a Blegvad, «Blast of Silence» (1986, Celluloid; la Bley in un brano) e con loro c’era un altro bassista, Chris Stamey, che chiamerà Herman come corista per il proprio album da leader, «It’s Alright» (1987, A&M).

Tutt’altra musica, comunque, quella dell’album inciso nel 1976 al Grog Kill Studio e al quale partecipò anche Carla Bley: il citato «Kew. Rhone.» (1977, Virgin), uno dei dischi-culto dell’alternative rock britannico. Opera nata da uno stato di grazia rivisto poche volte da quelle parti, un gioco sulla forma-canzone surrealisticamente bistrattata, divertissement su testi composti da elenchi di proverbi, di oggetti, o di anagrammi, oppure mere descrizioni dei disegni realizzati da Blegvad per illustrare il disco; dagli arrangiamenti perfetti che assecondano le linee sbilenche delle melodie agli interventi strumentali dal piglio teatrale, dagli aromi di jazz diffusi e consistenti a un pizzico di rumorismo per mescolare le carte, tutto si assembla assecondando una logica invisibile in un’atmosfera alla fin fine surrealista. Carla Bley non si limitò a produrre il disco ma vi partecipò assieme a Mantler. Canta in un brano (Twenty-Two Proverbs), suona il sax tenore in altri due e pare decisamente a suo agio tra dissonanze e ritmiche sghembe, quasi a sostanziare nella prassi il commento a uno dei disegni di Blegvad, che rappresenta un termometro a forma di punto interrogativo e che recita così: «L’ambiguità non può essere misurata come un cambio di temperatura». Nella moltitudine degli album coraggiosi che rimangono fuori catalogo a tempo indeterminato, «Kew. Rhone.» rappresenta la classica eccezione, contando ben quattro diverse ristampe negli ultimi decenni.

A frequentare gli studi della coppia Bley-Mantler c’era anche un altro inglese in qualche modo annoverabile come paladino dell’immaginario regno di Canterbury: Gary Windo. Veniva da Brighton e se ne era andato negli USA per una decina d’anni, poi nei primi Settanta, tornato a casa, si era distinto affiancando la Brotherhood Of Breath, Hugh Hopper, Robert Wyatt, Keith Tippett. A suo nome però combinò poco e di quel poco, allestendo effimere formazioni, qualcosa registrò proprio al Grog Kill Studio tra il 1976 e il 1978. Lavorò in diverse occasioni al servizio ora di Mantler (per esempio in «More Movies»), ora di Carla che ricambiò episodicamente. Un paio di registrazioni sono emerse nella raccolta «His Master’s Bones» (Cuneiform) e risalgono al febbraio 1978; sono di poco precedenti al tour UK con la Carla Bley Band di cui al momento era membro e con la quale incise di seguito «Musique Mécanique». Windo entrò subito nello spirito giocoso, anche sopra le righe, che animava la musica di quella stagione bleyana. I brani inclusi nel disco della Cuneiform sono entrambi della signora, e uno non ha titolo. È una marcetta dall’aria pastorale introdotta da Windo al flauto prima di passare al tenore e addentrarsi negli angoli più solenni di un canto dal sapore gospel. Windo si alterna nuovamente al flauto e al tenore, lascia spazio alla partner e tutto si conclude solo dopo aver spremuto l’ultima goccia di blues. L’altro brano è Baby Fatele, una ballad dai tratti melodrammatici che sembra accompagnare la fine di un amore.

Nel ricordo di quel freddo giorno invernale durante il quale, tra risate e qualche bicchierino, venne registrata quella buona musica, Carla Bley tenne a sottolineare quanto credesse completamente in Windo. Tant’è che in concerto i due si erano mostrati già affiatatissimi già un paio di anni prima (Windo sarà sul palco anche nel famigerato concerto berlinese del 1979) quando si erano ritrovati al Baden Baden Jazz Festival. La Workshop Band allestita per l’occasione schierava tra gli altri Mantler, Hopper, Albert Mangelsdorff e Roswell Rudd. Anche in questo caso una coppia di brani venne inclusa nella scaletta di «His Master’s Bones»: un brano dello stesso Windo, Standfast, e uno dei pezzi da novanta del repertorio di Mongezi Feza, ovvero You Ain’t Gonna Know Me, ‘Cause You Think You Know Me. Nel primo emerge tutto l’amore di Windo per il r&b, e addirittura per il dixieland disinvoltamente intrecciato con il free e portato al parossismo sonoro. Nel secondo l’amore fraterno con i sudafricani di stanza a Londra, con i quali lo sfortunato Windo condivise non poche avventure. A chiudere lo sparuto numero di tracce di quella collaborazione estemporanea, è poi saltato fuori un brano anche nella raccolta «Steam Radio Tapes» (2013, Gonzo Multimedia) che riporta brani incisi tra il 1976 e il 1978. Tra questi c’è Sweet Angel, composto da Windo e con la Bley al piano acustico. Windo era ancora nella band di Carla, quando costei arrangiò e registrò il suo delizioso omaggio a Nino Rota, tra i bocconi più saporiti del primo di una serie di straordinari progetti allestiti da Hal Willner: «Amarcord Nino Rota» (1981, Hannibal).

La composizione di Rota è il celeberrimo tema di e l’atmosfera circense che la caratterizza (il tema è fedelmente riproposto) lancia a turno i solisti in una giostra di interventi scoppiettanti tra fughe e ritorni sorprendenti. Un contributo notevole, che impose a Willner di esprimere un particolare ringraziamento a Carla Bley nelle note di copertina. Un incontro felice che la portò a presenziare anche al secondo e ancor più riuscito concept di Willner: «That’s the Way I Feel Now – A Tribute To Thelonious Monk» (1984, A&M). Carla si incaricò di ripensare Misterioso, creando per l’occasione una sorta di ouverture crepuscolare prima di prender di petto l’infernale saliscendi che è l’attacco originale del brano. Per far le cose per bene chiamò per l’occasione Johnny Griffin, uno che del mandato di Monk era stato testimone di prima mano. La collaborazione con Willner si concluse l’anno dopo col varo del terzo progetto, «Lost In The Stars. The Music of Kurt Weill» (1985, A&M). Oggetto delle cure amorevoli di Carla fu proprio il brano eponimo e l’orchestrazione fu messa al servizio di un unico indiscusso solista: Phil Woods. La suggestione cinematografica non si limitò però al solo Rota (e in qualche modo Weill) ma divenne qualcosa di più in quegli anni con la scrittura di una colonna sonora, esperienza mancante nel curriculum della Bley. L’occasione le fu offerta da un anomalo thriller francese, Mortelle Randonnée (1983) di Claude Miller, film da noi conosciuto con il titolo La dolce assassina. Parte delle musiche è originale, ma soprattutto è di interesse il lavoro che Carla operò su un tema assai popolare come quello della Paloma, accennato, variato, ripiegato, accartocciato, sminuzzato, manipolato in ogni modo. Un autentico saggio di bravura arrangiatoria.

Il tour nella girandola delle esperienze eterodosse di Carla Bley termina con la sua opera più celebre, e logica chiusura del cerchio: «Nick Mason’s Fictitious Sports», pubblicato nel 1981 dalla Harvest ma registrato nell’ottobre del 1979. Ha scritto Riccardo Bertoncelli (Musica Jazz, agosto 2018): «[…] un disco di canzoni riflessive-stralunate e scoppi di jazz cabaret, secondo il gusto di madame fin dai giorni di “A Genuine Tong Funeral”: con la voce di Robert Wyatt che illumina almeno due brani da antologia, Siam e I Am A Mineralist, e la policroma orchestra della famiglia Mantler con Chris Spedding, Gary Valente, Howard Johnson, Steve Swallow, più Mason naturalmente, che con passione e ironia sbuffa, rotola, gorgheggia, stride fin dall’inizio, quando rumorosamente proclama di non trovare la chiave d’accensione (Can’t Get My Motor to Start)». È l’album intestato al batterista dei Pink Floyd per via della firma ben più celebre (lo ricorda sempre Bertoncelli citando lo stesso Mason). È l’album che ha in scaletta Boo to You Too, affidato in studio a Wyatt e lo stesso brano con cui Carla sfidò a singolar tenzone il pubblico berlinese. Era inedito al tempo del concerto del 1979, e gli spetttatori tedeschi avviarono la caciara subito dopo l’esecuzione di I Am a Mineralist. Fuochi d’artificio per una stagione irripetibile.

Nel mezzo del cammin della sua vita, come si è visto, Carla Bley si guardò parecchio intorno, acchiappò quel che le serviva ma non si prese mai troppo sul serio e fece comunque tesoro di tutto. Molti di quei compagni d’avventura non ci sono più (Bruce, Windo, Willner, Haines…), e da qualche giorno neanche lei: ma per fortuna resta la musica a far da testimone oculare; per il resto, Life Goes On, come constatava quello che è rimasto il suo ultimo album.

Gennaro Fucile