Giorgio Gaslini: pensiero e azione nel jazz

A un anno dalla scomparsa del maestro, facciamo il punto su oltre cinquant'anni di una frenetica ma meditata attività che ha saputo sprovincializzare il jazz italiano

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Giorgio Gaslini - foto Luciano Rossetti/Phocus

Quando muore un personaggio di grande portata artistica, si dice che un’epoca è finita anche se non è vero o se questa era già terminata da tempo. Nel caso di Giorgio Gaslini, scomparso il 29 luglio del 2014, tre mesi prima di compiere ottantacinque anni (era nato a Milano il 22 ottobre del 1929), non ci troviamo di fronte alla fine di un periodo storico semplicemente perché la strada che lui aveva aperto prosegue tuttora, la sua spinta non si è esaurita in quanto era parzialmente anticipatrice del modo di intendere, oggi, la musica, il jazz e quindi mantiene una chiara forza propulsiva. Questo rilevante compositore e pianista aveva infatti già indicato da decenni una nuova prospettiva nella scena musicale italiana, vivendo fortunatamente abbastanza a lungo per veder maturare ciò che proponeva nelle sue pionieristiche opere e nel lavoro di artista consapevole, cioè una linea europea e italiana del jazz e l’accettazione istituzionale, pur con mille problemi, della didattica di questa musica. Non solo, ma ha continuato a comporre sino alla fine e solo da pochi anni aveva dovuto ridurre considerevolmente, per ragioni di salute, la sua attività concertistica come pianista e direttore d’orchestra. Scrivevo all’inizio che non è finita un’epoca; in realtà è così, ma su un punto specifico dovrei correggere la mia affermazione. Con lui stanno scomparendo, e non solo nel jazz, le figure di artisti che sanno essere anche intellettuali e testimoni del loro tempo, cioè personalità capaci di portare nella loro arte la propria esistenza, facendo di ogni opera un esempio di coerenza e di impegno verso se stessi e gli altri. Questo modo di comportarsi evidenziava in Gaslini un’impostazione assolutamente nuova per l’Italia del jazz del secondo dopoguerra perché era sorretta da un pensiero europeo e, quindi, sprovincializzante rispetto ai modelli comportamentali e anche musicali tipici del mondo jazzistico dell’epoca, del tutto subalterno rispetto al jazz statunitense. L’autorevolezza culturale e dialettica con cui sosteneva le sue tesi metteva poi in soggezione una critica che in quegli anni, in ambito jazz, era certamente influente ma povera di strumenti teorici e non certo prodiga di attenzioni verso i musicisti italiani, oltre che per nulla abituata a trovarsi di fronte artisti di un così alto spessore culturale e dialettico. In ciò si rivela l’unicità della sua posizione, fuori dagli schemi del tempo anche per la costante frequentazione di registi cinematografici e teatrali, attori, musicisti classici, pittori che rappresentava qualcosa di nuovo e inusuale nel panorama del jazz nazionale. Inoltre, attraverso la contemporanea attività in sede jazzistica e classica portava le sue competenze a mescolarsi tra loro rappresentando, per molto tempo, una vera e propria anomalia in un panorama musicale nazionale nel quale, diversamente da oggi, i legami e le connessioni tra discipline artistiche erano poco frequenti. Anche la titolazione delle sue composizioni non rispondeva all’ottica jazzistica, legandosi profondamente al modo di pensare i titoli dei brani degli autori del secondo Novecento europeo, mentre i suoi stessi schemi compositivi uscivano dalle logiche in uso nel jazz, eccettuate ovviamente quelle dei grandi compositori, Ellington su tutti. Scorrendo il suo catalogo jazzistico si nota che comprende oratori (per esempio il Colloquio con Malcolm X), balletti, suite e persino una pseudo-opera (Mister O), ma anche titoli legati a temi specifici, esattamente come avviene per il mondo eurocolto. Non casualmente, uno dei suoi lavori più noti, Canti di popolo in jazz, può trovare come compagni di strada i Folksongs di Luciano Berio piuttosto che le innumerevoli versioni jazzistiche di pezzi popolari elaborate copiosamente da vent’anni a questa parte. Infine, va sottolineato il ruolo da lui svolto per portare all’interno dei Conservatori, cioè dell’Accademia, l’insegnamento del jazz, inaugurato in Italia all’inizio degli anni Settanta proprio con i suoi corsi sperimentali di Roma e Milano. Il suo percorso artistico, durato quasi una settantina di anni, rivela la costante attualizzazione dei contenuti musicali già precocemente evidenziati alla fine degli anni quaranta e teorizzati in quel Manifesto di Musica Totale da lui pubblicato esattamente mezzo secolo fa e poi sviluppato in un volume uscito a metà degli anni Settanta.

A quell’ideale musicale, che proponeva la possibilità di utilizzare liberamente vari linguaggi musicali per realizzarne uno sincretico, Gaslini rimase sempre fedele, realizzando la sua idea soprattutto quando il perno di quella sintesi era rappresentato dal jazz e dalla sua prassi. In sostanza questo pianista, autore e direttore d’orchestra che ha operato sia sul terreno jazzistico sia nell’ambito della musica eurocolta di impronta novecentesca, ha presto capito che solo la ricerca di una propria identità culturale, coincidente anche con quella geografica, poteva evitare ai jazzisti italiani la sudditanza eterna ai modelli di derivazione americana e per questo il suo percorso fu inizialmente compreso da pochi, tra i quali c’era un giovane pianista e compositore di nome Enrico Intra, che già nella seconda metà degli anni Cinquanta cercava una strada musicalmente diversa cogliendo in profondità le ragioni dell’operare gasliniano, di cui ha sempre riconosciuto l’importanza, la centralità nel mondo jazzistico italiano. In realtà, a livello generale Gaslini è stato, e in fondo rimane, una figura controversa. Rispettato per la sua competenza, ha subito lo scetticismo di tanti jazzisti per la sua musica, alla quale non veniva riconosciuto quell’atteggiamento stilistico derivato dai canoni americani cui, sino agli anni Settanta, dipendevano quasi totalmente i pur personali e creativi linguaggi degli artisti italiani. Al tempo stesso, il mondo accademico non lo ha mai considerato come parte integrante della sua cerchia confermando la sua posizione non allineata; a tale proposito, un musicologo di formazione e cultura classica ma con interessi trasversali, quale Renzo Cresti, ha correttamente sottolineato che «una personalità eccezionale, come quella di Gaslini, proprio perché fa eccezione, ha sofferto di ingiustizie critiche da una parte e dall’altra ». Del resto, la filosofia della «Musica Totale» ha condotto il suo operare artistico su strade originali e poco battute, nelle quali il jazz ha incrociato forme e strutture della musica europea di tradizione colta ma anche la musica folk e il mondo della canzone. La sua lunga carriera lo ha visto operare nei territori della musica eurocolta in maniera più ampia e continuativa di quanto si possa pensare, a cominciare da un percorso di formazione che lo ha portato, negli anni Cinquanta, a conseguire sei diplomi al Conservatorio di Milano, tra cui quelli di pianoforte, composizione e direzione d’orchestra, in un periodo nel quale al «Verdi» studiavano anche Claudio Abbado, Luciano Berio, Maurizio Pollini. Con loro Gaslini si trovò a parlare di musica, recependo le idee nuove che stavano per dar vita a un cambiamento profondo nel mondo musicale europeo, soprattutto interessandosi alla linea seriale e dodecafonica che lo portò a comporre, nel 1953, un brano intitolato Cronache Seriali.

Prima di dedicarsi per anni agli studi accademici, Gaslini era però già salito agli onori della ribalta come enfant prodige della scena del jazz moderno italiano, musica a cui si era avvicinato per ciò che rappresentava in termini di libertà espressiva. Giovanissimo, nel secondo dopoguerra militò nei Diavoli del Ritmo, in cui imparava a orecchio temi e ritmi di natura swing, per poi passare nel sestetto del batterista Gil Cuppini, forse la prima, autentica formazione bop italiana, per la quale, nel 1948, scrisse un originale arrangiamento di A Night In Tunisia. Scrittura e improvvisazione cominciarono subito a convivere nella sua musica, così come jazz e musica europea, tanto che in quello stesso anno fondò un trio dall’organico alla Benny Goodman ma lontanissimo da quel mondo, con Cuppini e un clarinettista di nome Gino Stefani, diventato poi uno dei capiscuola della semiotica musicale in Italia e un autorevole docente al DAMS di Bologna. Con quel gruppo incise il sintomatico Concerto Riff, una miscela di pianismo concertistico e tema riff che vale come un manifesto programmatico. Ma i secondi anni Quaranta lo videro anche al fianco dell’allora celebre Orchestra del Momento di Aldo Rossi e del sassofonista Eraldo Volontè, per completare un apprendistato sul campo che si univa a quello, più convenzionale, dello studio a casa. Tornando ancora più indietro nel tempo, non possiamo dimenticare che gli stimoli culturali assorbiti in famiglia furono inusuali, considerando che l’adolescenza venne in gran parte vissuta nel periodo fascista e negli anni della guerra. Il padre, giornalista e africanista, possedeva strumenti africani che certo dovettero sembrare curiosi al giovane musicista, a cui erano rimaste impresse anche le canzoni popolari della balia, quelle argute del grande Petrolini e quelle Afro di Josephine Baker. Oltre, naturalmente, ai suoni del jazz e a quelli della grande musica da concerto europea, che formavano un paesaggio sonoro straordinario e in grado di suscitare collegamenti di ogni genere. Il suo ritiro dalle scene per dedicarsi allo studio della musica che rappresentava le sue radici culturali colte fu probabilmente dovuto alla necessità di capirne in profondità il linguaggio storico e quello contemporaneo, di cui voleva avere una precisa cognizione. Il grande ritorno sulle scene, soprattutto quelle jazzistiche, avvenne nel febbraio del 1957 al Festival Internazionale del jazz di Sanremo, dove dimostrò di aver assimilato le tecniche musicali del novecento più avanzato presentando Tempo e Relazione, una composizione dodecafonica che fece subito scalpore per i valori veicolati dal suo autore. Il brano, interamente scritto e della durata di oltre otto minuti, rappresentava un originale modo di pensare la musica, dove i suoni del jazz diventavano un materiale da utilizzare in senso compositivo; non casualmente, in quella stessa serata, il trio di un giovanissimo Enrico Intra poneva anch’egli sul tappeto la sua idea di jazz europeo, uscendo decisamente dagli schemi. La pagina di Gaslini era fondamentalmente un pezzo di natura euro colta, con colori e ritmi mutuati dal jazz, di cui però mancava il modo di fare musica, la stessa concezione estetica, che non vi erano presenti; curiosamente, pur non possedendone le caratteristiche, l’opera venne però totalmente assimilata al mondo della musica di derivazione africana americana. Nei primi anni Sessanta ci fu poi lo sviluppo della sua attività di performer e autore jazz, a cui si aggiunse quella di compositore di colonne sonore cinematografiche, tra le quali spicca la musica per il film La Notte di Michelangelo Antonioni, realizzata suonando in scena con il suo quartetto. La qualità del lavoro, in cui prevalgono le tematiche bluesy, lo portò a vincere il prestigioso Nastro d’Argento per la miglior colonna sonora dell’anno.

Ma tutto il Gaslini degli anni Sessanta è fecondo di idee che lo portano a realizzare alcuni dei dischi più importanti della sua carriera e a caratterizzare in maniera indelebile il jazz italiano del periodo, soprattutto guidando un quartetto diventato storico, con Gianni Bedori che si rivelò polistrumentista di grande sensibilità, aperto ai nuovi linguaggi quanto conscio della tradizione e in grado di apportare il sound dei sassofoni tenore, contralto e baritono e quello del flauto; quindi, con Bruno Crovetto, contrabbassista di formazione classica, e quel Franco Tonani che si distingueva come batterista inventivo, sulla linea del nuovo modo di suonare lo strumento in cui facevano capolino la lezione di Elvin Jones e il colorismo timbrico di Sunny Murray. Con questo gruppo inciderà le suite Oltre (1963), Dall’alba all’alba (1964) e La stagione incantata (1968), quest’ultima con la batteria nelle mani di Gianni Cazzola. Inoltre, nel 1966, con un ensemble internazionale costituito per l’occasione, darà vita a «New Feelings», un ampio affresco ispirato dalle nuove tendenze del jazz informale e con partner prestigiosi quali Don Cherry, Steve Lacy, Gato Barbieri, Enrico Rava, Jean François Jenny-Clark, Ken Carter, Aldo Romano, oltre a Bedori e Tonani. Infine, va segnalata un’importante lettura, realizzata nel 1964 con un gruppo cameristico, di Dodici canzoni d’amore scelte tra Paoli e Modugno, Bindi e Bellini, Carpi, Donaggio e altri autori. Si tratta del secondo esempio in assoluto (due anni dopo il disco sulla canzone italiana in jazz di Dino Piana, peraltro presente nell’organico) di un’operazione jazzistica su repertori che sono diventati di uso comune solo tra i jazzisti contemporanei. Questa molteplicità di interessi era il riflesso di una precisa concezione, che venne evidenziata sul piano teorico nel citato Manifesto di Musica Totale del 1964, in cui si legge: «Siamo quindi per la sintesi di tutte le culture e quindi per la fusione di tutti i linguaggi musicali (…) Totale non significa caos. Significa non tralasciare ciò che anche per un solo uomo conta e operare per un tutto futuro, al vertice di un’evoluzione del mondo (….) Questo è un movimento musicale, non è un metodo o una tecnica semplicemente, ma una scelta di fondo che si traduce in un’assunzione di tutti gli stili e i generi musicali in un unico personale uso». Concetti chiari, assolutamente anticipatori di quanto, in realtà, sta succedendo oggi nell’occidente multiculturale, nel quale l’estetica del jazz ingloba suoni, strumenti, competenze provenienti da un vasto universo sonoro. Al di là delle enunciazioni di principio, poco si è fatto per verificare se e come Gaslini ha seguito gli intendimenti del suo manifesto. Per esempio, molte di quelle idee si trovano nel suo modo di utilizzare il pianoforte, in cui la formazione classica relativa al tocco, ai cluster, ai portamenti si è unita a un uso jazzistico dei voicings e alla percussività e poliritmia tipica della tecnica dello strumento in ambito africano americano, trovando una propria, originale dimensione, nella quale possono convivere intense progressioni melodiche e armoniche di tipo blues e cellule seriali, le costruzioni di impronta bop e post bop con la fraseologia della musica per tastiera del Sette-Ottocento.

Giorgio Gaslini mentre discute con alcuni giovani durante un concerto

In sostanza il Gaslini pianista, come ha acutamente sottolineato Claudio Sessa, «è riuscito a inventarsi una tecnica propria, funzionale alle proprie idee compositive», evidenziando così uno degli ambiti nei quali egli ha meglio riunito, in una singolare sintesi, le tecniche europee con la personalizzazione del materiale sonoro di tipo jazzistico. Un sincretismo strumentistico presente in maniera trasversale in tutta la sua produzione, ma particolarmente evidente nei suoi dischi in piano solo, in cui dimostra di saper piegare le composizioni di Monk, Sun Ra e Albert Ayler a un lucido pensiero compositivo, inserendole in un mondo dove serialismo, trame settecentesche, astrazioni novecentesche ridefiniscono la natura dei materiali attraverso una cultura che non conosce steccati divisori. Analizzando il corpus delle sue opere in solo, notiamo come questo pensiero ricostruttivo agisca anche in seno a pagine proprie oppure evidenzi lo spirito appropriativo del jazzista pur nella consapevolezza del «suono» delle musiche scelte, nell’interpretazione di pagine di Fauré, Monteverdi, Strozzi, Haendel, Bartók e altri autori della grande tradizione europea che definiscono un quadro generale in cui non c’è mai genericità di tratto, ma solo attenzione alla natura del materiale da affrontare. Forse, proprio in queste situazioni più intime, che presentano l’artista solo con se stesso e nelle quali non deve mediare il senso del suo pensiero estetico con altri musicisti, si realizza compiutamente il sogno di un’opera totale, che poi tale non può essere proprio perché si risolve principalmente nel rapporto Europa-Stati Uniti. Tra gli altri suoi brani di derivazione accademica ricordiamo Chorus per flauto solo, tenuto a battesimo nel 1966 da Severino Gazzelloni, poi la presentazione, nel 1968, dei primi due tempi di Totale I e, nel 1971, la composizione delle musiche per la Grande rappresentazione dell’Amante militare di Carlo Goldoni. A queste si devono aggiungere altre composizioni, tra cui il balletto Contagio, andato in scena con la coreografia di Balanchine e, in periodi diversi, con ballerine come Luciana Savignano e Liliana Cosi. Negli ultimi quarant’anni, Gaslini ha poi scritto molta musica pianistica di stampo accademico contemporaneo affidandola a esecutori quali Massimiliano Damerini e Alfonso Alberti, insieme a sinfonie e musica cameristica. Pianista, certo, ma anche direttore d’orchestra, non si è fatto mancare nulla delle esperienze musicali possibili, acquisendo quella familiarità con diversi linguaggi che, non a caso, è una meta di molti musicisti contemporanei. Tra la fine degli anni Sessanta e la prima parte del successivo decennio il suo impegno civile e sociale è stato esaltato dai tempi, con la contestazione, le rivendicazioni operaie, la richiesta di una società più aperta e democratica. Al fianco degli studenti nel memorabile Concerto per la resistenza, tenutosi all’Università Statale di Milano nel 1968, è stato protagonista di performances nelle fabbriche occupate, ha partecipato con Franco Basaglia agli incontri musicali con i degenti degli ospedali psichiatrici ha titolato le sue composizioni e i suoi dischi in modo conseguente: «Fabbrica occupata», «Message», «Colloquio con Malcolm X». Ha poi fondato, a metà decennio, la casa discografica autogestita Dischi della Quercia, dedicata alle proprie produzioni e al lancio di giovani di valore, tra i quali le due cantanti Tiziana Ghiglioni e Francesca Oliveri e il debutto come leader di Gianluigi Trovesi.

Da quel periodo e sino alla metà degli anni Ottanta ha pubblicato per la sua etichetta opere significative alla testa di organici di grande livello, a cominciare dai quartetti con cui ha realizzato la variegata «New Orleans Suite» (con Gianni Bedori, Julius Farmer e Johnny Vidacovich), l’informale e coloristico «Murales» (con Bedori, Bruno Tommaso e Andrea Centazzo), entrambi del 1976, la strutturata «Skies Of China» del 1985 (con Claudio Allifranchini, Piero Leveratto e Paolo Pellegatti). In quintetto è invece lo storico «Live At The Public Theater in New York» del 1980 (con Trovesi, Bedori, Marco Vaggi e Gianni Cazzola), in cui Europa e America si incontrano felicemente. Questa è anche la conclusione di una collaborazione ventennale con un musicista creativo e dalle molteplici possibilità espressive quale il compianto polistrumentista Gianni Bedori, il partner che più a lungo ha accompagnato la vicenda artistica gasliniana. Nella linea del jazz più aperto e radicale ma non velleitario, quanto invece diretto dal pianoforte del leader, sono i due sestetti di «Free Actions» e «Graffiti», rispettivamente del 1976 e 1977 (con Bedori, Trovesi, Damiani, Cazzola e Agudo), una formazione di livello assoluto. Infine, ci sono i due dischi in ottetto con musicisti quali la Oliveri, Di Gregorio, Allifranchini, Caldura, Morgera, Leveratto o Pavan, Pellegatti; con questo gruppo Gaslini ha inciso la «Indian Suite» del 1983, forse un poco didascalica, e il più intenso «Monodrama» del 1984.
Accanto a queste opere entrate poi a far parte del catalogo Soul Note, che ha anche pubblicato una serie di Cd titolati «L’integrale» in cui viene raccolta tutta la produzione discografica di Gaslini, ci sono importanti incontri in duo con musicisti americani: «Sharing», del 1978, con il trombonista Roswell Rudd, il più inventivo e intenso, in cui si guarda all’Europa senza perdere il contatto con le radici americane; quindi il più concettuale e compositivamente elaborato «Four Pieces», del 1981, con il polistrumentista Anthony Braxton, che con Gaslini condivide l’uso di materiali eterogenei per realizzare la propria musica, spesso non lontana dalle logiche del mondo contemporaneo di matrice eurocolta, e, infine, «Ecstasy» (sempre del 1981) con il contrabbassista Eddie Gomez, nel quale la musica si trova in mezzo al guado tra due continenti e due visioni, stavolta senza riuscire a stabilire una reale empatia tra i suoi protagonisti. Nel 1984 Gaslini ha poi realizzato una sorta di quadratura del cerchio incidendo «Schumann Reflections», un album in trio (con Leveratto e Pellegatti) nel quale troviamo la sua esecuzione delle Kinderszenen del grande maestro del pianoforte romantico e una suite jazzistica a quelle ispirata, concettualmente non lontano dall’essere un precedente delle opere di Uri Caine, seppure diversissimo nella costruzione della musica. La stessa originalità interessa globalmente il suo jazz, nel quale il tipo di sincretismo linguistico anticipa diverse pratiche contemporanee, rivelando quanto le sue idee abbiano precorso i tempi e a volte reso difficile comprendere la sua poetica, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta quando, come abbiamo già sottolineato, la critica e gran parte dei musicisti erano assolutamente impreparati a comprendere le proposte che uscivano dagli stereotipi consolidati. Un atteggiamento espressivo e un abito mentale che si riflettevano sul comportamento quotidiano, sull’immagine del musicista, più simile a quella del concertista e del compositore eurocolto che al tipico jazzista da club, con le citate frequentazioni di ambienti culturali di lunga tradizione, nonostante si muovesse musicalmente in un contesto più underground. In questo senso portava nel jazz italiano un modo di essere che appariva nuovo, differente anche nei luoghi in cui veniva prodotta la musica: le sale da concerto piuttosto dei club, oppure, all’epoca della contestazione, le già menzionate fabbriche occupate, le università, gli ospedali psichiatrici, come del resto facevano Intra e musicisti classici quali Pollini e Abbado. Del resto, nella sua collezione discografica personale era più facile trovare l’opera omnia di Bach o Mozart rispetto a quella di Miles Davis o di Charlie Parker, che pure conosceva a fondo. Anche nel modo di considerare e inquadrare il suo lavoro, Gaslini era profondamente differente dai musicisti di jazz italiani, generalmente poco o per nulla inclini alla teorizzazione, alla riflessione estetica, mentre lui ragionava sulla musica in maniera simile a quella delle personalità del Novecento eurocolto altamente consapevoli del proprio agire e, in questo senso, era vicino a Schönberg, Boulez, Berio o Stockhausen, per fare solo alcuni nomi. Difatti la pubblicazione di Musica Totale, stilato inizialmente in forma di manifesto, esprimeva la necessità di spiegare le linee del proprio agire, gli intenti che lo portavano in una precisa e originale direzione, mentre Tecnica e Arte del Jazz riflette in maniera esemplare le idee dell’autore Gaslini e non un astratto modo di agire tipico dei manuali d’uso, concentrandosi su una precisa visione artistica che richiede adeguate conoscenze tecniche per essere realizzata.

Giorgio Gaslini con Uri Caine

Nel testo, Gaslini non manca di affrontare con grande consapevolezza il fenomeno dello swing, di cui comprendeva a pieno la dimensione verticale del ritmo e il suo rapporto con il suono dimostrando, come scrive Caporaletti, «grande pregnanza e originalità quando ci dà una rappresentazione dello swing connessa con le strutture stesse della produzione del suono». Un cammino che dagli anni Ottanta è proseguito con coerenza e ha visto nascere le citate, significative opere in piano solo dedicate a protagonisti del jazz afroamericano, a cominciare da «Gaslini Plays Monk» del 1981, uno scavo nelle complesse geometrie ritmiche della musica monkiana affrontato con lucidità, quindi, sempre per Soul Note, «Ayler’s Wings» del 1990 e «Gaslini Plays Sun Ra», registrato nel 2003. Il suo inesausto lavoro creativo è proseguito con le singolari riletture ellingtoniane realizzate con l’ex-flautista di Luigi Nono: Roberto Fabbriciani e la cantante africana Titilayo Adedokun («Duke Ellington Legend» del 2000), la fondazione della Proxima Centauri Orchestra nel 2001, i lavori di musica sacra dell’anno successivo, la registrazione di un monumentale songbook per voce e pianoforte che presenta le sue oblique melodie declinate in cento brani di cui il compositore ha scritto anche gran parte dei testi; quindi, lavori sinfonici, cameristici e, soprattutto, la Fonte Funda Suite del 2008, in cui lo troviamo alla testa di quello che è stato il suo ultimo e più funzionale trio, quello con Roberto Bonati al contrabbasso e Roberto Dani alla batteria. Con loro, forse per la prima volta, si è trovato al fianco due partner che condividevano pienamente le sue scelte estetiche perché entrambi portatori di un analogo, seppure differente, pensiero musicale, permeato dalla cultura europea e lontano da qualsiasi imitazione dei modelli americani. Una produzione vastissima che nell’ambito della scena jazzistica italiana, ma anche europea, è davvero unica per la varietà di tematiche toccate, l’apertura linguistica e quella visione veramente «totale» che la anima (e tanti fraintendimenti ha creato nell’ambiente musicale italiano, spesso refrattario agli artisti dalla spiccata trasversalità). Al di la di come si voglia considerare il suo lascito artistico, è indubbio che Giorgio Gaslini sia stato una figura singolare, un pioniere della nascita di un pensiero espressivo e culturale che nel mondo del jazz sarebbe maturato solo decenni dopo la sua apparizione sulla scena musicale. Perché, in fondo, è soprattutto nel mondo della musica di derivazione africana-americana che il suo agire ha avuto una reale incidenza e ha trovato il suo ruolo principale, la sua stessa immagine artistica.

Maurizio Franco