Jazzfestival Saalfelden 2017: Eve Risser, MØster!, trio DaDaDa, Amok Amor

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Eve Risser White Desert Orchestra, Jazzfestival Saalfelden 2017 - foto Paolo Burato
Eve Risser White Desert Orchestra, Jazzfestival Saalfelden 2017 - foto Paolo Burato

Il jazz europeo conquista Jazzfestival Saalfelden 2017

In quattro giorni una valanga di concerti di ogni genere è stata distribuita su quattro palcoscenici diversi. Come sempre per altro, ma, diciamolo chiaramente, al Jazzfestival Saalfelden 2017 a fatica si è assistito ad appuntamenti esaltanti o memorabili. Si sono susseguite in ogni caso molte proposte di grande interesse e formazioni nuove, che hanno costituito motivo di discussione. La trentottesima edizione del festival austriaco non ha quindi tradito la sua funzione di documentare l’attualità jazzistica più trasversale, puntando i riflettori soprattutto su recenti esperienze europee. Segno dei tempi? Probabilmente sì, vuoi dal punto di vista della prevalenza estetica, vuoi per i problematici aspetti organizzativi e finanziari.

La sorpresa più rilevante è venuta dalla Eve Risser White Desert Orchestra. Nel condurre il suo tentetto, con l’ospite Luc Ex in veste di guastatore, la pianista francese ha dato corpo a un fermento collettivo d’impronta contemporanea, a una coinvolgente operazione intellettualistica dall’equilibrio instabile. Nei temi ampi e nei passaggi obbligati a contorno di veri e propri assoli si sarebbero potuti ravvisare richiami alla Liberation Music Orchestra e perfino agli impasti armonici del Gil Evans fine anni Cinquanta, ma contemporaneamente tutto si sfrangiava in una miriade di spunti eccentrici di grande efficacia.

La nutrita rappresentanza del jazz norvegese ha confermato un fenomeno ormai ben noto; vale a dire che negli ultimi trent’anni in una nazione di soli cinque milioni di abitanti hanno avuto la concreta possibilità di svilupparsi e maturare le esperienze più divergenti, che oggi vengono esportate in tutto il mondo accompagnate dal bollino “Norge DOC”.

MØster!, Jazzfestival Saalfelden 2017 - foto Paolo Burato
MØster!, Jazzfestival Saalfelden 2017 – foto Paolo Burato

Di esplicita ed energica impostazione rock è la musica del quartetto, coordinato dal sassofonista Kjetil MØster. Le atmosfere compatte e sature in alcuni frangenti si sono deformate in un’espressività più inquietante e ondivaga, basata sul contrasto timbrico che contrapponeva il baritono del leader al registro acuto della chitarra.

Di tutt’altro segno la proposta di Sinikka Langeland, che ha cantato e suonato sulle corde del kantele “poesie” incantatorie, ispirate alla mitologia e alla natura nordica, ma anche alla Bibbia. L’ineffabile leader era assecondata dai colori pastello stesi da un quartetto di titolati gregari, fra i quali Arve Henriksen alla tromba e Trygve Seim al tenore.

Cortex, Jazzfestival Saalfelden 2017 - foto Paolo Burato
Cortex, Jazzfestival Saalfelden 2017 – foto Paolo Burato

Diversa ancora la “Avant-Garde Party Music” (titolo del loro nuovo Cd in uscita per la Clean Feed) del quartetto paritario Cortex. La loro ben scandita e gioiosa smania jazzistica, con frequenti e tutt’altro che velati omaggi a Ornette, ha offerto una delle performance più confortanti e contagiose del festival.

Di recente formazione e rivelazione del festival, il trio DaDaDa comprende Roberto Negro, pianista italiano residente a Parigi, il sassofonista Émile Parisien e Michele Rabbia alle percussioni. La personale pronuncia strumentale di ognuno dei componenti ha dato sostanza a un progetto basato sull’enigmatico transitare dalle eleganti composizioni del pianista alle sostenute improvvisazioni collettive, a momenti di serena decantazione.

Roberto Negro, Émile Parisien e Michele Rabbia, Jazzfestival Saalfelden 2017 - foto Paolo Burato
Roberto Negro, Émile Parisien e Michele Rabbia, Jazzfestival Saalfelden 2017 – foto Paolo Burato

Per certi versi agli orientamenti di DaDaDa sono assimilabili le strutture del quartetto multinazionale Amok Amor, che possiedono un’evidente grana jazzistica, antica e attuale al tempo stesso. Sulla pulsazione continua del contrabbasso di Petter Eldh e sulle metriche disarticolate e timbricamente ricche di Christian Lillinger, l’approccio del trombonista Samuel Blaser e del sassofonista Wanja Slavin sembravano attualizzare modelli del passato per elaborare razionalmente schizofrenie di oggi.

Ha pienamente convinto anche l’apparizione di un sodalizio, già su disco Intakt, di quattro protagonisti assoluti quali Sylvie Courvoisier, Mark Feldman, Ikue Mori e Evan Parker: strumentisti d’inarrivabile potenza creativa che hanno imbastito un serrato interplay, infarcito di spunti individuali e di infinite combinazioni dinamiche e sonore, con risultati appaganti.

Jazzfestival Saalfelden 2017
Sylvie Courvoisier, Mark Feldman, Ikue Mori e Evan Parker aJazzfestival Saalfelden 2017 – foto Paolo Burato

Questa formazione, metà europea e metà americana, ci può introdurre alla smilza rappresentanza statunitense. È risultata per lo più deludente, in quanto frammentaria e poco significativa, l’attesa prova del progetto Steve Lehman & Sélébéyone, con le voci complementari dei due rapper.

Ben più impegnativa e ineludibile la ricerca sperimentale per contralto solo di Briggan Krauss, che si è mosso fra introspezione ed esternazione, intrecciando con estrema elaborazione tecnica note lunghe e frenetiche escursioni timbriche secondo un preciso arco narrativo.

Briggan Krauss, Jazzfestival Saalfelden 2017 - foto Paolo Burato
Briggan Krauss, Jazzfestival Saalfelden 2017 – foto Paolo Burato

Vale la pena inoltre di soffermarsi su Brian Marsella, un nome emergente che è riuscito a imporsi con una decisa personalità comunicativa. Su un repertorio tratto da The Book of Angels Vol. 31 di John Zorn e sostenuto dagli infallibili Trevor Dunn e Kenny Wollesen, Marsella ha dimostrato una tecnica forbita e un gusto per i contrasti dinamici, esponendo un pianismo onnivoro, in cui convivevano tracce di blues e di boogie, di Tyner, Tristano e Taylor, fino ad avvicinarsi agli attuali Tigran Hamasyan e Vijay Iyer. In definitiva una concezione appunto zorniana.

Fra i numerosi gruppi guidati da leader austriaci è il caso di citare quello del navigato Wolfgang Puschnig, comprendente partner provenienti da cinque Paesi: il quartetto d’archi Koehne Quartet e i fidi Achim Tang al contrabbasso e Patrice Heral alla batteria e voce. In alcuni momenti dei suoi original, dotati di un puntiglioso impianto compositivo e di una dimensione solo apparentemente cameristica, il contraltista sembrava un clone di Ornette (non a caso ancora lui), ma poi tutto procedeva con una malizia nuova e scanzonata. Peccato per un assolo vocale di Heral di grana davvero troppo grossa.

In sintonia con l’orientamento del programma di quest’anno, anche la chiusura del festival è stata affidata ad esponenti del jazz scandinavo attuale: quel caposaldo che sono ormai gli Angles 9 di Martin Küchen. Un’anomalia rispetto alle passate edizioni, quando si era puntato su maestri del jazz americano.

Sull’ancoraggio costante e solido fornito da basso e batteria, e corroborata dai colori brillanti di piano e vibrafono, si è mossa l’avventurosa polifonia di un’agguerrita frontline di cinque fiati, fra i quali i poderosi Magnus Broo alla tromba e Mats Äleklint al trombone, oltre all’autorevole e dinamico leader al contralto. Ne è sortita la testimonianza di un’indubbia vitalità jazzistica, di una ritualità collettiva, quasi a confermare che nel panorama internazionale i depositari più accreditati di questo verbo sembrano essere diventati i gruppi scandinavi quali Cortex, Atomic, Angles 9 e altri simili.

Libero Farnè

Angles 9, Jazzfestival Saalfelden 2017 - foto Paolo Burato
Angles 9, Jazzfestival Saalfelden 2017 – foto Paolo Burato