Pat Metheny, la Unity Band e John Zorn

Parliamo con il chitarrista del lavoro della sua Unity Band e dell’inattesa collaborazione con John Zorn da cui è nato il diabolico «Tap»

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pat metheny

Da alcuni anni Metheny opera alternativamente in diversi cantieri creativi: come solista («What’s It All About», disco di cover crepuscolari uscito nel 2011), come solista «potenziato» con l’apparato meccanico denominato Orchestrion («Orchestrion» nel 2010 e «Orchestrion Project» nel 2012) e come leader della Unity Band e chissà quante altre nuove sorprese Pat Metheny ha in serbo.

La parola che dà il titolo al secondo disco della Unity Band, kin, significa famiglia. La Unity Band è la tua nuova famiglia creativa?
In un certo senso sì. Ogni volta che decido di mettere in piedi una band cerco di coinvolgere validi musicisti, augurandomi che da quell’unione scaturisca qualcosa di veramente speciale. A volte si crea semplicemente una buona intesa musicale che produce un bel disco o poco più. La coesione della Unity Band, invece, è fuori dall’ordinario in tutti i sensi: sia perché ho un’ottima intesa con ogni suo membro, sia perché mi sento perfettamente a mio agio con il gruppo nel suo insieme. Accostare personalità musicali tanto diverse può essere rischioso, soprattutto quando si tratta di individui con un notevole talento. Noi abbiamo trovato il terreno comune su cui agire e ne siamo soddisfatti.

E cos’hanno in comune i cinque componenti della Unity Band?
A dire il vero non l’ho ancora capito. Sulle prime pensavo non ci fosse un tratto comune tra noi; poi mi sono reso conto che ne esistono diversi ma non ho mai provato a tradurre in parole ciò che musicalmente funziona sin dal primo incontro. Preferisco fare musica anziché preoccuparmi di razionalizzare. Raggiungere l’unità è la cosa davvero importante. È il modo in cui le persone o le cose stanno insieme a fare la differenza.

Pat Metheny con la Unity Band – foto Jimmy Katz

In senso figurato cosa rappresenta per te la Unity Band?
Un contenitore che racchiude stili completamente diversi e, allo stesso tempo, la mappa che descrive il modo in cui i musicisti sono collegati tra loro. È come se fosse la carta urbanistica di una grande città: si vede ogni cosa disposta su un piano e si capisce dove siano strade parallele, incroci e aree non edificate.

Che ci dici del nuovo membro del gruppo, il polistrumentista Giulio Carmassi?
È un musicista fuori dal comune: per lui niente è impossibile. In questo disco è il referente principale di ogni clima armonico. Quando lo sentii cantare la prima volta, fui rapito dalla bellezza della sua voce ma poi si mise al pianoforte e rimasi a bocca aperta. È un pianista formidabile. E suona molto bene anche altri strumenti. Averlo in formazione ha ampliato il potenziale della band e mi ha permesso di crescere come compositore. L’esordio della Unity Band, uscito nel 2012, esprimeva molto bene l’interazione tra i musicisti e mostrava la nostra capacità di creare brani coerenti. L’ingresso di Giulio ha reso ancora più vividi i colori musicali del gruppo: ha portato il technicolor.

pat metheny 80/81Cos’è cambiato e cos’è rimasto uguale nel tuo approccio alla musica, in questi anni?
Molte cose non sono cambiate e, anche se oggi sono più maturo di quarant’anni fa, non mi pento di nulla di ciò che ho fatto. Quando mi capita di riascoltare il mio primo disco, «Bright Size Life», non penso affatto: «Oh mio Dio, ma cosa accidenti mi passava per la testa quando a diciannove anni?». Se avessi occasione di risuonare quella musica con altri musicisti [allora erano Jaco Pastorius e Bob Moses] lo farei volentieri, perché so che rappresenta fedelmente il mio modo di essere intorno alla metà degli anni Settanta. Guardare indietro mi aiuta a capire chi ero. L’importante è l’idea che sta alla base delle nostre azioni: giusto? Ecco, io credo ancora nelle idee che c’erano in «Bright Size Life», in «80/81» e in tutti gli altri miei album, il che non significa però che per trovare l’autenticità ripensi a ciò che è stato: il presente non è che un’estensione del passato e l’esperienza che si accumula giorno dopo giorno è ciò che conta. Nei primi anni Settanta, quando decisi di intraprendere la professione di musicista, ero un adolescente: avevo sì e no cinque anni di esperienza e c’erano molte incognite. Adesso gli anni di esperienza sono quasi cinquanta: ho le idee molto più chiare.

Cioè ti senti più sicuro di te?
Sì. La pratica costante, la perseveranza e il confronto con altri musicisti producono una certa familiarità con l’incidere dischi, fare concerti e concentrarsi su nuovi progetti. Non credo di aver mai fatto cose trascendentali ma mi sono sempre impegnato a essere presente con tutto me stesso, ascoltando gli altri musicisti e suonando prima una nota, poi un’altra e poi un’altra ancora. Dare il meglio è sempre stato il mio obiettivo principale.

pat metheny kinIn «Kin» ci sono melodie e climi armonici di grande bellezza ma la componente ritmica è davvero preponderante. Hai sottoposto il batterista Antonio Sánchez a un superlavoro?
Antonio ha un ruolo fondamentale sotto ogni aspetto. Come compositore, come leader e anche come essere umano gli sono grato: lavorare con lui mi ha fatto evolvere enormemente. Dico sempre che se non esistesse lo si dovrebbe inventare. Nessuno è come Antonio Sánchez, credimi. Avere una persona così nella tua band ti permette di lanciare sfide impossibili e di porre i musicisti nella condizione di dimostrare ciò di cui sono veramente capaci. «Kin» ha ritmi molto complicati, in alcuni casi addirittura contorti. Quando spiegai ad Antonio cosa avevo in mente, mi guardò stupito: non credeva alle sue orecchie. Ed è davvero curioso che parecchie idee mi siano venute proprio ascoltandolo e osservandolo: spesso Antonio, come tutti i musicisti di enorme talento, non si rende conto della bellezza di ciò che fa. Ho voluto che la sezione ritmica costituita da lui e Ben Williams lavorasse in maniera inconsueta, sovrapponendo scansioni ritmiche diverse. In più c’è l’orchestrion che suona con loro.

Cosa può succedere in una sezione ritmica in cui convivono umani e meccanismi?
Be’, per esempio ci sono momenti in cui l’orchestrion suona un metro pari mentre Antonio e Ben s’inseriscono con un metro dispari, andando a recuperare la misura mancante all’ultimo momento. Risultato: parti ritmiche difficilissime. Se non avessi l’opportunità e la fortuna di lavorare con un batterista come Antonio e con un bassista come Ben, non potrei nemmeno immaginare di suonare cose del genere. La grandezza di Antonio sta nel rendere fruibili anche le soluzioni più ostiche: nelle sue mani le cose più aspre sembrano davvero semplici e chi ascolta non si accorge delle complessità. Mia moglie Latifa, quando ascoltò i pezzi di «Kin», cominciò a muovere la testa ritmicamente e a battere il piede e poi disse: «Sì, mi piace». Non mi domandò: «Pat, qui ci sono quattro battute in 11/4, seguite da due in 7/4 e poi in 4/4 fino all’assolo?». Era stata bene; punto. Quando ascoltai per la prima volta Pat Martino pensai: «Ehi, niente male. Sembra piuttosto semplice; adesso provo a farlo anche io» e scoprii che erano parti di chitarra estremamente complicate. Pat sapeva rendere fruibili anche le sequenze più difficili.

Pat Metheny's Orchestrion
Pat Metheny e l’Orchestrion

Cosa significa oggi per te essere un bandleader?
Curare ogni aspetto di ciò che si fa. Sottoporre nuova musica all’attenzione dei professionisti che suonano con me e lavorare su quel materiale. Avere il ruolo guida è una responsabilità e quindi all’occorrenza devo intervenire dicendo per esempio: «Questo va bene: continua così», oppure: «No, così non va: cambia». Quando scrivo musica ho in mente musicisti specifici: penso al loro modo di suonare, di interagire con gli altri, di fare gruppo. La Unity Band ha un suono coeso e potente. Antonio possiede un’energia inesauribile. Ben sembra nato con il contrabbasso in mano. E Chris Potter… Be’, per lui la normalità è suonare in modo eccezionale ma sa fare anche di più. Sì, Chris riesce a sorprendere. Capita che gli passi una certa frase musicale, dicendogli: «Ecco, questa è la melodia». Lui la suona a prima vista e mi stende.

Nel 2008, all’epoca di «Day Trip» con Sánchez e Christian McBride, mi dicesti che improvvisare in trio ti induce a provocare i musicisti affinché diano il meglio. Nella Unity Band non mancano i momenti di improvvisazione ma il modo di lavorare è molto strutturato. Quale grado di libertà operativa hanno Sánchez, Williams, Potter e Carmassi?
La relazione tra improvvisazione e partitura è uno temi più delicati e pericolosi della musica moderna e in particolare del jazz. Ho dedicato alla questione parecchi anni di lavoro e un grande quantitativo di energie, sia con il Pat Metheny Group sia con la Unity Band o con altri gruppi. Molte volte ho elaborato un tema e poi sono andato dai musicisti dicendo: «Questa è la melodia principale: partiamo da qui e poi improvvisiamo». Ne nascevano anche otto o nove minuti di musica. Altre volte, invece, ho pensato tutto fino all’ultima nota, per ogni strumento. Quando si suona con una big band o con un’orchestra si deve essere rigorosi: tutti i musicisti seguiranno la partitura tranne che negli assoli, che avranno comunque un numero limitato di battute a disposizione. Lavorare con un trio, ovviamente, è del tutto diverso ma c’è un aspetto basilare: i musicisti sono in prima linea e non possono limitarsi a fare una parte di routine. Per questo cerco di tener desta in ogni istante la loro attenzione, cioè di provocarli musicalmente, sia quando incidiamo un disco sia nei concerti, che non saranno mai uguali l’uno all’altro.

L’energia trascinante di pezzi come One Day One!, Rise Up e Kin si stempera nella gentilezza romantica di Kqu, che chiude magnificamente il disco. Generalmente chitarra e sassofono sono prime donne ma in quel pezzo agiscono come fratelli sia quando suonano all’unisono lo stesso fraseggio sia quando dialogano. Con Potter sembri aver raggiunto una forma di fratellanza creativa.
È proprio quello lo spirito di quel brano e della relazione musicale che si è instaurata da subito tra me e Chris. Abbiamo lo stesso istinto e quando suoniamo insieme ci capiamo senza dover usare le parole. D’altra parte i musicisti parlano con la musica: è quella la loro lingua. Chris è uno dei migliori che abbia conosciuto. Per me è un onore suonare con lui.

Che ricordo hai del primo tour della Unity Band?
Un unico, grande ricordo: ogni concerto era fantastico. La coerenza di quella band è qualcosa che non avevo mai sperimentato in precedenza. Ho suonato con gruppi incredibili, miei e altrui, ma la Unity Band è unica e irripetibile. Il livello dei concerti è sempre stato altissimo: ciascuno mi ha dato grandi soddisfazioni ed è riuscito a sorprendermi. Amo ottenere risultati così.

La tua collaborazione con John Zorn è nata nel 2009, quando scrivesti un commento per la quarta di copertina di un volume della serie «Arcana – Musicians On Music», da lui curata.
Sono saggi collettivi davvero grandiosi, non trovi?

tap methenySì. In seguito hai lavorato su musiche sue, incidendo con il contributo di Sánchez «Tap – Book Of Angels, Vol. 20». Che tipo di collaborazione era? Avevi temi da sviluppare a piacere o partiture complete?
Con John non si lavora gomito a gomito. Incontrarlo non è semplice. Seguo il suo percorso da più di trent’anni e lo trovo davvero stupefacente. Zorn è conosciuto e apprezzato ma non abbastanza. Troppe persone lo ignorano o lo bollano come avanguardia senza sforzarsi di capire seriamente il suo lavoro. È avanguardia? Ma certo che sì: è ovvio. E fa anche colonne sonore, ambient, musica romantica, rock, surf, exotica, free jazz… È un autore incredibile: si stenta a comprendere come possa mettere insieme una mole così ampia di lavoro dalla qualità media così elevata. Non è solo un compositore: è una forza trainante e trascinante. Nel 2009 entrammo in contatto via email tramite il nostro comune amico Derek Bailey, con il quale sia John sia io avevamo lavorato in precedenza. Zorn mi chiese di scrivere qualcosa per il quarto volume della serie «Arcana». Io lo feci. Ci scambiammo qualche altra email. Conoscevo la serie «Book Of Angels» e la trovavo pazzesca. L’idea di scrivere trecento pezzi in meno di tre mesi e poi dividerli in blocchi di dieci o dodici brani, da affidare a musicisti o band diverse, lasciando loro totale libertà per arrangiamento e produzione. Be’, ha dell’incredibile, no? Trecento composizioni sono un’enormità. A volte consistono in un’indicazione: niente di più. Altre volte si tratta di semplici notazioni con il ritmo e la linea di basso. Altre volte ancora sono una o più melodie con tutti gli accordi. Ma ci sono anche partiture complete in ogni dettaglio.

Da chi nacque l’idea di inserire Pat Metheny in quella collana?
Da me. Ne ero profondamente affascinato e così feci sapere a John che, se la cosa poteva interessargli, ero disposto a contribuire. Rispose che la mia partecipazione lo avrebbe reso l’uomo più felice del mondo. Disse che aveva brani perfetti per me e li inviò per posta elettronica. Erano dodici in tutto. In una pausa del tour con la Unity Band tornai a casa, diedi un’occhiata alle partiture, scelsi quelle che mi piacevano di più e mi misi al lavoro. Ho una stanza in cui ho accumulato tanti strumenti musicali e c’è anche l’occorrente per registrare professionalmente. Mi misi a suonare e mi divertetivo come un pazzo. Fondamentalmente riscrissi da cima a fondo tutti i pezzi, tenendo conto delle indicazioni di John che qua e là diceva: «Questo dovrebbe avere uno stile klezmer» oppure «Questa parte potrebbe essere molto romantica». Registrai alcuni brani e prima ancora di mixarli li feci avere a John, che mi scrisse: «Magnifico. Vai avanti». Ogni tanto mia moglie passava a vedere cosa combinavo e, sentendo cose un po’ diverse da quelle che faccio di solito, mi domandava: «Cos’è questa musica? È stranissima ma è proprio bella». Nel giro di una settimana avevo sei pezzi. Ero soddisfatto. Quanto tornai in tour dissi ai musicisti che in una settimana avevo registrato un disco tutto da solo ma mancava qualcosa: così chiesi ad Antonio di suonare alcune parti di batteria. Facemmo un salto nel mio studio casalingo e registrammo tutto. Poi mi dedicai all’editing e al mixaggio. Nessuno a quel punto li aveva ancora sentiti, oltre a Latifa e Antonio. Li mandai a John, pensando: «Chissà se gli piaceranno. Mah!». Lui ascoltò e – credimi – andò completamente fuori di testa: esplose di gioia. Decidemmo di far uscire il disco sia con Tzadik sia con Nonesuch. È stata davvero una bella esperienza. John è uno dei musicisti viventi che preferisco, in assoluto.

Dopo Metheny al lavoro su musiche di Zorn sentiremo Zorn su musiche di Metheny?
Sicuro! Credo che se lo sia già segnato sull’agenda.

Maurizio Principato