The Machine Stops: intervista a Tommaso Gambini

Il giovane chitarrista e compositore torinese, ma residente a New York, licenzia un concept album che trae spunto dal racconto di Edward Morgan Forster. Ne parliamo con lui.

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Tommaso Gambini e Dayna Stephens

Tommaso, il tuo disco reca il titolo mutuato dal racconto di Edward Morgan Forster. Come hai incrociato questo autore?
Nella primavera del 2018 sono stato selezionato come uno fra i vincitori di un grant della Compagnia Di San Paolo per artisti sotto i trent’anni; ne approfitto per ringraziarli. La premessa del mio progetto era quella della composizione di una suite di musica originale che, in seguito, sarebbe stata presentata in una serie di concerti e sarebbe diventata anche un disco. L’obiettivo di tale grant era il leitmotiv, ovvero il rapporto tra società e tecnologia (con particolare riferimento a Internet e i Social Networks). In particolare l’ispirazione mi era venuta con lo scandalo di Cambridge Analytica, che era emerso alcuni mesi prima. A questo punto si era posto il problema di come far risaltare l’aspetto, per così dire, narrativo della musica e di come fornire all’ascoltatore spunti più o meno tangibili di riflessione legati a questo argomento. Nel ricercare materiale letterario legato a questi argomenti, come ulteriore ispirazione, mi sono imbattuto in questo racconto di Forster. Dopo averlo letto mi sono reso conto che questo testo avrebbe costituito una piattaforma ideale per sviluppare una serie di composizioni perché consente l’approccio di tematiche di attualità con un angolo più poetico e distaccato.

E’ un racconto del 1909 e, tra l’altro, tra i pochissimi – all’epoca – di fantascienza. Ci vuoi dire che la tua musica è proiettata al futuro?
L’intenzione è quella che la musica rispecchi il presente, più di tutto; è vero d’altronde che con l’avanzare della tecnologia può darsi che alcune problematiche proposte da Forster diventino ancora più evidenti nel mondo reale; in quel senso sì, in qualche modo la musica guarda al futuro.

La realtà distopica forgiata da Morgan Forster è così dissimile da quella che viviamo?
E’ notevole come Forster abbia avuto l’intelligenza e la fantasia non solo di prevedere in qualche modo le moderne forme di telecomunicazione e interazione tra gli esseri umani, ma anche i risvolti negativi e distopici di una società di questo tipo. Sebbene ci siano molte somiglianze (e forse il Covid in qualche modo ci ha avvicinati ancora di più al mondo fittizio di Forster, per via dello stare al chiuso per lunghi periodi), la nostra realtà è tutto sommato lontana dalle cellette sotterranee immaginate dallo scrittore.

Prima di entrare nel vivo del tuo progetto artistico, quali sono le tue riflessioni sullo stato delle arti in conseguenza della pandemia Covid-19? E, a tuo avviso, il mondo dello spettacolo riuscirà a riprendersi del tutto?
L’avere a disposizione un periodo di tempo libero esteso, come si è visto per via del Covid, può essere un’occasione per comporre nuova musica, avventurarsi in territori sconosciuti, dedicarsi a pieno al proprio strumento. D’altro canto si devono fare i conti con l’assenza di stimoli e scadenze, l’impossibilità di misurarsi con il pubblico e di suonare assieme ad altri musicisti (cosa non da poco per il jazz che è basato in larga parte sull’interazione con gli altri). Personalmente ho colto questa occasione per ascoltare molta musica nuova, suonare ed esercitarmi forse un po’ meno ossessivamente che non di solito (cosa che non credo di avere mai fatto da una decina di anni, quasi), e riflettere sugli avvenimenti correnti. In Italia, negli Stati Uniti, e in tutto il mondo, questo è un momento denso di fatti molto significativi storicamente e mi sembra importante cercare formare un’opinione critica e informata del presente. E’ difficile fare previsioni sul futuro della nostra industria, e tutti i colleghi con cui ho avuto modo di confrontarmi — italiani e americani— stanno vivendo un momento di grande incertezza. Per quanto molti club siano ancora chiusi, e Festival cancellati, credo che prima o poi si ritornerà ad un senso di normalità — non c’è nulla che possa sostituire l’esperienza dell’ascolto di musica dal vivo.

Tommaso Gambini

Nella tua  musica c’è sempre un profondo senso narrativo e anche dell’ironia, come in The Old Machine. A tal proposito, quanto è importante essere ironici?
E’ vero, mi affascina l’aspetto più ironico della musica; in particolare penso ad un senso di ironia in certe melodie e come possono essere espresse. Mi viene in mente George Shearing ed il modo in cui ricompone melodie note (come I’ll Remember April o September In The Rain), oppure certi assoli di Miles Davis (come su Dear Old Stockholm da «Young Man With A Horn» con Jackie McLean), o anche alcune composizioni di Benny Golson (per esempio un brano Slightly Hep da Lee Morgan Vol II oppure Fair Weather da Art Farmer con Bill Evans) che hanno un senso quasi nostalgico, ma sono ironiche allo stesso tempo. In The Old Machine volevo dipingere in modo quasi per l’appunto ironico una vecchia macchina, con ingranaggi che girano a velocità diverse ma si ri-incontrano ad ogni giro, come poteva essere quella immaginata da Forster nel suo racconto.

In Vashti c’è un incontro tra differenti culture jazzistiche e stilemi di classica. Qual è il tuo rapporto con la tradizione?
Per quanto non abbia cercato consciamente di dare a Vashti un taglio classico, da bambino ho ascoltato molta musica classica, e i miei genitori mi portavano a sentire concerti sinfonici, quindi in qualche modo quel suono è parte di me. Durante i miei studi a Boston ho passato parecchio tempo ad analizzare spartiti di composizioni che mi hanno colpito (per esempio alcuni brani pianistici di Lizst oppure Chopin o Satie) provando a trasportarli sulla chitarra e cercando di capire come si muove l’armonia.

Hai avuto come riferimento, diciamo menabò, il racconto di Forster. E sei riuscito a rendere la musica immaginifica. Ti sei fatto un’idea fisica dei personaggi e degli accadimenti del racconto prima di comporre?
Ho riletto il racconto parecchie volte e mi sono fatto un’idea dell’arco narrativo del racconto e degli episodi che avrebbero potuto avere un corrispettivo musicale, e che avrebbero potuto essere riferiti al presente; ho avuto modo di riflettere su questi temi studiando composizione di musica da film a Boston. Ho dedicato un brano a ciascuno dei due protagonisti perché la storia ruota intorno a loro: da un lato Vashti, dall’altro Kuno, da un lato l’attenersi alle regole della «macchina» e l’essersi arresi a quella realtà, dall’altro il voler esplorare il mondo reale e il volere sfuggire alla «Polizia» della macchina.

In generale, il tuo metodo compositivo è per stati d’avanzamento o per fulminea intuizione?
Nella maggior parte di casi è stato un processo abbastanza lungo, specialmente perché volevo assicurarmi che la musica rispecchiasse il testo in qualche modo (e potesse essere modificata per ospitare la parte parlata) e perché volevo che i diversi brani fossero coerenti tra di loro. L’unica eccezione è l’ultimo brano, Tomorrow, che ho scritto completamente in forse mezz’ora.

Nel tuo disco c’è una superband. Come la hai formata?
Questa band è nata appositamente per questo progetto. Avevo suonato molto spesso in situazioni informali con Adam Arruda, Manuel Schmiedel e Ben Tiberio. Tutti e quattro abitiamo a Brooklyn e abbiamo molti colleghi e amici in comune. Sono musicisti molto intelligenti e versatili che sanno dare vita a composizioni originali portando qualche cosa di proprio. Dayna Stephens mi è stato presentato da Francesco Ciniglio, batterista di Napoli che ha vissuto a lungo a New York. Dayna ha ospitato una session informale a casa sua e Francesco mi ha invitato. Conoscevo la music di Dayna e i suoi progetti da parecchio tempo quindi sono stato contento di poter suonare con lui prima in un contesto informale e poi nel mio progetto. Ben Van Gelder mi è stato presentato anni fa alla Berklee. Ben abita ad Amsterdam, però capita spesso a New York, dove l’ho rivisto un paio di volte. E’ un sassofonista eccellente, con un approccio molto originale che mi piace moltissimo, ed è anche un compositore molto interessante.

A tal proposito: sarà complesso portare in giro una band così sostanziosa numericamente. Hai già in mente un piano alternativo per eventuali tour?
Nel 2019 abbiamo avuto la fortuna grazie al grant della fondazione di San Paolo di cui ho parlato di effettuare una serie di concerti in Italia (fra cui la “prima” al Festival Jazz Torino). E’ stato fondamentale avere un budget di partenza per sostenere spese di spostamenti e alberghi. Grazie a questo grant inoltre ho avuto modo di lavorare con Anis Hafaied, un giovane organizzatore di eventi di Genova (che fra l’altro ha organizzato il Genova Hip Hop Festival) che si è occupato della parte gestionale e organizzativa del Tour. Con Irene Scardia, manager di Workin Label, l’etichetta che ha pubblicato questo disco, si stavano organizzando alcuni eventi quest’estate che, però, sono stati cancellati a causa del Covid. La speranza è quella di poter mettere insieme qualcosa per il prossimo anno. I brani di questo disco sono tutto sommato abbastanza versatili — per esempio prima del tour della primavera scorsa abbiamo eseguito quel repertorio un paio di volte in quartetto in un locale qui a Brooklyn. Una delle tracce del disco (Tomorrow) è tratta proprio da un concerto.

Ricapitolando il tuo vissuto: sei nato a Torino, ma vivi a New York. La prima domanda è: come ti sei trovato a incidere con una label pugliese?
Dopo aver registrato il disco l’estate scorsa io e Anis (manager) abbiamo contattato diverse etichette per proporre il materiale. Su suggerimento di Luca Alemanno, bassista pugliese che abita a Los Angeles, ho contattato Irene Scardia e Workin Label si è dimostrata interessata; quindi abbiamo avviato una collaborazione.

La seconda domanda è: perché hai scelto di vivere a New York?
Dopo aver frequentato la Berklee molti amici e colleghi si sono spostati a New York e ho deciso di trasferirmi anche io. Non ero sicuro di quanto tempo sarei rimasto pero’ ero certo di voler passare un po’ di tempo a New York. E’ una città che per quanto sia cambiata nel tempo rimane la capitale del Jazz. Ci sono moltissimi locali e moltissimi musicisti davvero bravi. La possibilità di ascoltare dal vivo ripetutamente i grandi maestri mi ha fatto crescere molto.

Chi è stato il tuo mentore musicale?
Prima di trasferirmi negli Stati Uniti, durante il liceo, ho avuto modo di studiare e poi suonare professionalmente con Emanuele Cisi. Lui, insieme a Dado Moroni al conservatorio di Torino, è stato il mio primo mentore nel mondo del jazz. Alla Berklee e poi successivamente a New York mi sento di citare Ben Street, bassista, come uno dei musicisti che mi ha insegnato molto e mi ha aiutato in qualche modo ad inserirmi nella scena. Per il disco è stato di aiuto Miguel Zenon, sassofonista, con cui avevo suonato in passato; lui ha realizzato un disco che contiene parti recitate, che mi è servito in qualche modo da modello. Ci siamo trovati con Miguel ad Inwood, sopra a Harlem, dove abita lui, gli ho fatto sentire alcune demo dei miei pezzi, e gli ho descritto quello che era il mio concept. Lui mi ha dato dei suggerimenti molto utili.

Quali sono i tuoi obiettivi nel medio periodo?
E’ una domanda difficile perché l’epidemia di Covid ha modificato i paradigmi della musica dal vivo e della professione del musicista. Ho intenzione di rimanere qui a New York ancora per un po’ (le elezioni di novembre sono una grande incognita). Sto lavorando a nuove composizioni e sto esplorando metodi alternativi di pubblicazione di musica e altri contenuti.

Invece, a cosa altro stai lavorando?
Ultimamente mi sono interessato alla musica elettronica e alla tecnologia associata alla musica (per esempio ho mixato e prodotto il mio album). E’ un campo molto vasto e affascinate che consente di approcciare il suono da un punto di vista differente.
Alceste Ayroldi