Steve Lehman «Sélébéyone»

775

 

AUTORE

Steve Lehman

TITOLO DEL DISCO

«Sélébéyone»

ETICHETTA
Pi Recordings 

 

Tra tutti i linguaggi musicali, il jazz ha sulla carta una maggiore apertura a interazioni e scambi con altri mondi, anche se nel corso della sua storia ha mantenuto una duplicità di fondo, da ricondurre alla sua natura bianca e nera. Fin dalla sua nascita, e con buona pace dei sostenitori dell’acronimo BAM, è stata quest’ultima una delle sue principali caratteristiche. Certi bianchi hanno tentato di mediare con la musica colta europea caratterizzando il loro mondo – musicale e ideologico – come più conservatore. I neri hanno mantenuto maggiori legami con l’Africa connotando la loro musica in maniera più rivoluzionaria. Nella storia dell’idioma afro-americano si sono avuti rari casi di interscambio tra le due tradizioni ed è stato con l’entrata in scena di nuovi soggetti provenienti dall’Africa, dal Sud America, dall’Asia, che è avvenuta la definitiva globalizzazione del jazz. L’interscambio tra culture è diventato così un fatto acquisito, realizzando infine l’antica vocazione di sintesi di questa musica. In Senegal tutto questo viene indicato con un termine, sélébéyone, che in wolof – una delle sette lingue del Paese – significa intersezione, incrocio, confluenza. Lehman ha deciso di intitolare così il suo nuovo lavoro volendo indicare l’incontro, la fusione di mondi che si mischiano.

L’ascolto di questo disco è fondamentale. In primo luogo perché illustra ciò che abbiamo appena scritto: qui è il melting pot a venire sublimato, dimostrando che il jazz è ormai un linguaggio declinato a diverse latitudini con risultati sorprendenti e affascinanti. Poi perché i suoi nove brani rappresentano la summa di tutta la modernità possibile in un mondo in cui il manierismo ormai regna sovrano: qui forme espressive e stili musicali diversi (mceeing, djing, elettronica, jazz) si intersecano in un terreno attraverso il quale i rap in wolof del senegalese Gaston Bandimic e in inglese del newyorkese Hprizm (membro degli Antipop Consortium, già collaboratori di Matthew Shipp), melodie, armonie e ritmi ondulati si lasciano cullare e sostenere da musicisti perfettamente a proprio agio con la contemporaneità più avanzata e fisica. Non esistono sovrastrutture, in questo lavoro, né intellettualismi: la componente ritmica prevale nella sua accezione più genuina. Finalmente assistiamo al tentativo di andare oltre i confini dei generi per cercare di rendere fruibile un prodotto allo stesso tempo godibile e non catalogabile. Ed è forse questa la ragione che ci fa amare tale operazione. Non è giusto incasellare la musica, anche se a volte le etichette sono necessarie per identificare un concetto condiviso. Così è per il jazz, il blues, il soul, il rock, termini che sono entrati di diritto nell’immaginario culturale collettivo. Ma esistono delle definizioni imposte dallo show business che tradiscono l’esigenza di esercitare un potere di persuasione, qualcosa che con la musica ha poco a che fare. Il marketing per esempio, sempre più presente nell’armamentario di ogni musicista, e più in generale di ogni artista che voglia essere al passo con i tempi.

È stata l’industria discografica – un tempo molto influente, oggi sempre meno – ad aver coniato una delle definizioni più odiose e insensate degli ultimi vent’anni: il termine world music, epiteto che salta fuori ogniqualvolta si debbano affrontare artisti provenienti dal continente africano. È un’industria discografica pigra – ma meglio sarebbe dire incompetente – sostenuta da giornalisti musicali altrettanto pigri e incompetenti, ad aver contribuito a quell’appiattimento culturale che è sotto gli occhi di tutti e che continua a ghettizzare sempre più un mondo – quello dei musicisti e degli appassionati di musica – ormai ridotto al lumicino. Il grande merito di «Sélébéyone» sta nell’affrancare l’Africa dal ghetto culturale della world music riportando, attraverso il rap di Bandimic, il grande patrimonio musicale senegalese (in cui convivono mondi tra loro diversissimi, dall’afrobeat alla ju-ju music, dall’highlife alla salsa dell’Orchestra Baobab) alla sua dimensione di linguaggio in grado di reggere il confronto con la modernità. È in questo modo che il wolof del senegalese Bandimic si integra con l’approccio creativo del newyorkese Lehman, il cui sax contralto si muove tra jazz e musica contemporanea arricchendosi di elettronica e sovraincisioni. Lehman è un incrocio tra Jackie McLean e Anthony Braxton (con i quali ha studiato e collaborato) filtrato da una certa estetica M-Base. Il fraseggio obliquo del suo sassofono non sovrasta mai il lavoro dei compagni, e il risultato è un’equilibrata miscela tra interventi vocali e parti strumentali. Ognuno recita al meglio la sua parte, producendo una musica destinata a lasciare una traccia nell’immaginario del prossimo futuro.

Da più di vent’anni nella musica occidentale si parla di Africa, un continente che già a quei tempi, nello stesso momento in cui veniva squassato da enormi tragedie (guerre etniche, AIDS), comunicava in musica una sensazione di good vibrations che oggi potrebbe risultare oleografica. «Sélébéyone» ci introduce alle bad vibrations dell’Africa più urbana, di sicuro meno oleografiche e ben poco rassicuranti per noi occidentali ma ben più in sintonia con i tempi che viviamo.

Gaeta


DISTRIBUTORE

pirecordings.com

FORMAZIONE

Steve Lehman, Maciek Lasserre (sass.), Carlos Homs (p., tast.), Drew Gress (cb.), Damion Reid (batt.), Gaston Bandimic, HPrizm (rap)

DATA REGISTRAZIONE

11-12 gennaio 2016

 

Recensione
Voto globale
steve-lehman-selebeyone  AUTORE Steve Lehman TITOLO DEL DISCO «Sélébéyone» ETICHETTA Pi Recordings    Tra tutti i linguaggi musicali, il jazz ha sulla carta una maggiore apertura a interazioni e scambi con altri mondi, anche se nel corso della sua storia ha mantenuto una duplicità di fondo, da ricondurre alla sua natura bianca e...