Roberto Negro : Un italiano a Parigi

Il pianista torinese, da oltre vent’anni in Francia, è stato una delle rivelazioni più sorprendenti dell’ultima edizione del festival di Saalfelden. È quindi il momento di esplorare il variegato mondo di un musicista completo e originale

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Roberto Negro
Roberto Negro - foto Flavien Prioreau

Fuga dei cervelli anche in ambito jazzistico? Certo, molti giovani jazzisti italiani decidono di fare lunghe esperienze all’estero, stabilendosi a Berlino o a Parigi, in Olanda o in Inghilterra, più che negli Stati Uniti, madrepatria del jazz non più univoca e oggi un po’ snobbata. Non è stato invece un espatrio forzato quello di Roberto Negro, nato a Torino nel 1981 ma subito trasferitosi a Kinshasa con la famiglia, per poi spostarsi in Francia a quattordici anni. Dopo essersi diplomato al conservatorio di Chambéry, vive a Parigi da quando vi si stabilì nel 2008. Quindi tutta la sua formazione e la sua attività musicale si sono svolte fin dall’infanzia lontano dall’Italia.

Il collega svizzero Ruedi Ankli è stato il primo a parlarmi in toni ammirati del pianista, per averlo incontrato e ascoltato appunto a Parigi. Poco dopo ho avuto l’occasione di ascoltare il suo trio DaDaDa al festival di Saalfelden 2017, dove ha rappresentato una delle rivelazioni più sorprendenti. Ho sentito quindi la necessità di approfondire l’esperienza di un protagonista emergente, ancora poco conosciuto in Italia, che si presenta come musicista completo: compositore dalle strutture personali e ben stagliate, pianista di forte preparazione e soprattutto leader autorevole di formazioni anomale e coese, oltre che di progetti sempre mirati e originali. Tra l’altro Negro, nonostante non abbia mai vissuto in Italia, conserva a tutti gli effetti la cittadinanza italiana. «Non ho ancora chiesto il doppio passaporto – afferma a tal proposito – e dovrò farlo prima o poi». Dunque è l’occasione di fare la conoscenza del personaggio e del suo pensiero, cominciando proprio dalla sua inconsueta biografia.

Da cosa sono stati determinati i vari spostamenti dall’Italia a Kinshasa, poi alla Francia? Che ambiente hai frequentato e che influenze hai ricevuto in Africa da bambino? 
Il primo spostamento, che ha dettato poi quelli successivi, è stata la partenza per Kinshasa quando ero appena nato. I miei erano imprenditori e trovarono l’opportunità di lasciare un’Italia ancora scossa dagli «anni di piombo» e partire per un’avventura completamente nuova. Mio padre, nato nel 1924, di avventure ne aveva già vissute un paio, compresa la Resistenza. A Kinshasa sono cresciuto nell’ambiente «suprematista bianco»: un ambiente che non mi ha lasciato una gran voglia di tornare in Congo. Non che ci si mescolasse un granché; per fortuna i miei genitori mi hanno tirato su nel rispetto dell’uomo, chiunque esso sia, e dei suoi costumi. Avendo frequentato la scuola francese a Kinshasa, era logico stabilirsi poi in Francia.

Roberto Negro
Roberto Negro

In particolare, quali sono stati i passaggi fondamentali della tua formazione musicale?
Mia madre mi fece sedere davanti a un pianoforte all’età di sei anni. Tre professori mi hanno successivamente insegnato le basi della musica classica europea: un congolese diplomato al conservatorio di Kinshasa, un’italiana ex professoressa al conservatorio di Milano e infine una concertista russa. Un percorso assai ricco. E in mezzo a tutta questa cultura europea ascoltavo, anche inconsciamente, la musica della strada e delle radio congolesi. Sono approdato al jazz afro-americano ben più tardi perché volevo improvvisare, entrare nel mondo della composizione istantanea, e per me «jazz» era sinonimo di improvvisazione, una connessione che viene fatta ancora oggi ovunque, quando invece l’improvvisazione può essere indipendente dal discorso stilistico.

Nel tuo approccio al jazz da chi sei stato maggiormente influenzato?
La mia porta d’entrata per il jazz è stato Michel Petrucciani, pianista dal contenuto melodico limpido, dalle composizioni subito identificabili nella forma. Poi, riguardo al fraseggio, pianisti come Lennie Tristano o Brad Mehldau sono stati fondamentali. Più tardi venne Benoît Delbecq. Mi sono innamorato anche della poesia di Bill Carrothers e Marc Copland. Questo per quanto riguarda i pianisti; per il resto, monumenti come Henry Threadgill, Paul Motian, Bill Frisell, John Zorn… La lista può diventare molto lunga. Però tutta questa bella gente l’ho incontrata dopo i diciott’anni. Alle medie e al liceo ascoltavo rock e pop-rock, e strimpellavo la chitarra elettrica. Mio fratello maggiore mi regalò l’enciclopedia del rock degli anni Sessanta e Settanta e così mi sono creato una mia discografia dei «grupponi» di quegli anni: King Crimson, Genesis, Pink Floyd, ELP, Led Zeppelin… Ai quali possiamo aggiungere i gruppi anglosassoni che trainavano il pop-rock degli anni Novanta, come Jeff Buckley, i Radiohead o i Blur… Andavo matto per i Blur.

Abiti a Parigi dal 2008. Cosa ci puoi dire dell’attuale fermento musicale in questa capitale? In che circuito ti riconosci e ti sei inserito?
È un continuo fermento in tutti i campi. Ovviamente, e purtroppo, ci si rinchiude spesso nel proprio settore. È tutto molto etichettato e inscaffalato. Di sicuro faccio parte dell’ambiente «jazz contemporaneo-musique nouvelle», se così lo possiamo chiamare, però cerco di incrociarlo con altre situazioni. Lavorando per il teatro ad esempio, oppure andando a sentire i Meshuggah al Bataclan: uno dei concerti più belli cui abbia mai assistito. Ero con Valentin Ceccaldi.

Théo Ceccaldi – Roberto Negro
Théo Ceccaldi – Roberto Negro

Mi sembra appunto che negli anni si sia sviluppata un’esperienza particolarmente sinergica con i fratelli Ceccaldi (il violinista Théo e il violoncellista Valentin). Ci puoi parlare di questa collaborazione?
L’incontro con i «fratellini», fondamentale per la mia attività artistica di oggi, è avvenuto tramite Adrien Chennebault, batterista del mio primo trio, anche lui di Orléans, anche lui membro fondatore del Tricollectif. Fece ascoltare un nostro demo a Théo; in seguito andai a sentire per la prima volta il trio di Théo in un museo. Ne rimasi così colpito che mi venne immediatamente voglia di comporre per loro. L’occasione venne poco tempo dopo, dovendo scrivere la musica per l’opera teatrale Malapolvere di Laura Curino del Teatro Stabile di Torino. Théo, Valentin, Adrien e io ci radunammo in una formazione moderno-cameristica, che ha inciso il cd «La Scala» e continua oggi la sua attività concertistica ma anche quella più legata al teatro. Da li è nata una collaborazione che dura ormai da più di sette anni. Ho invitato i fratelli anche nel gruppo di «Loving Suite pour Birdy So», poi con Théo è nato un duo, Danse de Salon, nel quale ci divertiamo a comporre una sorta di folklore «filtrato».  Registreremo un disco per la BMC a Budapest l’estate prossima. Valentin invece fa parte del mio trio Garibaldi Plop, assieme al batterista Sylvain Darrifourcq, e più di recente è partita la nostra avventura per il festival Africolor, che mi ha chiesto di scrivere un’opera su Kinshasa. Nel giugno 2017 siamo andati dieci giorni a lavorare a Kinshasa e insieme abbiamo scritto una partitura che suoneremo con Bart Maris (trombettista belga) e Marcel Balcone (percussionista e cantante del Burkina Faso). Ne risulterà una forma artistica assai trasversale, con testi e video.

Mi sembra il caso quindi di chiarire cosa sia esattamente il Tricollectif.
Il Tricollectif nacque ufficialmente nel 2011 per inaugurare il nostro primo festival, Les Soirées Tricot, alla Générale, Parigi. Da sei anni il festival si ripete sia alla Générale sia al teatro di Orléans, il nostro quartier generale, o addirittura in altre città, come a Strasburgo nel 2015 in collaborazione con il festival Jazzdor. Ma in realtà il Tricollectif è inanzitutto un gruppo di amici di Orléans che si conoscono e fanno musica insieme fin dalle elementari. Per quanto mi riguarda, ho incontrato Adrien Chennebault nel 2008, che mi ha poi presentato a tutta la banda. Il collettivo è un nucleo di dieci artisti, intorno al quale gravitano numerosi progetti e altri musicisti.

E come è stato concepito, invece, «Musique de chambre avec basse électrique» del quartetto paritario Kimono, che contiene due lunghe composizioni: una tua ed una del sassofonista Christophe Monniot?
Christophe scrisse una sonata per il quartetto, la Sonate pour une Nouvelle Terre, che in realtà adattò per un paio di altre formazioni. Allora mi venne voglia di scriverne una a mia volta! Così composi Sonate pour un Monoski. All’epoca ero immerso nelle Lettere Luterane di Pasolini, nell’opera teatrale di Falk Richter e nella musica di Charles Ives, una scoperta recente e folgorante per me. Perciò la mia sonata è influenzata un po’ da tutto questo… e dal mio fascino per il monosci: non ho mai capito questa invenzione, il fatto di incollare due sci non me lo spiego proprio… Perché una sonata? Perché è come fare l’occhiolino alla nostra tradizione classica europea, e al fatto che oggi stanno fortunatamente crollando le barriere tra jazz, musica classica, musica contemporanea. La coerenza del disco sta nella forma delle due composizioni (due sonate in più parti) e nell’ispirazione socio-letteraria, ognuno a modo suo: il nostro mondo da ripensare e l’Uomo da ricostruire.

Anche «Loving Suite pour Birdy So», per sestetto con Elise Caron al flauto e voce, ha un carattere prevalentemente cameristico fra toni scanzonati e altri dalle strutture più nette, anche se qua e là emerge un approccio decisamente jazzistico. Sei d’accordo? 
Assolutamente sì. Il tono cameristico parte dalla formazione del gruppo: volevo solo corde, tra le quali anche le corde vocali di Elise. Con un reale approccio ritmico distribuito tra i vari componenti del gruppo. Lo si può sentire ad esempio in Tout de Toi, dove i fratelli Ceccaldi incrociano dei riff, creando un tappeto sonoro sul quale evolvono la voce di Elise e altri elementi melodici in contrappunto. Sono d’accordo anche sull’approccio jazzistico presente soprattutto in un paio di brani, in cui si possono sentire veri e propri assolo che ci avvicinano alla tradizione del jazz afro-americano. Anche se oggi l’idea del chorus, dell’assolo fine a se stesso mi attira sempre di meno. Preferisco mescolare lo scritto all’improvvisato senza che lo spettatore se ne renda conto.

Il trio DaDaDa, con Émile Parisien e Michele Rabbia, è il tuo progetto più recente? Quale il suo obiettivo?
Sì, DaDaDa è il trio del momento. Volevo tornare a una forma più frammentata, a un repertorio fatto da più pezzi, più o meno corti, che sul disco superano raramente i quattro minuti. Il progetto è nato quando l’etichetta Label Bleu mi propose di registrare un disco. Eravamo in pieno Métanuits con Émile, cioè il nostro duo sulle Metamorfosi Notturne, il primo quartetto d’archi scritto da György Ligeti che adattiamo per piano e sassofono. Complicato però portarlo in studio per una questione di diritti d’autore. Perciò invitai Michele Rabbia, che da poco mi aveva colpito con il suo mondo elettro-percussivo, e scrissi nuovi brani, questa volta per trio. È un gruppo che ho voglia di portare avanti, investendo tempo e componendo nuova musica.

«Garibaldi Plop», con Valentin Ceccaldi e il batterista Sylvain Darrifourcq, è invece dedicato a tuo padre Giorgio.
Garibaldi Plop, gruppo e disco, nasce da una fotografia che tengo a casa da tempo e che mi ha sempre affascinato. Un giorno, proprio mentre cercavo un argomento su cui scrivere per il trio con Sylvain e Valentin, quest’ultimo venne a prendere un caffè da me e vide la foto… Avevamo trovato il soggetto! Da lì ovviamente il progetto è diventato una sorta di testimonianza di quell’epoca, l’uomo, la guerra e la solitudine. Con una forma di ultra-realismo, poiché la maggior parte dei titoli prende spunto dalla vicenda raccontatami da mio padre, la sua storia e la sua ultima traversata delle linee nemiche. La foto in questione è stata scattata nel 1945 da mio zio durante un pellegrinaggio commemorativo di mio padre e di due suoi compagni di brigata, la brigata Garibaldi dei partigiani alpini.

Nel complesso come definiresti la tua ricerca musicale, che tende a integrare improvvisazione e composizione contemporanea?
Ho un approccio cinematografico e pittorico. La composizione deve rivelare un’architettura. La forma è importante quanto il contenuto, fa parte anch’essa del contenuto. Spesso ciò che scrivo è un gioco tra punti di riferimento chiari (armonici, ritmici, stilistici) ed elementi meno identificabili, in modo da creare una tensione e un’attenzione particolare in chi ascolta. Sono molto attratto dai fenomeni di filtraggio, dai soggetti non diretti ma evocativi, dalla sovrapposizione di strati sonori, armonici, melodici o ritmici, che presi singolarmente vogliono dire una cosa ben chiara ma, mescolati agli altri, possono prendere un tutt’altro senso; soprattutto un senso che dev’essere dato da chi ascolta, che rimane oggetto da interpretare. Tengo molto alla libertà di chi ascolta. Mi attirano l’impalpabile e l’onirico, l’indefinibile, l’intuitivo. Tra i miei artisti preferiti ci sono Charles Ives e David Lynch.

In generale, come vedi oggi il ruolo e il peso della musica improvvisata europea nel panorama internazionale?
Il nostro obiettivo oggi è attirare più giovani ai nostri concerti. Sentiamo che manca un rinnovamento del pubblico. La musica improvvisata viene assimilata alla parola jazz che nell’immaginario collettivo si riferisce soprattutto ad un’epoca, quella dello Swing. Ma ne sono successe, di cose, dagli anni Quaranta! La musica improvvisata di oggi è una musica giovane, come lo era lo Swing all’epoca, in costante evoluzione, che sia acustica, elettrica o elettronica.  Che poi la chiamiamo «improvvisata», ma lo è solo in parte.

Ma la musica è anche comunicazione e mercato. Che importanza assegni alle varie categorie degli agenti, degli addetti stampa, dei produttori discografici, degli organizzatori di rassegne e festival?
La mia generazione di musicisti, nata negli anni Ottanta, ha dovuto fare tutto da sola. Sin dall’inizio siamo comunicatori, agenti, addetti stampa, produttori e anche organizzatori di festival (Les Soirées Tricot del nostro Tricollectif ne sono un esempio). E, quando ci ricordiamo di esserlo, siamo anche un po’ musicisti. Ovviamente con il tempo ci circondiamo di professionisti che ci aiutano, e con i quali può nascere una sorta di emulazione. Oggi sui miei progetti lavoro con Marion Piras e Inclinaisons che svolge un grosso lavoro sul booking; alcuni organizzatori mi consigliano (come Philippe Ochem di Jazzdor, Jean-Pierre Vivante del Triton), altri mi accolgono in residenza per nuove «creazioni» (come di recente François Postaire dell’Opera di Lione, Benoît Thiebergien del Festival Détours de Babel a Grenoble o il festival Agricolo qui a Parigi). Per quanto riguarda il mercato penso ci sia posto per tutti. Dobbiamo considerare la nostra traiettoria artistica, la «carriera» nel suo insieme e rimanere sempre sinceri con noi stessi. L’importante è creare progetti di cui si è convinti e fieri, e presentarli con la maggior chiarezza e attenzione al pubblico. Senza dimenticare che sarà pure musica improvvisata quella che facciamo, ma è pur sempre e innanzitutto spettacolo!

Purtroppo in Italia non sei ancora molto noto. Intendi intensificare le tue collaborazioni e l’attività concertistica in Italia?
In Italia non ho mai vissuto, quindi non conosco la rete concertistica italiana. Oltretutto è difficile penetrarla per chi viene da fuori. Nei club e nei festival di jazz suonano molto gli italiani (quelli veri!) e gli americani. Detto questo, da un paio di anni vengo regolarmente a Roma e nel Nord-Est. E l’anno prossimo uscirà il mio disco in piano solo per la CAM Jazz. Quindi, occhio, che arrivo anch’io!

Libero Farnè