Brad Mehldau, dieci anni di solitudine

Quattro cd per raccontare un decennio di esibizioni solitarie, un pellegrinaggio tra città, teatri e e strumenti sempre diversi: è il pianista stesso a confessare «perchè l'ho fatto»

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Brad mehldau

Perché una registrazione dal vivo? Nell’ultima ventina d’anni mi sono guadagnato da vivere viaggiando per il mondo e suonando per il pubblico, attività che si è rivelata una benedizione. Non do mai per scontate le opportunità di esibirmi dal vivo; anzi, invecchiando sono arrivato ad attribuire sempre maggior valore ai concertisti. Mi rendo conto che non sia più la freschezza o la novità a rendermi interessante come musicista, onde per cui sento la necessità di eccellere il più possibile nella mia arte. Una costante autocritica e la valutazione di sé sono importanti ma dovrebbero essere bilanciate dalla coscienza dei propri mezzi. Un insegnante dice: vivi al limite, sempre, anche quando invecchi; non riposare sugli allori. Ma avverte: non rendere norma il limite; altrimenti il limite non sarà più tale e tu non fari altro che conformarti a un altro modello. Da musicista è facile cadere in una serie di trappole, come del resto nella vita di tutti i giorni.

Non me la prenderò con l’ascoltatore se giudicherà severamente la mia musica. Mi comporto allo stesso modo con i musicisti. Potrei spiegarlo così: quando ascolto musica o vedo un film, non sono più capace quanto una volta di assistere a qualcosa che non mi esalti o emozioni. Niente di nuovo: fa solo parte del processo di invecchiamento. Come musicista, però, ci penso sempre: mi guardo in giro e penso al pubblico prima che a me stesso. Mi dico: «È incredibile: queste persone hanno dedicato due o più ore della loro serata al mio concerto; non voglio annoiarle». So come si senta uno spettatore; perciò non voglio essere io a infliggergli una sensazione negativa.

Ma non posso garantire che nessuno si annoi ascoltando quello che faccio. So che c’è sempre una parte di pubblico che reagisce negativamente a un concerto. Mentirei se dicessi che non m’interessa. Ritengo che tutti i musicisti partano dal desiderio che tutti apprezzino la loro musica. Dopo tutto, chi mai direbbe: «Voglio che la mia musica piaccia al sessantaquattro per cento del pubblico?». Se non piace a tutti, inevitabilmente la domanda successiva è: «Come reagisco?». È una domanda spirituale, se volete, nel senso che fornisce l’opportunità di praticare l’umiltà liberandosi dall’orgoglio: tutte cose buone.
Se mi faccio condizionare troppo da ciò che piace agli altri ma non a me nel mio modo di suonare, allora sono loro ad avere in mano il timone, influenzando le mie decisioni musicali. E non vale solo per le critiche negative: anche i complimenti possono rivelarsi altrettanto tossici.

Se non stiamo attenti, rischiamo di ripetere scioccamente all’infinito ciò che è piaciuto al pubblico. La parodia di se stessi è un pericolo per qualsiasi musicista che abbia riscosso un po’ di successo. Ed è ancora più insidiosa per un improvvisatore: non ci vuol niente a finire nella parodia degli stessi gesti dettati dalla spontaneità. Non credo ai musicisti che dichiarano di non suonare per un pubblico; o quanto meno, se sono sinceri, non hanno le idee chiare. Per il musicista il pubblico è tutto. Senza ascoltatori volonterosi e curiosi non ci sarebbe alcun progetto: tutte le nostre preziose idee diventerebbero come il proverbiale albero che cade nella foresta senza che se ne accorga nessuno. Questo dato di fatto può sembrare ovvio ma talvolta nel jazz viene trascurato, là dove spesso ci si vanta di un impegno senza compromessi verso una particolare visione artistica. L’idea che compiacere il pubblico sminuisca la propria integrità è uno spiacevole errore. Questa visione «dentro o fuori» non considera la realtà di ogni grande musicista, che gratifica il pubblico esattamente rimanendo se stesso.

Naturalmente compiacere il pubblico non è il nostro dovere di musicisti ed è altra cosa dal farsi apprezzare. Trasmettere la propria verità è ciò che importa di più. Perciò dico: fammi essere me stesso quando do un concerto. Il pubblico non ne soffrirà: al contrario, proprio rimanendo sincero e senza compromessi riesco a creare un’autentica identificazione tra me e il pubblico. Tutto quel che posso comunicare è la mia verità: nient’altro. Non devo mai dubitare del pubblico. Gli spettatori hanno fiducia in me; hanno dedicato una parte del loro tempo a venire a sentirmi. E io devo riporre in loro la medesima fiducia. Devo fidarmi della loro capacità empatica, della loro intelligenza e integrità. Certo, potrò anche perdere una parte di loro lungo la strada. Così sia, ma almeno non avrò cercato di ingannarli. 

In un certo senso come musicisti non abbiamo altra scelta che quella di essere sinceri. Il grande pianista e insegnante Jaki Byard ripeteva spesso: «Non puoi mentire». Si riferiva al jazzista che improvvisa sul palco. Non si tratta solamente di dire la verità durante l’esibizione, perché è facile venire intrappolati dall’idea di verità e pensare di star tenendo fede a un’alta convinzione con la propria espressione musicale, mentre si stanno invece uccidendo tutti quelli che ascoltano, riproponendo loro senza sosta un’idea fissa: tutto quanto in nome della sincerità. Ma allora stai parlando, non suonando. Nessuno vince. C’è molto jazz fatto in questo modo: non è difficile capire il motivo per cui molti si allontanano dal jazz, se la loro prima esperienza è con un jazz che «parla».

Brad Mehldau
Brad Mehldau – forto Elizabeth Leitzell

È più importante conoscere la verità per se stessi; altrimenti non la potremo esprimere, neppure con le più nobili intenzioni. Quello che intendeva Byard con le sue tre stringatissime parole è che nella follia di sembrare virtuosi non facciamo altro che mostrare i nostri limiti. Non possiamo comunque mentire. Come musicisti, sveliamo al pubblico i nostri limiti ogni volta che iniziamo a suonare. La prima grande bugia è cercare di nasconderlo.

C’è una sola verità, dicono alcuni insegnanti, aggiungendo: tutto è vero. Alcune cose sono più vere di altre, ma ogni cosa contiene un briciolo di verità, e ci possiamo avvicinare costantemente a essa facendo nostre tutte quelle che incontriamo lungo la via. Questo insegnamento cerca di eliminare la spinosa nozione dualistica secondo cui «questo è vero e quindi quest’altro non lo è». La musica è prova perenne che non possiamo avvicinarci alla realtà in questo modo senza ricavarne frustrazioni.

Nel contesto di alcune composizioni del periodo di mezzo di Beethoven, per esempio, troviamo temi relativamente banali che non vanno oltre una triade maggiore. Ma è esattamente ciò che vuole il compositore, così da poter comodamente usare la sua magia formale donandoci affreschi musicali che non si sono mai sentiti prima. La verità esiste, in tal modo, in un determinato contesto: se prendi quei temi e cerchi di ricavarne una semplice canzone, annoieranno sicuramente l’ascoltatore. Allo stesso modo, se cerchi di usare un tema più complesso al momento della composizione o dell’improvvisazione, sarà più difficile attenervisi per un certo periodo di tempo. Meno è di più. Ma talvolta di più è di più.

Quel che per me è vero in un mio piano solo è diverso da ciò che è vero se suono in trio con Larry Grenadier e Jeff Ballard. Con Larry e Jeff ci sono una certa sensazione di rilassamento e uno swing verso cui tendiamo collettivamente: quello cui si riferiva Duke Ellington intitolando The Feeling Of Jazz un suo brano. Nel mio piano solo c’è un certo swing ma in misura molto minore, poiché le figure ritmiche sono influenzate ora dalla musica classica ora dal rock. Quindi per me dire che «il jazz dovrebbe avere quella sensazione di swing» risponde a verità quanto asserire che «il jazz non ha bisogno di swing». Entrambe le affermazioni sono vere, in contesti differenti. Alcuni potrebbero sostenere che molta di questa musica è jazz; qualcun altro potrebbe dire che non lo è. Entrambe le affermazioni sarebbero per me vere.

Come faccio a conoscere la mia verità di musicista, specie se sembra mutare in ragione del contesto? È un processo che dura una vita. Posso dire che molta di quella ricerca dipende dall’ascoltare: ascoltare qualcosa al di fuori di me, ascoltare oltre la mia percezione di quel che sta succedendo. Un buon punto per iniziare ad ascoltare al di fuori di me musicista è il pubblico, che idealmente ascolta a fondo il musicista il quale a sua volta potrebbe e dovrebbe trovare il modo di ascoltare il pubblico. Non si tratta di ascoltare parole, giudizi o rumori: è un ascolto profondo, che è molto importante. Parte dal silenzio; potrei dire: ascolto il loro silenzio. C’è così tanto da ascoltare… Talvolta il silenzio è ad alto volume! Quando suono cerco di ascoltare il pubblico. Non merita di meno.

Se ogni musicista ha la sua verità, anche ogni pubblico ha la propria verità collettiva. Non saprei come spiegarlo in altri termini. Così ogni volta nascono cose diverse. In ogni concerto ho provato una sensazione che è praticamente impossibile da spiegare a parole e che è legata alla connessione con le persone presenti al concerto quella sera.
Per esempio a Vevey, in Svizzera, ho passato qualche brutto momento: sentivo che non stavo dando al pubblico ciò che meritava. Il concerto è arrivato alla conclusione e io ho sentito di aver fallito. Mi hanno chiesto due bis, quasi come dire: «Provaci ancora: abbiamo ancora fiducia». Quei due brani sono ora in questo cofanetto: And I Love Her e Holland. Era come se avessi finalmente trovato qualcosa di sofferto ma molto dolce. E l’avevo trovato ascoltando il pubblico; l’avevo trovato con il suo aiuto. Non saprei spiegarlo altrimenti.

È davvero strana, la faccenda dell’esibizione dal vivo: per me non è mai diventata normale o scontata. È un’empatia diretta e intensa, per circa novanta minuti, con un gruppo di perfetti sconosciuti. Poi finisce e ognuno va a casa propria. Io torno in albergo, nella mia stanza. Qualcosa è accaduto ma l’aspetto più vitale non si può spiegare a parole. È dolce, quasi agrodolce. A ogni modo non è sufficiente dire che i diversi pubblici sono stati importanti per la creazione di questa musica. Con maggior decisione devo semmai asserire che il pubblico era assolutamente necessario: era un punto chiave. Senza tutte quelle persone, questa musica non esisterebbe nel modo in cui è.

Brad Mehldau
(traduzione di Gianpietro Giachery)

Brad Mehldau
Brad Mehldau – foto Michael Wilson/cortesia Nonesuch

 

brad mehldauBrad Mehldau 

«10 Years Solo Live»

Nonesuch, distr. Warner

Brad Mehldau (p.).

Europa, dal 2005 al 2014.

 

 

 

 

Quattro cd o ben otto lp in edizione ovviamente limitata, diciassette sale e teatri in diciassette città diverse – Budapest, Girona, Lipsia, Bruxelles, Vevey, Lussemburgo, Bassano del Grappa, Salisburgo, Eindhoven, Vienna, Roma, Copenaghen, Mentone, Wels, Londra, Parigi e Bilbao – trentaquattro brani dei quali soltanto sette scritti dal pianista e il resto di una quantomai eclettica scelta di autori (da Coltrane e Monk e Bobby Timmons più quattro standard veri e propri, Zingaro di Jobim, due Intermezzi di Brahms e il resto proveniente dai songbooks dei Beach Boys, dei prediletti Radiohead, di Jeff Buckley, dei Pink Floyd, dei Verve tramite gli Stones, dei Kinks, di Léo Ferré, di Sufjan Stevens, dei Beatles ma anche di McCartney come ditta individuale, dei Nirvana, dei Massive Attack e addirittura un vecchio tormentone degli Stone Temple Pilots). La lista della spesa? Un minestrone indigeribile? La funzione random di una playlist? Niente di tutto questo, più semplicemente bella musica suonata benissimo e proposta con una certa discrezione, lontana dai portentosi turgori che per qualche tempo hanno rischiato di azzoppare la carriera del pianista. Qualche autocompiacimento affiora comunque, soprattutto nelle esecuzioni più vecchie, ma l’effetto complessivo non ne risente assai.

Luca Conti