La scuola pianistica latin ha prodotto autentici campioni dello strumento che hanno saputo mescolare elementi delle tradizioni musicali di terre dove si è assistito alla fusione di etnie e culture diversissime (come Cuba, Portorico, Repubblica Dominicana, Colombia, Venezuela, eccetera) con il linguaggio del jazz, irradiatosi pian piano dagli Stati Uniti in tutto il mondo. A questa contaminazione (parola che in musica, e nel jazz in particolare, ha sempre avuto una connotazione positiva) l’America latina contribuiva soprattutto dal punto di vista del ritmo, con il suo bagaglio di stili e patterns diversi da regione a regione (cha cha, salsa, mambo, bomba, merengue…), con il concetto di clave, con gli stilemi pianistici come il montuno. Il jazz portava in dote il blues, le concezioni armoniche, il ruolo centrale dell’improvvisazione.
Tra i virtuosi del pianoforte latin tratteggiamo qui brevemente il profilo di tre fuoriclasse, Michel Camilo, Gonzalo Rubalcaba e Danilo Perez, ma sarebbero tantissimi i nomi da citare, tra i quali in ordine sparso (e la lista è largamente incompleta) Eddie Palmieri, Oscar Hernandez, Chucho Valdés, Hilton Ruiz, Edward Simon, Roberto Fonseca.
Alcuni elementi nelle biografie di Camilo, Rubalcaba e Perez sono curiosamente comuni: l’aver iniziato da bambini, l’essere cresciuti in famiglie in cui la musica era importante, l’aver conseguito il diploma di musica classica, l’essersi trasferiti negli Stati Uniti (Rubalcaba solo dopo varie vicissitudini) e l’aver sviluppato stili che inglobano aspetti delle diverse scuole musicali. Ma la sintesi di ognuno è personale e ciascuno ha sviluppato la sua voce, propria e inconfondibile.
Michel Camilo nasce nel 1954 a Santo Domingo, Repubblica Dominicana, in una famiglia di musicisti e, fin da piccolissimo, mostra un talento musicale fuori dal comune, avvicinandosi dapprima alla fisarmonica e poi, intorno ai nove anni, scegliendo definitivamente il pianoforte.
Innamoratosi ben presto della musica di Art Tatum che ascolta alla radio, studia al conservatorio nazionale e, ancora sedicenne, fa già parte dell’orchestra sinfonica nazionale dominicana. Forte di una solidissima formazione classica, si trasferisce quindi a New York alla fine degli anni Settanta, dove frequenta la prestigiosa Juilliard School Of Music, dando forma a quella fusione di elementi delle tre tradizioni, europea, latin e afroamericana che, grazie anche a un virtuosismo funambolico, diventerà il suo marchio di fabbrica, decretandone il grande successo internazionale.
Risale al 1985 il suo debutto in trio alla Carnegie Hall che segna per Camilo l’avvio di un’instancabile attività concertistica in tutto il mondo. Fin da inizio carriera emerge una brillante vena compositiva, brani come Why Not? o Caribe, in esecuzioni sue o di altri artisti come Dizzy Gillespie, Paquito D’Rivera o i Manhattan Transfer, gli fanno guadagnare unanime apprezzamento e importanti riconoscimenti come il Grammy (nel corso della carriera la lista di premi e onorificenze si farà interminabile). I suoi dischi degli anni Ottanta e Novanta stazionano puntualmente ai primi posti delle classifiche di vendita jazz.
Il trio con basso e batteria è la formazione più frequentata dal pianista dominicano, sempre coadiuvato da collaboratori strepitosi come Horacio «El Negro» Hernandez, Dave Weckl, Cliff Almond, Anthony Jackson, John Patitucci, Marc Johnson. I trii di Camilo sono autentiche macchine da guerra ritmiche, alla guida delle quali il pianista dispiega il suo enorme potenziale alternando unisoni serratissimi e di estrema difficoltà a passaggi lirici e passionali, lunghi assolo e obbligati finemente arrangiati, il tutto con grande attenzione allo sviluppo delle dinamiche. Particolarmente felice è la sua lunga collaborazione con Hernandez e Jackson, con i quali ha realizzato dischi importanti come «Triangulo» (nomination ai Grammy 2003 per il miglior album di jazz strumentale) e ha maturato negli anni una prodigiosa coesione che rende ogni concerto uno spettacolo pirotecnico e coinvolgente. Ma anche la formula del pianoforte solo permette a Camilo di esprimersi al meglio, come testimoniato dal disco «Solo» del 2005; gli consente di esibire gli aspetti più lirici del suo pianismo e di rivelare la propria formazione di musicista classico. Musica classica che in realtà Camilo non ha mai abbandonato, collezionando numerose esibizioni e incisioni (anche in veste di direttore), suonando come solista con orchestre sinfoniche di tutto il mondo, e scrivendo composizioni originali di ampio respiro per pianoforte e orchestra.
Gonzalo Rubalcaba è cubano, dell’Avana, dove è nato nel 1963. È figlio e nipote d’arte, essendo stati suo nonno un celebre danzonero e suo padre pianista per il famoso Enrique Jorrín (e fondatore del gruppo El Combo Los Rubalcaba). Fu quindi del tutto naturale per Gonzalo «Julio Gonzalez Fonseca» essere affascinato e assorbito da quel mondo, dalle percussioni e dalla batteria per cominciare, fino all’innamoramento per il pianoforte che inizia a studiare seriamente intorno ai nove anni. Non c’è solo la tradizione cubana tra i suoi interessi musicali, Cuba e Stati Uniti sono vicini, i maestri del jazz come Tatum, Powell ed Erroll Garner lo affascinano e lui li studia accanitamente. Diplomatosi in pianoforte classico, il suo eccezionale talento non sfugge, quando è ancora un ragazzino, a eminenze della musica cubana come Chucho Valdés e Paquito D’Rivera, grazie ai quali comincia a suonare nei club in patria e in tour in Europa e Africa.
Durante il Jazz Plaza Festival, all’Avana nel 1985, ha luogo un incontro che si rivelerà determinante: Dizzy Gillespie resta fortemente impressionato dal giovanissimo pianista e l’inizio del lavoro con il grande maestro pone definitivamente il nome di Gonzalo Rubalcaba sotto i riflettori della scena jazzistica internazionale. Cominciano così le collaborazioni illustri e le registrazioni.
Altro incontro importante è quello con il grande contrabbassista Charlie Haden (fece scalpore la sua apparizione con Haden e Paul Motian al festival di Montreux del 1990), che gli apre le porte della discografia che conta e inaugura una serie di eminenti collaborazioni, destinata a diventare ricchissima. Proprio con Haden registra due dischi fondamentali a suo nome, entrambi in trio: «The Discovery», con Paul Motian alla batteria, e «The Blessing», in cui la formazione è invece completata da Jack DeJohnette.
Questi lavori consacrano Rubalcaba come nuova star mondiale, si sprecano riconoscimenti, premi ed elogi, eppure, paradossalmente, il nuovo talento del jazz non si può esibire nella patria di questa musica, a causa delle annose difficoltà (per usare un eufemismo) nei rapporti tra Stati Uniti e Cuba. Ci vogliono ancora anni e l’intensa e appassionata attività diplomatica di grossi nomi del mondo del jazz americano per assistere finalmente all’esordio in grande stile di Gonzalo al Lincoln Center di New York, nel 1993. Il primo brano, dalla grande valenza simbolica ed eseguito in solitudine al pianoforte, è Imagine di John Lennon.
Nel pianismo di Rubalcaba convivono le tre grandi scuole (Cuba, classica e jazz), ma l’integrazione dei diversi linguaggi è qualcosa di molto più profondo di un banale accostamento di stili, di un vuoto giochetto di prestigio che traveste di latin uno standard. La sua voce è vera sintesi, e se in un’esecuzione si ha l’impressione di riconoscere echi di romanticismo classico o di montuno o di bebop, non si tratta mai di citazioni: Gonzalo ha metabolizzato la storia dello strumento a ogni latitudine e quella che apprezziamo è la sua lingua di oggi.
Tre dischi abbastanza recenti (scelti tra i numerosi altrettanto significativi) evidenziano meglio di tanti discorsi quanto si è detto e permettono di apprezzare il pianista cubano da varie angolazioni: «The Monterey Quartet – Live 2007», quartetto stellare con Dave Holland, Chris Potter ed Eric Harland, «Avatar» con un fantastico quintetto newyorkese e «Solo», intima e profonda performance senza accompagnamento che rivela la capacità di Rubalcaba di controllare il suono dello strumento, lasciando per un attimo in secondo piano il suo virtuosismo travolgente.
Ecco poi il panamense Danilo Perez. Destino comune a molti fenomeni del jazz, Danilo Perez inizia a suonare più o meno nel periodo in cui impara a parlare. Nasce nel 1965 e a indirizzarlo alle percussioni e poi al pianoforte è il padre musicista. I primi studi, iniziati già da bambino, sono quelli classici, al conservatorio nazionale di Panama. Negli anni Ottanta si sposta negli Stati Uniti, frequenta il Berklee College Of Music e comincia a collaborare con nomi altisonanti quali Paquito D’Rivera, Jon Hendricks, Terence Blanchard, apparendo anche in importanti incisioni del periodo (tra le altre, «Reunion» con Arturo Sandoval e D’Rivera).
Il talento cristallino di Perez è ormai sotto gli occhi di tutti e la lista di collaborazioni illustri si fa ben presto corposa: Dizzy Gillespie, Tito Puente, Gary Burton, Charlie Haden, Jack DeJohnette, Steve Lacy, Roy Haynes (con il quale nasce un trio stellare completato da John Patitucci) e molte altre star di questa caratura. Quello che colpisce immediatamente dello stile pianistico di Perez è la coesistenza di un meraviglioso approccio ritmico (splendido senso del timing, fantasia sorprendente negli spostamenti metrici delle frasi) con la capacità di cantare allo strumento, di costruire melodicamente il discorso nelle situazioni più disparate, dal danzon allo standard, ai contesti informali e free.
Negli anni Novanta il pianista panamense si propone finalmente come leader di suoi progetti ed esordisce su disco con due album che fanno incetta di riconoscimenti e critiche entusiastiche, ottenendo anche ottimi riscontri di vendita: «Danilo Perez» (una raccolta di brani della tradizione latino-americana e alcuni standard, che vede la partecipazione, tra gli altri, di DeJohnette, Joe Lovano e Rubén Blades) e «The Journey» (ispirato alla storia delle popolazioni di colore condotte in schiavitù nel Nuovo Mondo, in cui il pianista mette in evidenza le sue doti di compositore e arrangiatore con una band allargata a fiati, percussioni e strumenti etnici).
Diventa membro, primo musicista latin, della band di Wynton Marsalis, prima di entrare a far parte di una delle formazioni più stupefacenti dei nostri tempi, il quartetto di Wayne Shorter con Patitucci e Brian Blade. Ascoltare il gruppo di Shorter dimostra efficacemente come il jazz davvero vitale si nutra (da sempre) dei vissuti e delle vicende personali dei musicisti: Perez non è un pianista latin prestato al jazz, ma piuttosto un grandissimo musicista di questo tempo che porta con sé la storia musicale della sua terra, assimilando contemporaneamente il linguaggio della musica afroamericana e quello della musica classica europea; un artista che contribuisce, «semplicemente» raccontando la sua storia all’interno di un collettivo a incredibile tasso di creatività e libertà, a spingere un po’ più in là le frontiere della musica improvvisata. Dischi come «Footprints Live!», «Alegria» e «Beyond The Sound Barrier» sono imprescindibili nella discografia jazzistica più recente, ma assistere di persona a un concerto del quartetto di Shorter è esperienza memorabile. Di altissimo livello è anche il trio con cui Danilo Perez si esibisce regolarmente, completato da Ben Street al contrabbasso e Adam Cruz alla batteria; con loro ha registrato il disco dal vivo «Live At The Jazz Showcase».
Antonio Iammarino