Steve Lacy: scultura e jazz

È disponibile, pubblicato dalle Edizioni ETS di Pisa, Conversazioni con Steve Lacy, versione italiana accresciuta di Steve Lacy Conversations, il volume curato nel 2006 da Jason Weiss per la Duke University Press. Per gentile concessione della Casa editrice e del direttore della collana Sonografie, Francesco Martinelli – cui si devono la traduzione e la curatela del libro – ecco l’intervista rilasciata nel 1994 da Lacy allo scultore francese Alain Kirili, grande appassionato di jazz

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Steve Lacy
Steve Lacy improvvisa tra le sculture di Alain Kirili, Galerie Templon 1999 - foto Ariane Lopez-Huici

Fin dall’inizio della sua carriera Lacy ha collaborato con artisti di altre discipline. A volte si è esibito con pittori o scultori e le loro opere (molti dei suoi tanti dischi hanno in copertina pittori che gli piacevano). Un evento di questo tipo fu quello in cui insieme a Lacy e al danzatore Shiro Daimon si esibì l’artista giapponese Yukio Imamura con il suo action painting dal vivo, per la terza di tre serate al Musée d’Art Moderne di Parigi che Lacy dedicò alla memoria di Brion Gysin alla fine del 1986. Dall’inizio degli anni Novanta in varie occasioni collaborò con lo scultore francese Alain Kirili, sia in gallerie d’arte che nel loft di Kirili nella parte meridionale di Manhattan. Lacy descrisse la loro collaborazione in una intervista con Le Monde (3 marzo 1994): «Nel suo studio lui scolpisce mentre io suono, oppure io suono ai suoi vernissage, come ho fatto da poco a New York davanti alle sue opere. Cammino in mezzo alle sculture. È come una coreografia personale. Improvvisamente – lo chiamiamo un “battesimo” – agisce sui sensi, la gente guarda le opere con un occhio diverso. E ascolta anche diversamente la musica».
Nel corso degli anni Kirili ha invitato diversi musicisti sperimentali, tra cui Cecil Taylor, a esibirsi insieme alle sue sculture. L’intervista che segue, registrata a Parigi il capodanno del 1994, è uscita nel suo libro Sculpture et Jazz (Parigi, Stock, 1996).

Steve, ieri sera e l’ultima volta che ti ho visto al concerto con Shiro Daimon mi hai parlato della tua preoccupazione per la situazione attuale del jazz. Puoi dirmi qualcosa di più su questo?
Ho l’impressione che ci sia una ossificazione della musica mentre a me piace quando è veramente vivace e imprevedibile. Ho la sensazione che la maggior parte dei bravi musicisti in America, dei maestri, siano tutti nelle università. Non sono più liberi di comporre lavori musicali creativi. D’altra parte forse da questa situazione uscirà qualcosa di buono, nuova musica che è più libera, che è uscita da questo momento di reclusione e divisione. La musica è come gli indiani nelle riserve. Anch’io ho pubblicato un libro con tutto quello che ho scoperto: anche questo è un segno. Ma è anche perché sono arrivato a sessant’anni. Quello che sento, in generale, è tutto la stessa cosa. Ma per me il jazz è invenzione.

Rivendichi l’uso della parola «jazz»?
Sì, sì. È una parola che mi è sempre piaciuta. Appartengo a quella categoria. È così.

In che modo lo definiresti?
Per me, il jazz è una miscela, una mescolanza, è una musica da ballare, da cantare, da ascoltare. È una invenzione. È molto complesso e ora non mi metto a spiegarlo, ma è una combustione spontanea collettiva. È stata una era, un momento, una situazione, una miscela di persone e strumenti, di origine africana, americana, europea, sudamericana. Un vero misto.

Parlando di questa parola, jazz, da cui a volte dai l’impressione di allontanarti; fa piacere sentirti dire che è una parola che ti piace ancora, che ha sempre una certa forza, perché io penso che nonostante tutto sia una delle più belle parole del Ventesimo secolo.
Sì, sì, sì, sono d’accordo, davvero. E mi piace che le origini della parola siano misteriose. Nessuno sa davvero perché questa parola esista, ci sono un mucchio di teorie ma rimane misteriosa, e forse è meglio così.

Mi emoziona sempre vedere quando a un certo momento un artista sceglie il suo mezzo d’espressione. Ho iniziato con la pittura e poi improvvisamente mi sono messo a dipingere. Tu hai provato la fotografia… E poi alla fine il tuo matrimonio è stato con il soprano. Puoi dirmi perché, soggettivamente, quello strumento, il soprano?
È stata una chiamata. Sentii Sidney Bechet suonare un brano di Duke Ellington. La combinazione di Bechet, Ellington e quello strumento ebbero su di me un effetto straordinario, un irresistibile richiamo. Fu come se avessi scoperto la mia propria voce. Fu una certa forza vitale, un suono che cresceva, un sublime shock. Mi innamorai del materiale, dello strumento, e di Bechet.

Bechet è stato il primo musicista di jazz che ho incontrato da bambino. Venne a casa nostra e suonò in cucina. Ero molto giovane.
Era un mago. Di più, c’è un libro sulla sua vita intitolato The Wizard Of Jazz.

Steve Lacy

È sempre molto difficile rispondere a domande di questo tipo. Come mai, a un certo momento, io amo il ferro o l’alluminio? Parli del materiale del soprano. Cosa è che ti ha stimolato, che ti ha sedotto, che cosa ti ha fatto scegliere quel suono del soprano che spesso i musicisti usano solo come secondo strumento? Gli hai dedicato la vita, hai allargato il repertorio.
Nella scelta del materiale, nella scelta dell’attrezzo, ci sono diversi aspetti. In primo luogo c’è il materiale stesso, è fatto di ottone che vibra grazie a un bocchino di plastica e che permette a sua volta di vibrare a un’ ancia di canna. È la voce della canna stessa. Con il vento si possono sentire le canne che fischiano, la voce è dentro il materiale stesso. C’è voluto Sidney Bechet per farcelo riscoprire.

Con il soprano, c’è un timbro, una tonalità.
Un altro aspetto della mia scelta è il registro melodico. Corrisponde esattamente alla mano destra sul piano.

Un tuo lato eccezionale è che tu rispondi ai richiami che vengono da aree diverse da quelle della tua musica. È molto raro, ci sono così tante persone, artisti; creatori che sono monolitici.
Sì, che sono bloccati nella loro area. È una cosa che odio. Io ho sempre amato la pittura, il teatro, le canzoni, la danza, il cinema, le scienze… Così se suono jazz è per poter usare tutto ciò.

Ho assistito al tuo meraviglioso spettacolo con Shiro Daimon all’auditorium di Les Halles questo mese. Ho notato che la sua coreografia stimola la tua musica.
Assolutamente, lavoro con Shiro da diciotto anni, a volte due o tre volte l’anno, mi arricchisce e mi sorprende sempre molto. Non mi delude mai. È un attore in Giappone ed essere un attore in Giappone vuoI dire che sa ballare, cantare, recitare e fare il regista. Viene dal teatro kabuki e noh, va verso la libertà. È un artista unico. In Giappone artisti come lui, che rompono con la tradizione, mescolano i generi, non vengono incoraggiati.

Steve Lacy e Daimon Shiro, Roccella Jazz Festival 1991 - foto Pino Ninfa
Steve Lacy e Daimon Shiro, Roccella Jazz Festival 1991 – foto Pino Ninfa

Il fatto che lui decostruisca il teatro kabuki e noh producendo una sorta di collage lo farebbe certamentesembrare un iconoclasta… Mi piacerebbe anche che tu mi parlassi del Five Spot a New York. Che ricordi ne hai?
Abitavo a due minuti di distanza. Facevo parte del quartetto di Cecil Taylor e ci suonammo per due anni nel 1956 e nel 1957. Per noi fu molto importante. Quando iniziammo c’era la segatura in terra e alla fine del nostro ingaggio, quando videro come funzionava il jazz, eliminarono le bottiglie di birra e la segatura. Diventò un locale più di classe. Al massimo ci stavano sessanta persone…

Ho visto una foto del club sull’album «Eric Dolphy At The Five Spot». Ricordi di averci incontrato altri artisti?
I pittori avevano già cominciato ad andarci ancora prima del nostro ingaggio, e soprattutto quando c’era Monk. Ci andavano De Kooning, Franz Kline, Herman Cherry, David Smith e Jackson Pollock. Tutti i pittori andavano al Cedar Bar. E anche al Club, dove si trovavano una volta la settimana per discutere d’arte con molta passione. Franz Kline amava il jazz, anche De Kooning. Per Monk, c’erano tutte le sere.

STEVE_LACY_REFLECTIONSChi ti ha presentato a Monk?
Sono andato a cercarlo da solo. Era il 1958 quando incisi con Mal Waldron ed Elvin Jones l’album «Reflections» basato sulla sua musica. Fu il primo disco di riflessioni sulla musica di Monk. Prima era solo lui a suonare la propria musica.

Lo sentì? Cosa ne pensava?
Lo apprezzò molto e ricominciò a suonare Ask Me Now che tenne in repertorio fino alla morte. Non lo suonava più dagli anni Quaranta. Gli andavo sempre dietro perché ero pazzo per la sua musica. Gli facevo tonnellate di domande. Ma fu in realtà Nica la Baronessa [Pannonica de Koenigswarter] che lo convinse a venirmi a sentire quando suonavo al Five Spot con Jimmy Giuffre. Jimmy Giuffre prese il mio trio e lo presentò come il suo quartetto. A quel tempo non sapeva cosa fare e trovò il mio trio molto interessante, ma non funzionò molto bene. Mi licenziò dopo due settimane ma durante quelle due settimane venne John Coltrane e fu allora che scoprì in che tonalità era il soprano. A quel punto iniziò a suonarlo. Così fu durante quelle due settimane che Monk, convinto da Nica la Baronessa, venne a sentirmi. In giugno, venni ingaggiato da Monk per suonare in un altro club. The Jazz Gallery era gestito dagli stessi proprietari, i fratelli Termini. Quel club aveva duecentocinquanta posti, era in St. Marks PIace. Era molto bello, con un’acustica eccellente. Con Monk ci suonai per sedici settimane. È incredibile che il locale non ci sia più. C’era un sacco di gente tutte le sere. Monk arrivava molto tardi, verso mezzanotte. Tutti erano lì ad aspettare ma quando arrivava era una cosa superba, nessuno diceva nulla. Suonavamo fino alle tre o alle quattro di mattina.

Mi piacerebbe tornare per un attimo a John Coltrane. Così sei stato tu a fargli conoscere il soprano…
Non conosceva bene il soprano e quando seppe che era nella tonalità del tenore fu per lui una chiamata. Qualche settimana dopo lo sentii suonare al telefono da Chicago. Don Cherry mi chiamò da Chicago e disse «Senti qui» e io sentii Coltrane che suonava il soprano.

Un giorno mi hai raccontato una storia splendida di una volta che sei andato a trovare Monk a casa sua. Facevate le prove mentre lui guardava le sue mani suonare nello specchio sul soffitto…
Nel suo appartamento aveva uno specchio sul soffitto. Faceva un sacco di ricerca sul suono, i timbri, le armonie. Era davvero un inventore, un matematico, un grande musicista. Trovava tutti i suoi brani, tutte le sue sonorità guardandosi nello specchio. Offre delle idee e crea una sorta di distorsione, capovolge le cose. È sconcertante e lui amava essere sconcertato.

La creazione viene dagli ostacoli che uno si crea, è una specie di confron- to. Il meraviglioso film Straight No Chaser lo fa vedere bene. Monk tiene in mano un fazzoletto, un bicchiere di whisky, ha un enorme anello, il cappello, un cappotto e sta suonando! Probabilmente sono quelle che lui chiamava le migliori condizioni per creare!
Amava gli errori. Era capace di fare apposta degli errori dopo che qualcuno aveva sbagliato a suonare i suoi pezzi. Suonava gli errori degli altri, non solo i propri. Era una cosa che amava. C’è un aneddoto abbastanza noto in cui Monk assiste a una seduta di incisione con una grande cantante. Lei è meravigliosa e tutto funziona alla perfezione, così Monk le mormora all’orecchio: «Fai un errore». Forse era Abbey Lincoln

La storia di Sonny Rollins che andava a studiare sotto il ponte di Williamsburg è importante. Tu ci sei stato.
Quello fu fantastico, un miracolo, una rivelazione per me. Qualcosa di molto importante nella mia concezione del suono perché lì, sotto il ponte, eravamo inondati di suoni. C’era il traffico delle auto, gli aerei, a volte un elicottero, navi, sirene, e tutto il resto ad altissimo volume. Non era facile far sentire la propria voce in quell’ambiente così rumoroso. Ero orripilato. Il mio suono era così piccolo. Sonny Rollins era enorme, formidabile e forte come le sirene delle navi. All’inizio io ero piccolo, sopraffatto, triste, frustrato, e poi abbiamo suonato delle cose interessanti, dei pezzi di Monk, Ask Me Now, abbiamo parlato di armonie, scale, cose tecniche. Era fantastico, ma suonare, avere una voce in quell’ambiente era impossibile. Quindi mi persi completamente di coraggio. Poi la seconda volta sentivo più chiaro, più distinto, e la terza volta iniziai a fare un suono vero. Mi sentivo meglio e allo stesso tempo il suono emergeva di più. La terza volta non andava più così male e quando arrivai a casa fu una vera rivelazione. A casa era facile suonare, la mia voce era più forte, spiccava di più. Era come se avessi lavorato con i pesi.

È nelle condizioni difficili che uno si supera. L’idea di Sonny Rollins era eccellente.
Bisogna suonare contro degli ostacoli. Bisogna mettersi davanti degli ostacoli per poter far venire fuori la forza. Ero un po’ intimidito perché Sonny Rollins era un gigante ma lui fu veramente così carino con me, mi aiutò un sacco. Provavo a suonare come lui, il che era impossibile, ma provando trovai la mia strada.

Alain Kirili

(traduzione di Francesco Martinelli)