Giuseppe, hai ottenuto il lusinghiero successo di aver vinto, con la tua foto, il Jazz World Photo. Ci racconteresti la genesi di questa foto?
Nell’anno precedente, sempre al Grey Cat Jazz Festival, fotografai uno spartito che prendeva il volo vicino alla tromba di Paolo Fresu che stava facendo il sound-check, la foto non era niente male ma non ero completamente soddisfatto del risultato. Questa volta, memore anche dell’esperienza passata, come si è verificata una opportunità analoga ho reagito con estrema prontezza e velocità portando a casa l’istantanea giusta. Oltre ad aver fissato «la musica nell’aria», il secondo spartito che copre la mascherina penso che assuma anche un significato simbolico.
La tua candidatura al premio come è arrivata?
Negli ultimi anni sto partecipando a diversi concorsi nazionali e internazionali (sono stato vincitore o finalista di più di 90 contests negli ultimi quattro anni) sia per mettermi in gioco che per fare tesoro di queste esperienze e confronti.
Cosa hai pensato quando sei venuto a sapere del risultato conseguito?
Che, magari grazie anche ad un po’ di fortuna, avevo conseguito un risultato di prestigio anche nell’ambito della fotografia musicale internazionale.
La tua carriera di fotografo ha inizio negli anni Settanta. Ma hai iniziato con lo sport, con il pugilato, se non mi sbaglio. Perché hai abbondonato questa via e ti sei dedicato alla musica?
Il mio interesse principale è raccontare le storie degli uomini, il reportage umanistico, indipendentemente dal campo di applicazione quindi non abbandono ne’ sposo alcun genere specialistico.
Giuseppe, perché il tuo obiettivo si è focalizzato proprio nel jazz?
Perché essendo umbro l’opportunità di avere un festival “in casa” come Umbria Jazz mi ha semplificato l’avvicinamento al genere. Ma devo dire anche perché i musicisti sono delle persone interessanti con una sensibilità speciale.
Nel 2020 hai pubblicato Vita e Morte – Rapsodia Messicana. Come è nato questo progetto?
Fa parte di una triade di lavori che ha come soggetto la morte. Il primo libro nel 2006 realizzato insieme al giornalista RAI Luca Cardinalini è stato STTL (Sit tibi terra levis) che racconta il senso della vita e della morte dei personaggi italiani più importanti degli ultimi cinquant’anni, poi Miserere (2008) che attraverso la processione del Venerdì Santo a Gubbio parla della passione di Gesù Cristo ed infine l’ultimo che racconta come in Messico sacro e profano, come la vita e la morte si toccano fino a coincidere.
Perché prediligi le foto in bianco e nero?
Perché, secondo me, il bianco e nero oltre a essere più sintetico e diretto è maggiormente evocativo, suggerisce le riflessioni e le emozioni senza necessariamente voler analiticamente «dimostrare». In altre parole il mondo è a colori ma i sentimenti e i sogni per me sono in bianco e nero.
Rispetto agli anni Settanta, quando il pubblico affollava le aree dei concerti jazz, il numero delle persone si è assottigliato parecchio. Non credi? A tuo avviso, da cosa dipende questa tendenza?
Prescindendo dalla congiuntura dovuta all’emergenza sanitaria secondo me più che diminuito il pubblico è aumentata e si è parcellizzata l’offerta di eventi (piccoli e medi e a volte concomitanti) che ha favorito una “distribuzione” anche territoriale del pubblico.
Così come l’anagrafica del pubblico del jazz, almeno in Italia, non è di certo prevalentemente formata da giovani. Quali sono, secondo il tuo parere, i motivi di questo allontanamento dei giovani dai concerti jazz?
A mio avviso forse è dovuto a due componenti: 1) la difficoltà a realizzare una efficace comunicazione mirata ai giovani da parte degli organizzatori (uso di nuovi media e social) 2) troppi artisti con un approccio eccessivamente «puristico» ed «esoterico» sono poco inclini a cimentarsi in ambiti che travalichino e reintrerpretino i generi come invece con successo hanno fatto, a titolo di esempio, Stefano Bollani e Danilo Rea. Se l’approccio è troppo «per iniziati» lo diventa anche il pubblico.
Quando devi scattare una foto quali sono gli elementi che ti spingono a ritrarre quel particolare momento?
L’aver individuato qualcosa che mi coinvolge, mi riguarda o mi emoziona.
Ci diresti, in sintesi, quali sono gli elementi che tipizzano la fotografia nel mondo dello spettacolo?
A mio avviso non cambiano particolarmente rispetto a quelli “del normale fluire” della vita, forse si aggiunge una dimensione in più, la rappresentazione o l’interpretazione della stessa da parte dei musicisti, attori, e così via.
Giuseppe, a parte gli aspetti tecnici, si può imparare a essere buoni fotografi?
Come per ogni altra disciplina si possono sviluppare le capacità con l’applicazione e lo studio. Naturalmente una predisposizione naturale allo sguardo, alla composizione, alla bellezza, può essere importante ma alla fine quello che conta di più, essendo la comunicazione visiva un linguaggio, sono i contenuti, ciò che si vuole comunicare.
A proposito: esistono delle scuole di fotografia d’ambito musicale?
Non lo so, non le conosco. Ci sono proposte di corsi e workshop di diverso taglio e efficacia che quindi andrebbero valutati attentamente.
Cosa consiglieresti a un giovane che volesse avvicinarsi alla fotografia?
Di leggere molto (di tutto), studiare (anche, ma non solo, gli autori importanti che hanno fatto la storia della fotografia), se possibile viaggiare, confrontarsi continuamente in modo aperto, mettersi sempre in discussione, divertirsi (e se ha la possibilità, allo stesso tempo, guadagnarsi da vivere con un altro lavoro).
E’ difficile fare questa professione?
Non è mai stata la mia professione, penso di sì.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Seguitare a raccontare altre storie e quindi anche me stesso insieme a questa importante compagna di vita.
Alceste Ayroldi