BARBER SHOP: INTERVISTA A FRANCO CERRI (SECONDA PARTE)

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E’ senza ombra di dubbio la storia del jazz italiano. Franco Cerri  non finisce mai di stupire e con «Barber Shop» (Abeat Records) scrive un altro importante capitolo della sua vita artistica, al fianco di Dado Moroni, Riccardo Fioravanti e Stefano Bagnoli. Questa è la seconda parte dell’intervista con il grande chitarrista milanese.

Lei ha suonato anche il contrabbasso.

E’ stato un caso. Suonavo con un gruppo all’Astoria di Milano, dove si suonavano tre brani per far ballare la gente e, dopo, c’era una pausa per dare la possibilità al cavaliere di cercare un’altra dama. A turno ci fermavamo per tre minuti e il bassista mi disse: «Quando tocca a me il riposino, suonalo tu il basso». E io gli risposi: «Ma come faccio?». «E’ semplice: pensa alle quattro corde più grosse della chitarra, quelle sono le corde del basso». E quindi ho iniziato a suonare il basso chitarristicamente. Mi piaceva da morire ed è stato lo strumento che più mi è rimasto impresso. Quando ho capito come si doveva effettivamente suonare, ho lasciato perdere.

Durante gli anni della dittatura fascista e negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, in Italia il jazz si suonava e si ascoltava molto più di ora. A suo avviso, perché il jazz ha subito questo declino?

Non parlerei di declino, anzi ora sta tornando di moda. Penso alle vetrine dei negozi: mi ricordo di vetrine stupende. Adesso, invece, sono da voltastomaco, perché vogliono stupire a tutti i costi. Il musicista che nasce, professionalmente, adesso vuole fare qualcosa di nuovo, anche lui a tutti i costi e se non è più che preparato fa delle magre figure. Io ho un repertorio di brani famosissimi, perché così il pubblico può seguire ciò che si fa sul palco. Ci sono alcuni giovani musicisti che cercano di suonare il maggior numero di note possibili, ed è inutile. Altri copiano dei brani famosissimi inserendo delle altre melodie proprio per non far capire cosa sia quel brano e, soprattutto, che è copiato. Non è detto che si debba fare un concerto basandosi sullo e unicamente sull’improvvisazione. Io, quando scrivo un accordo, ci penso bene sia a quello successivo che a quello precedente, badando alla melodia, perché ci sia maggiore dolcezza: abbiamo tutti bisogno di pace. Diciamo che per il jazz è un momento un po’ così. Probabilmente le colpe sono a monte, perché i politici non hanno mai permesso di studiare adeguatamente la musica nelle scuole.

Lei è stato tra i primi jazzisti italiani a collaborare con musicisti europei. Perché effettuò questa scelta?

Sono stato molto all’estero, anche per il piacere di andare a visitare Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania, Inghilterra, Spagna e vedere come fossero anche dal punto di vista jazzistico. Per due anni sono stato in Scandinavia, ad eccezione della Finlandia che non ho mai visitato, e mi venne in mente di trasferirmi e di portare lì la mia famiglia. Lì ho trovato musicisti eccezionali, perché c’erano già le scuole di jazz. Ho imparato qualcosa in più proprio girando. Sono rientrato in Italia perché era un problema spostare la famiglia. La stessa idea mi era venuta in mente la prima volta che ero stato a New York, dove mi ero fermato a suonare per quindici giorni presso un club e la paga era molto buona. E mi chiesero di fermarmi. «Va bene, vado a prendere la famiglia e torno qui», dissi subito. La risposta del gestore del club, però, mi gelò: «No, la famiglia tra un paio d’anni». Allora lasciai perdere.

Poi, nel 1958 rientra in Italia e incide con uno pseudonimo: Ray Franch. Perché ha utilizzato un alias?

Non è vero: c’è qualcuno che ha inventato questa cosa, che ho letto anche io su di un libro che riguarda la storia del jazz in Italia. Ma non è assolutamente vero: io sono sempre stato Franco Cerri.

Quali sono gli attuali jazzisti europei che la convincono di più?

Ne conosco pochi e non ricordo i nomi. Alla mia età, purtroppo, ci si dimentica di tante cose e, soprattutto i nomi. Posso dire che all’estero, in Svizzera in particolare, ho iniziato a suonare con Flavio Ambrosetti e poi con il figlio Franco, che è un grande. Ora c’è anche un terzo, Gianluca. Tutti e due suonano in modo straordinario.

 Lei ha suonato con tutti, o quasi. C’è qualcuno con cui avrebbe voluto suonare?

Ho suonato con tanti, veramente. Sicuramente, mi sarebbe piaciuto suonare con Bill Evans.

 Nella scala dei valori, da uno a dieci quanto è importante la musica per Franco Cerri?

Dieci! Ci sono anche altre cose da dieci come il mangiare, il bere, il dormire. La musica ha giocato un grande ruolo per me.

Un consiglio a un giovane jazzista.

Di imparare bene a leggere la musica e avere confidenza con lo strumento e, poi, di pensare all’armonia.

Quali sono i suoi prossimi impegni?

Spero che si possa suonare con il quartetto di «Barber Shop». Poi, personalmente, sarò dal 12 al 14 luglio a Perugia per Umbria Jazz.

A Ayroldi

(seconda parte)