Latin jazz: la «tinta latina» (anzi spagnola) che c’è sempre stata

Nella tradizione del jazz il richiamo ai ritmi e ai colori che oggi usiamo riferire ai Caraibi è apparso vivificante, e grandi pionieri come Jelly Roll Morton e William Christopher Handy lo identificarono con chiarezza

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Jelly Roll Morton (primo a sinistra) con la band nel luglio 1929.

Jelly Roll Morton è stato molto criticato e anche preso in giro quando cercò un ritorno sulle scene, alla fine degli anni Trenta, presentandosi come «inventore del jazz, del rag e del blues». Esagerava certo, ma forse era più vicino al vero di quello che si pensasse all’epoca. Se non ne fu l’inventore, certo fu tra i primi nel jazz a sistematizzarne idee e componenti, tra i quali aveva identificato come centrale quello che lui chiamava Spanish tinge, letteralmente «colore spagnolo». Leggiamo per bene quello che disse ad Alan Lomax nel 1938: «Poi avevamo [a New Orleans] gli spagnoli… Ho sentito molti brani spagnoli. Ho cercato di suonarli al tempo giusto, ma personalmente non credo che fossero portati alla perfezione per quello che riguarda il tempo. Prendiamo per esempio La paloma, che ho trasformato nello stile di New Orleans. Si lascia la mano sinistra esattamente uguale. La differenza viene dalla mano destra, nella sincope, che dà [alla musica] un colore del tutto differente, cambiandolo davvero da rosso a blu. Ora, in uno dei miei primi brani, New Orleans Blues, si può notare il colore spagnolo. In realtà se uno non riesce a mettere un po’ di colore spagnolo nei suoi brani non sarà mai capace di ottenere quello che io chiamo il giusto condimento per il jazz». Notiamo di passaggio la ricchezza dei riferimenti culturali, per cui la musica è discussa in termini di colori in modo non dissimile da un Messiaen, dando una risonanza assai più ampia al termine blue ripetuto nel titolo del brano; e poi in termini alimentari, di spezie e sapori.

Il termine «spagnolo» è stato automaticamente accostato a «latino-americano» assumendo una sostanziale equivalenza, e associando questa influenza a quello che è stato poi genericamente chiamato latin jazz. Ma questa è una semplificazione: recenti volumi hanno messo in evidenza quale sia stato il secolare intreccio culturale tra Africa, Cuba, New Orleans, i Caraibi e la Spagna propriamente intesa, non solo le ex colonie spagnole nel Nuovo continente. Gli «spagnoli» di cui parla Morton possono essere certamente nati nelle Americhe, ma dal punto di vista sociale e culturale (linguistico, musicale) si considerano europei, ed è il loro colore che dà il tocco definitivo alla creazione del jazz, una componente senza la quale il jazz non si dà. 

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William Christopher Handy di Saint Louis Blues

Prima di lui (anche se il testo viene da un’autobiografia pubblicata nel 1941) W.C. Handy, quello che è stato chiamato «il padre del blues» (una musica che ha evidentemente, come è giusto, molti padri), racconta di aver adoperato lo stesso brano che cita Morton per una sorta di test. Dopo aver incontrato il ritmo dell’habanera lavorando a Cuba nell’anno 1900, parla dell’effetto di questo ritmo sui ballerini durante un ingaggio a Memphis nel 1909: «Avevo notato che le persone (di colore) che ballavano avevano una curiosa reazione al brano Maori di Will H. Tyer. Quando lo suonavamo e arrivavamo al ritmo dell’habanera avevo osservato una immediata, fiera e aggraziata reazione al ritmo. Era un caso, o le ragioni potevano essere trovate in una causa vera ma nascosta? (…) Cominciai a pensare che c’era qualcosa di “negroide” in quel ritmo, qualcosa che faceva battere più forte il cuore dei ballerini al Dixie Park (…) Se i miei sospetti avevano un fondamento, la stessa reazione avrebbe dovuto manifestarsi se eseguivamo La paloma. Usammo quel brano, e come volevasi dimostrare, eccolo di nuovo, quello stesso movimento calmo ma estatico». 

Nei termini del tempo, scelti da chi collaborò con Handy alla sua autobiografia – la questione di chi sia effettivamente l’autore delle autobiografie dei jazzisti delle origini, a partire da quelle di Louis Armstrong, è ancora tutta aperta – è chiaro il collegamento all’Africa via Cuba che Handy aveva già intuito.

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Sebastián Yradier de La Palom

La paloma è un brano che divenne estremamente popolare nella seconda metà dell’Ottocento, composto da Sebastián Yradier, musicista di origine spagnola (precisamente basca) che lo scrisse dopo una visita a Cuba in cui raccolse canzoni creole. La raccolta che lo conteneva fu pubblicata nel 1864 con il titolo Fleurs d’Espagne, e comprendeva anche El arreglito, la cui melodia fu presa a prestito da Bizet per la sua aria più celebre, L’amour est un oiseau rebelle, della Carmen. Bizet credeva che si trattasse di un’aria popolare (e quindi liberamente pubblicabile a proprio nome, nella tradizione dei compositori europei), ma successivamente inserì nello spartito di Carmen una nota con la quale riconosceva l’autore. Magra soddisfazione per Yradier che morì in miseria, ma il punto importante è di nuovo l’uso del termine «spagnolo». 

La paloma e El arreglito diedero un impulso decisivo alla prima diffusione di un ritmo che è il progenitore di tango, danzón, rumba e guaracha. La forma completa è propriamente chiamata contradansa habanera: una country dance inglese importata a Cuba dai Francesi fuggiti dalla rivoluzione haitiana, modificata nel ritmo dai musicisti di origine africana. Ma l’habanera è anche una canzone, parte della ricca cultura di confine creata tra Cuba e la Costa Brava dal commercio marittimo: le sue origini si trovano in aree di lingua catalana, e narra dell’amore per la mulatta, immagine idealizzata della donna cubana di origine africana e spagnola. 

E il tango non è solo argentino. Il tango andaluso nasce probabilmente prima, intorno al 1850 a Cadice, sulla base dell’habanera cubana, perché Cadice era uno dei punti d’arrivo della tratta degli schiavi e delle merci provenienti dalle Americhe. Val la pena di sottolineare con Ned Sublette che Cadice era stata la base militare di Annibale, e poi uno dei centri della cultura e della musica al tempo dei Mori, o più correttamente degli Almoravidi, dinastia islamica originaria dell’Africa del Nordovest il cui dominio si estese, al tempo del massimo splendore, dal Mali a Valencia e Saragozza, e che quindi l’arrivo di melodie e ritmi da Cuba si innesta su più antichi substrati di origine africana. 

Baschi, catalani e andalusi: c’è ragione di supporre che quando Jelly Roll Morton dice «spagnoli» intenda proprio «spagnoli», ribadendo un contatto attraverso le vicende della New Orleans sotto il dominio iberico, e al tempo stesso l’importanza storica della Spagna come centro nodale dei rapporti tra Europa e Africa.

Con questo imprinting non c’è da sorprendersi che il jazz attraversi periodicamente, nella sua storia, fasi in cui torna ad abbeverarsi alle sue radici latin nelle loro diverse manifestazioni. Se nell’era dello Swing questo legame sembra allentarsi – ma è ben presente nella musica di Ellington e nella scelta dei suoi musicisti, dai clarinettisti creoli a Juan Tizol – esso riemerge con forza nel decennio successivo con il bebop, a partire dal profetico Un poco loco di Bud Powell (e Max Roach) passando per il Charlie Parker di «South Of The Border» e per le estese sperimentazioni di Gillespie (e George Russell) con musica, percussioni, canti e culti cubani (Cubana Be, Cubana Bop). 

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L’etnologo Alan Lomax

Negli anni Cinquanta, grazie anche a un clima culturale in cui la Spagna è di moda, con i romanzi di Hemingway, i film ambientati nell’America Latina e i manifesti delle corride, la musica latin pervade l’intero spettro della musica americana. È alla base di alcune delle più popolari linee di basso del rhythm’n’blues e del funk, è un ingrediente essenziale della musica da ballo, ma appare anche nella musica delle avanguardie – basta pensare a Enlightenment di Sun Ra, 1957 – e nel jazz più avanzato, soprattutto grazie agli influenti concept album di Miles Davis, «Sketches Of Spain», e John Coltrane, «Olé». L’incontro di Miles e Trane con la musica spagnola avviene grazie al disco, e segnatamente alle prime collezioni di quella che oggi chiameremmo world music pubblicate in virtù del lavoro di Alan Lomax in Spagna (ricordiamo che si tratta di opere quasi clandestine, in una Spagna ancora franchista). 

 

In particolare Saeta è un impareggiabile arrangiamento di Gil Evans (per Miles al flicorno) di una registrazione quasi etnografica in cui viene ricostruito in studio l’ambiente della processione della Esperanza Macarena, una statua della Madonna venerata a Siviglia, a cui vengono cantate le saetas; un lamento – letteralmente una «freccia nel cuore» – per voce sola (eseguito specialmente da cantanti zingare) le cui origini si perdono nel tempo: melodie di origine sefardita, scale di tradizione islamica via Almoravidi, abbellimenti simili a quelli del flamenco. La registrazione originale cui Evans si ispirò, trascrivendola quasi nota per nota, è quella della Niñarcia Lorca. Miles aveva ritrovato nel suo canto la voce delle donne nere più anziane che sentiva cantare nelle loro case tornando a casa la sera da ragazzo, vicino a St. Louis, e aveva compiuto in musica lo stesso viaggio descritto da Ellison nell’introduzione a L’uomo invisibile, mentre il protagonista ascolta Black And Blue eseguita da Louis Armstrong: «Quella notte mi trovai ad ascoltare non solo nel tempo, ma anche nello spazio. Non solo entrai nella musica ma discesi, come Dante, nelle sue profondità. E sotto lo scorrevole tempo hot ce n’era uno più lento, e una grotta, in cui entrai e mi guardai attorno, sentendo una donna anziana che cantava uno spiritual pieno di Weltschmerz quanto il flamenco…». 

Dopo il 1960 non si contano gli esempi di contaminazioni che poi contaminazioni non sono, ma rimandi a una comune origine; basta ricordare la fenomenale popolarità della bossa nova in ambito jazzistico, o il continuo travaso di materiali, brani e solisti tra salsa e jazz. Anche i generi elettrici del jazz post «Bitches Brew» (in cui, vale ricordarlo, Miles intitola significativamente un brano Spanish Key) non ne sono immuni, e al contrario i Weather Report celebrano questa tradizione nel loro primo album con The Moors, con una stupefacente improvvisazione iniziale di Ralph Towner, solista ospite. Dagli anni Trenta in poi, grazie soprattutto a Django, genio pienamente cosciente della profondità delle tradizioni culturali del suo popolo, i musicisti europei inizieranno la loro esplorazione degli strati profondi della musica del vecchio continente, ma questa è un’altra storia…

Francesco Martinelli

Riferimenti

  • W.C. Handy, Father Of The Blues, Macmillan Company, New York, 1941.
  • Pamela J. Smith, Caribbean Influences On Early New Orleans Jazz, Ma Thesis, Tulane University, 1986.
  • J.S. Roberts, The Latin Tinge: The Impact Of Latin American Music On The United States, New York, 1999.
  • Alan Lomax, Mister Jelly Roll: The Fortunes Of Jelly Roll Morton, New Orleans Creole And «Inventor Of Jazz», University Of California Press, ultima ed. riveduta e ampliata, 2001.
  • Ned Sublette, Cuba And His Music, Chicago Press Review, 2004.
  • John Doheny, «The Spanish Tinge Hypothesis: Afro-Caribbean Characteristics In Early New Orleans Jazz Drumming», in The Jazz Archivist, vol. XIX (2005-2006).