Quando, nel 1966, fu convocato da Michelangelo Antonioni per lavorare alla colonna sonora di Blow-Up, il ventiseienne Herbie Hancock non possedeva la minima esperienza di composizione cinematografica e aveva, a malapena, sentito parlare del regista italiano. «Scoprii con sorpresa che era un grande appassionato di jazz. Mi disse che era la sua musica preferita, e che per questo voleva inserirla nel suo film. Gli domandai quali fossero i suoi jazzisti preferiti e lui mi rispose che, più di tutti, gli piaceva Albert Ayler. Ci rimasi di sasso. Sapeva chi era Albert Ayler? Poi attaccò a parlare di tutte le sue altre passioni: Miles Davis, Dizzy Gillespie, le cose che avevo fatto con Tony Williams. Conosceva Jack DeJohnette e Joe Henderson. Fantastico, pensai. Tanto più che molti dei musicisti da lui citati finii per usarli nella colonna sonora. Certi appaiono anche sul disco».
La passione per il jazz era condivisa da molti altri partecipanti al film di Antonioni. Steve Howe, che otterrà in seguito fama planetaria come chitarrista degli Yes e che all’epoca, come membro del gruppo Tomorrow, fu inizialmente coinvolto dal regista di Ferrara per apparire in Blow-Up, ha sempre dichiarato la sua diretta discendenza da Barney Kessel; Jimmy Page, uno dei massimi chitarristi nella storia del rock, futuro pilastro dei Led Zeppelin e che, nel 1966, aveva appena sostituito Eric Clapton negli Yardbirds, si presentava sul set del film portando con sé una serie di album di Jimmy Smith, e così via.
La colonna sonora, per la quale Hancock decise di accettare l’incarico, ebbe una gestazione laboriosa. Dapprima il pianista tentò di inciderla a Londra – dove si tenevano le riprese – servendosi di noti jazzisti britannici, tra i quali Ian Carr, Don Rendell e Gordon Beck, ma si accorse ben presto di non trovarsi a proprio agio. «Mi mancava l’aggressività dei musicisti di New York», raccontò poi. «L’impatto era completamente diverso, e il risultato blando, addirittura moscio». Rientrato negli Stati Uniti, incise di nuovo il tutto nel novembre 1966 assieme a Freddie Hubbard, Joe Newman, Phil Woods, Joe Henderson, l’organista Paul Griffin, Jim Hall, Ron Carter e Jack DeJohnette, più un percussionista sconosciuto (forse lo stesso DeJohnette). Ed è questa la musica che appare nella colonna sonora, per quanto pesantemente tagliata da Antonioni, e nel Cd della Rhino che la raccoglie assieme ai brani degli Yardbirds, dei Lovin’ Spoonful e dei Tomorrow.
Il tema principale del film, che sarà per anni un cavallo di battaglia del vibrafonista Bobby Hutcherson (che lo incise per la Blue Note, con lo stesso Hancock al pianoforte, nel luglio 1967 per l’album «Oblique», rimasto comunque inedito fino al 1979) è una sorta di rielaborazione del vecchio Maiden Voyage, e nel Cd appare in due versioni: la prima, che apre il disco, vede il tema esposto dapprima in tipico stile Swingin’ Sixties, per poi sfumare in una ripresa che prefigura la scrittura hancockiana di «Speak Like A Child» e «The Prisoner», mentre la seconda riporta le battute finali di quello che, con ogni probabilità, doveva essere un mostruoso assolo di Freddie Hubbard, lasciandoci invano il desiderio di ascoltare la parte tagliata. The Naked Camera vanta un densissimo Joe Henderson, impegnato in uno dei suoi tipici assoli «a mulinello», mentre il breve Thomas Studies Photos non è altro che il vecchio Succotash di «Inventions & Dimensions» (1964), e il fatto che non se ne sia accorto quasi nessuno dimostra quanto la colonna sonora del film di Antonioni continui a passare per lo più sotto silenzio nelle disamine della carriera hancockiana.
Blow-Up segna comunque per il pianista l’avvio di una variegata serie di impegni nel mondo del cinema, legata anche alla formazione di un gruppo più ampio che inciderà nel 1969 il magnifico «The Prisoner» e la colonna sonora del cartone animato di Bill Cosby Hey, Hey, Hey, It’s Fat Albert (su disco come «Fat Albert Rotunda»), per poi assestarsi nel sestetto di «Mwandishi», «Crossings» e «Sextant» e sfociare (1973) negli Headhunters.
È proprio nel 1973 che Hancock riceve la commissione per uno dei suoi lavori più singolari, la sonorizzazione del film di The Spook Who Sat By The Door, feroce pellicola fantapolitica a base afroamericana che in Italia è apparsa con il titolo di Freeman l’agente di Harlem e la cui colonna sonora (pubblicata dalla United Artists, non il bootleg che è da qualche tempo in commercio) è rimasta per decenni un rarissimo pezzo da collezionisti. Il film, diretto da Ivan Dixon e tratto dal romanzo omonimo di Sam Greenlee, è oggi considerato un classico dell’underground anche perché negli Stati Uniti fu ritirato dalle sale pochi giorni dopo il debutto ed è apparso in Dvd solo nel 2004, sopravvivendo nella memoria collettiva grazie alle copie pirata che passavano di mano in mano. Dalle nostre parti, invece, sebbene in versioni di qualità a dir poco scadente, è sempre stato facilmente reperibile nei centri commerciali e negli autogrill.
Quel che si ascolta in questo singolare film è essenzialmente legato alle sedute che produssero l’album «Head Hunters» per la Columbia, uno dei dischi di jazz più venduti della storia. Il disco ufficiale, così com’è ancora in commercio, presenta quattro brani (Chameleon, ridotto a quindici minuti dagli originari ventitré eliminando l’assolo di Bennie Maupin, Watermelon Man, Sly e Vein Melter) che sono il risultato di consistenti modifiche in sede di produzione. Non a tutti è noto che la versione quadrifonica (uscita nel 1974) differisce in svariati tratti da quella standard, così come i brani incisi in quei giorni sono stati ben otto: ai quattro citati in precedenza vanno aggiunti i tuttora inediti Butterfly e Palm Grease, più lo Shiftless Shuffle apparso nel 1979 su «Mr. Hands» senza indicarne l’origine e una lunga versione (dodici minuti) proprio del tema di The Spook.
Chi possiede il flexidisc «Herbie Hancock Demonstrates The Rhodes Piano» allegato all’epoca a un numero di DownBeat può ascoltare, sulla seconda facciata, il pianista che introduce proprio un estratto da questa versione di The Spook. Il tema è assai familiare a chi conosca bene l’Hancock elettrico, e alle parole «l’abbiamo riproposto su un altro album» non ci vuole molto a capire che si tratta del ben noto Actual Proof, che appare su «Thrust» (ma con Mike Clark alla batteria) e sul raro live giapponese «Flood», dove Hancock sceglie di non impiegare il piano elettrico ma quello acustico. Nella colonna sonora del film il tema è rielaborato per un organico più ampio, che include tra gli altri anche il trombonista Garnett Brown (presente in «Fat Albert») e il tastierista Todd Cochran, che con il nome zulu di Bayeté Umbra Zindiko aveva appena preso parte all’incisione di «Love, Love» (ECM) del trombonista Julian Priester, ex membro del sestetto di Hancock. Cochran appare anche in una scena del film, impegnato al piano elettrico ad accompagnare l’esibizione di una danzatrice del ventre in una sorta di lounge bar della inner city di Chicago (in realtà il film è girato a Gary, nell’Indiana), mentre lo stesso Hancock si scorge per un brevissimo istante nelle vesti di un tassista.
Parallelamente all’incisione di «Thrust» (agosto 1974) Hancock firma un contratto per la colonna sonora di Death Wish (da noi Il giustiziere della notte), il ben noto film del regista britannico Michael Winner, tratto da un romanzo di Brian Garfield, che rappresentò lo spartiacque della declinante carriera di Charles Bronson. La scelta di Hancock da parte del produttore Dino De Laurentiis fu dovuta alle insistenze di un’amica del regista, una giovane attrice portoricana che apparirà poi nel film nella parte della cassiera del supermercato in cui l’esordiente Jeff Goldblum si procura l’indirizzo della moglie di Bronson. Fu la ragazza, a quanto pare, a far ascoltare «Head Hunters» a Winner e a convincere la produzione a ingaggiare Hancock.
Il disco che raccoglie la colonna sonora, pubblicato dalla Columbia anche su Cd e oggi non facilmente reperibile, è di alto livello ma differisce non poco da ciò che si può ascoltare nel film. Gli Headhunters appaiono al completo nel brano conclusivo, Fill Your Hand, dominato da un intenso assolo di Bennie Maupin al saxello, mentre Do A Thing è una rielaborazione del pattern batteristico della ben nota Palm Grease. Il tema del film, Death Wish (Main Title), resta comunque la cosa migliore, ancorato com’è a un insinuante riff del basso elettrico di Paul Jackson jr e a uno strepitoso arrangiamento orchestrale del sottovalutato Jerry Peters.
Da qui in avanti, purtroppo, la carriera cinematografica di Hancock inizierà a declinare, perdendosi in tardivi e malriusciti ripescaggi blaxploitation (i terribili Action Jackson e Harlem Nights) o nel fornire musica di sottofondo a produzioni spesso riuscite (Storia di un soldato di Norman Jewison e Colors – colori di guerra di Dennis Hopper) ma la cui colonna sonora si basava per lo più su brani originali scritti da altri. Il celebre ’Round Midnight – A mezzanotte circa di Bertrand Tavernier è, dispiace dirlo, l’eccezione che conferma la regola.
Luca Conti