Michael Formanek: l’arte di pensare in grande

Il contrabbassista e compositore californiano, ormai da molti anni una presenza costante nel mondo del jazz e delle nuove musiche, compie un passo inaspettato e fonda una poderosa big band

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Michael Formanek -Ensemble Kolossus

Non è certo un ragazzo né un musicista da poco apparso sulla scena del jazz americano, ma Michael Formanek – contrabbassista di San Francisco e newyorkese d’adozione – ha acquisito nel tempo uno status di primissimo piano in qualità di strumentista e soprattutto di compositore di assoluta rilevanza. Anche se ha alle spalle una quantità di collaborazioni illustri, è come leader, e in particolare con una triade di eccellenti album per ECM, che il suo valore è emerso in tutta la sua pienezza. Con Tim Berne ha creato negli anni un sodalizio inossidabile e fruttoso; assieme a Craig Taborn e Gerald Cleaver ha avuto la capacità di far sublimare i rispettivi talenti; con la giovane Mary Halvorson si cimenta periodicamente in avventure spericolate. Ma a interessarci sono la sua visione d’insieme della musica e il suo pensare in grande, tanto da ritenerlo uno dei più rilevanti autori del jazz contemporaneo e da tenerlo d’occhio con profonda attenzione. Il suo lavoro più recente, «The Distance» (2016, ECM), ha sbalordito il pubblico del jazz e sbaragliato il campo tra i compositori. Il disco è a nome di un Ensemble Kolossus che giustifica appieno la sua dicitura: una lunga, magistrale composizione che vede impegnati tanti dei musicisti più ragguardevoli della scena d’avanguardia newyorkese. Il bello è che la musica di Formanek ha comunque il pregio di essere fruibile per chi ama le soluzioni d’assieme swinganti, i colori orchestrali in movimento, la bellezza formale che non scade mai nello stucchevole. Tutto ciò lo abbiamo potuto apprezzare anche dal vivo in due formidabili occasioni: al Winter Festival di New York – presente l’ineffabile Manfred Eicher, boss dell’ECM – e al Jazz Standard, club fra i più noti di Manhattan. A fronte di quello che appare sicuramente come il primo vero capolavoro del 2016 dovevamo, quindi, trovare l’occasione di fare quattro chiacchiere con questo signore dall’aspetto pacioso e accomodante ma con un bagaglio artistico di affilata, tagliente autorevolezza.

Allora, cominciamo dall’inizio della tua carriera, in California.
Provengo da una piccola città della costa californiana, Pacifica, non lontana da San Francisco . E fin dai tardi anni Settanta – sono nato nel 1958 – ho cominciato a suonare con i musicisti locali, in particolare con quelli che frequentavano la John Coltrane Church, che è tuttora attiva. Non ho avuto una vera e propria educazione musicale ma già a 16 anni suonavo il basso elettrico, come tanti ragazzi della mia generazione, poi sono passato al contrabbasso. Dopo qualche anno già mi cimentavo nel gruppo di Eddie Henderson, quindi con John Handy e poi con Joe Henderson, per poi ritrovarmi a suonare anche con Tony Williams. Il grande batterista aveva formato di nuovo i Lifetime e per me, che ero un ragazzo, stare accanto a lui sul palco fu quasi come un sogno ad occhi aperti!

Ti sei fatto le ossa sul campo, come si dice. Come fu il passaggio dalla placida California a New York?
Avevo un forte desiderio di andare a vivere a New York perché sapevo che era lì che accadevano le cose più interessanti. Ovviamente non era un passo facile da compiere. Colsi l’occasione di andare da quelle parti assieme a un gruppo che faceva musica brasiliana: era il 1978. Finimmo a suonare in provincia, a Buffalo, quasi al confine col Canada! Però l’obiettivo non era lontano. Così mi venne in mente di chiamare Dave Liebman, che avevo conosciuto in California: lui mi disse che si era liberato proprio in quel momento il posto del contrabbassista nel suo gruppo, che doveva esibirsi allo Sweet Basil la settimana seguente! Così presi il primo treno per andare a suonare con Dave: fu il mio primo ingaggio a New York. E nella band c’era gente molto forte, come John Scofield.

Quindi la tua intenzione era di avere più esperienze possibili, di suonare con i migliori che ti capitavano a tiro. Non avevi dunque ancora uno stile ben formato, o sbaglio?
Sì, proprio così. A New York volevo raggiungere chiunque, suonare dal vivo, registrare in studio; desideravo rimanere in città e formarmi professionalmente. Non avevo ancora un’idea ben precisa della direzione verso cui andare dal punto di vista musicale.

Quand’è, allora, che è avvenuto il passaggio decisivo? Quando hai capito che, come musicista, avevi cose molto personali da dire?
È avvenuto gradualmente. Già nei primi anni Ottanta cominciavo a scrivere qualcosa, a buttare giù idee musicali. Fu più tardi, verso il finire del decennio, che iniziai a capire che potevo esprimermi appieno con la mia musica, con uno stile del tutto personale. Devo dire che le varie sfide che affrontavo nel suonare con gente sempre più ad alto livello mi stavano formando sul serio, ma fu l’incontro con Tim Berne ad essere decisivo in tal senso. Mi ricordo che a presentarci fu Joey Baron, col quale avevo suonato. All’inizio io e Tim ci studiammo a vicenda perché non eravamo sicuri l’uno dell’altro in termini di sintonia artistica, ma la sua musica era così interessante per me che un giorno lo convinsi a provarmi. Così nacque la nostra collaborazione, la nostra amicizia, che è tuttora molto solida.
Attraverso quelle esperienze – che erano dettate da una grande apertura mentale, molto diversa dalle strettoie asfittiche di certi musicisti con i quali avevo suonato – si formò in me la consapevolezza di potermi esprimere in maniera del tutto personale. Non avevo quindi più voglia di suonare con chi capitava ma di sperimentare cose nuove, ricercare strutture musicali diverse. In definitiva ero più interessato al cambiamento, alla novità.

E il tuo primo album da leader com’è nato?
«Wide Open Spaces»? L’ho inciso nel 1990 per la ENJA. Avevo già registrato varie cose per quell’etichetta con altri musicisti già fin dal 1985, quindi conoscevo molto bene Matthias Winckelmann, il fondatore e proprietario. Più volte gli avevo chiesto di produrre un mio album ma non mi aveva preso ancora in considerazione. Poi un giorno mi disse: «Bene! Fai quello che vuoi, incidi pure un tuo disco». Così andai avanti, anche se ero ancora un po’ perplesso e non convinto appieno delle mie possibilità.

Ciò che si percepisce nella tua musica, fin dalle prime incisioni e anche con i piccoli gruppi che avevi a tuo nome, è che le composizioni appaiono già come se fossero nate per un grande organico. Hanno comunque un’ariosità orchestrale nella loro struttura.
È vero. Comunque ebbi modo di cominciare a lavorare per un organico allargato dal mio terzo album per la Enja, «Low Profile» del 1994, dove ci sono ben quattro fiati (Tim Berne, Marty Ehrlich, Dave Douglas e Frank Lacy) oltre alla ritmica. Ma il passo decisivo per raffinare le composizioni con larghi organici avvenne all’inizio degli anni duemila, quando cominciai a insegnare al conservatorio di Baltimora. Lì avevo modo di creare musica con l’orchestra degli studenti, e quindi il desiderio di comporre per più strumenti emerse in maniera sempre più decisiva. Così studiai tantissimo la musica di vari compositori, approfondii il mio bagaglio di conoscenze. Volevo capire a fondo come funzionava un grande organico. Mi ci vollero circa dieci anni di studi, approfondimenti, ricerche, per affinare e conoscere la materia, che del resto mi attirava sempre di più.

Non trovi una forte influenza della musica di Charles Mingus in quello che componi? Non solo per il fatto ovvio che suoni il suo stesso strumento: c’è aria, colore, movimento nella musica di Mingus, anche nei suoi piccoli gruppi.
Si. È fortissima. E per me questo è un grande complimento. Enorme. In effetti, quando mi trovo a comporre passo molto tempo ad affinare le strutture, a cercare le note giuste. Davvero tanto. Quando devo preparare un nuovo disco non faccio altro che lavorare sulle composizioni, mi isolo e non suono quasi dal vivo o tantomeno con altri. Non posso mettere in piedi un brano in cinque minuti: ho bisogno di lavorarci sopra col cesello. Devo prima pensare a lungo alla musica, averla in testa, considerare i musicisti da usare per le varie voci strumentali. Poi la musica per grande organico di Mingus mi ispira moltissimo per l’uso dei colori, del movimento nelle strutture.

È come un’arte del cambiamento continuo, che in Mingus è straordinaria e in te si sente in maniera fortissima. Non c’è alcun desiderio di staticità. E poi c’è come un rapporto decisamente rimarcato fra il passato e il presente nelle strutture. Non è così?
Mi fa molto piacere che sia rilevata questa corrispondenza. Non lo faccio in maniera del tutto consapevole. Non ricerco a tutti i costi qualcosa del passato ma è vero che è comunque presente in me, nella mia formazione di musicista. Ecco perché viene fuori. In fondo è un po’ la musica a condurmi verso certe aree da esplorare, dove il passato fa comunque parte del presente. E poi sono anche stimolato da altre forme d’arte: la pittura, la letteratura e il cinema in modo specifico. Cerco di visitare spesso mostre d’arte contemporanea e mi piace frequentare gli scrittori. Il concetto di una storia raccontata nel tempo, com’è caratteristico del cinema, mi attrae molto e credo che si possa fare un parallelo col modo che ho di lavorare in musica.

Potresti realizzare delle eccellenti colonne sonore. Ci hai mai pensato o ti è stato proposto?
Qualcosa ho fatto in passato, verso la fine degli anni Ottanta: ho creato della musica per piccoli film indipendenti. Uno dei miei brani per ECM è stato usato di recente per un film europeo. Comunque è chiaro che mi piacerebbe molto confrontarmi col cinema: lavorare in musica seguendo lo sviluppo della storia e il carattere dei personaggi. Non è lontano dal mio modo di comporre se si pensa agli strumenti come ai protagonisti di una storia.

Questo ci porta a parlare del tuo ultimo album: l’Ensemble Kolossus è già indicativo delle dimensioni del lavoro. Com’è nata l’idea di «The Distance»?
Avevo in testa l’idea di comporre per un organico molto ampio ma ho addirittura fissato una data allo Shapeshifter di Brooklyn, per il debutto dal vivo, prima ancora di scrivere la musica.

Davvero? Sembra una follia! Non avevi neanche una commissione da Manfred Eicher?
No, l’accordo con ECM è venuto molto dopo. Quando ho immaginato quel tipo di composizione ho prima di tutto pensato ai musicisti e ho verificato con loro se si poteva trovare assieme una data per il concerto che andasse bene a tutti. Una volta confermati il luogo, la data e i musicisti, non restava che scrivere la musica!

Ti sei quindi voluto dare una scadenza precisa per finire di comporre. Come una specie di ultimatum!
Esatto. In effetti è stato un po’ folle da parte mia, considerando anche il fatto che, essendo bene a conoscenza delle difficoltà nello strutturare un lavoro così imponente, ho voluto comunque fissare (per me prima di tutto, ma responsabilmente anche per gli altri) una scadenza ben precisa. È stato piuttosto difficile conciliare tutti questi impegni,ma ci sono riuscito: avevo bisogno di darmi un limite invalicabile. Era il 2013 e ho scritto la musica in un paio di settimane.

Per questo lavoro sei riuscito a raccogliere la crème del nuovo jazz newyorkese. Ci sono tanti nomi importanti nel disco: erano gli stessi anche al debutto? E immagino che con loro avrai creato un’eccellente intesa umana e artistica per convincerli a collaborare al progetto.
Escluso uno dei membri dell’orchestra, tutti gli altri erano gli stessi del debutto, sul disco e dal vivo poi al Winter Festival di New York nel gennaio 2016. E devo dire che per me è stato estremamente gratificante averli tutti quanti perché so bene quanto sono impegnati individualmente nel loro lavoro di musicisti. Questo non solo mi emoziona personalmente per il rispetto e l’amicizia che sento da parte loro, ma allo stesso tempo mi spinge a tirare fuori il meglio possibile da me stesso nel comporre e suonare. Soprattutto per «The Distance», che è un lavoro di grandi dimensioni, l’impegno è stato davvero imponente.

C’è una differenza tra la musica eseguita in concerto e quella poi registrata in studio? E quando e come è intervenuto Manfred Eicher nella produzione discografica?
A parte un’aggiunta iniziale e una finale, la musica è la stessa. Certo, qualche piccolo cambiamento c’è stato qua e là, ma sostanzialmente la composizione è sempre quella. Allo Shapeshifter eravamo a metà del 2013, mentre la registrazione in studio ha avuto luogo a Brooklyn nel dicembre del 2014. Con Eicher avevo discusso la possibilità di una nuova incisione, ma non credo che lui avesse in mente un lavoro di queste dimensioni! Devo dire che è stata Sarah Humphries-Berne, che dirige l’ufficio di New York dell’ECM, a insistere e a spingermi a credere fino in fondo a questo progetto. A un certo punto, a dire il vero, pensavo che Eicher fosse solo interessato a pubblicare un disco in quartetto, o qualcosa del genere. Sarah poi mi ha aiutato nel fissare lo studio e gli appuntamenti con i musicisti: è stata davvero preziosa.
In un paio di giorni abbiamo registrato tutto. Manfred non è stato presente all’incisione, così gli ho mandato il materiale per l’approvazione e la pubblicazione. ECM ha poi lavorato sul missaggio del disco. Vero che avevo scritto la musica in due settimane, ma l’avevo già in testa da almeno un anno. Ne conoscevo bene il suono. Si trattava di fissarla su carta e poi farla emergere dagli strumenti. Ecco perché ho intitolato il lavoro «The Distance»: l’avevo in mente da lungo tempo e, quando è venuto fuori, c’era una certa distanza fra il mio pensiero e la sua menifestazione. E poi c’è anche l’idea di una distanza fra la gente, tra ciò che si ha in mente e ciò che si fa.

Il disco è stato accolto molto bene dalla critica, che lo ha elogiato quasi senza riserve. Sei rimasto sorpreso da questa positiva accoglienza generale ?
Chiaro che mi ha fatto molto piacere ma non ci avevo assolutamente pensato. Durante le sedute d’incisione molte persone, tra i musicisti e gli amici, mi dicevano grandi cose sulla musica ma non sono abituato a dare molto peso a queste opinioni. Preferisco aspettare e vedere cosa succede una volta pubblicato il materiale. Credo che il grande successo del concerto al Winter Festival di gennaio mi abbia confermato la sensazione di aver fatto qualcosa di pregevole, che potesse avere un impatto autentico nel mondo del jazz. Il problema, adesso, è quello di farlo ascoltare dal vivo, almeno fuori da New York: con un organico di queste dimensioni e con tutti quei musicisti coinvolti, credo che sia estremamente difficile. Preferisco non pensarci e vedere se mi arrivano delle proposte concrete.

Perché hai lasciato ad altri – come Mark Helias – il compito di dirigere la tua musica su disco e dal vivo?
Per due ragioni principali: prima di tutto perché mi riesce difficile farlo mentre suono. Il contrabbasso non ti dà grandi possibilità di movimenti. In secondo luogo non mi piace affatto controllare la gente, esercitare qualche forma di potere sui musicisti. Preferisco collaborare con loro, fare emergere le loro personalità, non già dirigerli.

E qui c’è una grande differenza con Charles Mingus.
Eh sì! Lui faceva suonare gli altri come voleva, e se loro non rispondevano a dovere… Mingus aveva una personalità prorompente.

Hai pensato ad un eventuale tour europeo con un organico ridotto per presentare la stessa musica di «The Distance»?
Al momento sono aperto a tutte le possibilità; certo è che mi riuscirebbe difficile sacrificare delle parti o delle sonorità particolari – come ad esempio la marimba presente nel disco – pur di andare a tutti i costi in tour. La varietà dei colori musicali e delle personalità degli strumentisti sono fattori indispensabili per un progetto del genere. D’altronde, quella che è coinvolta è una vera e propria orchestra. Difficile ridurla. Preferirei magari pensare a qualcos’altro da portare in tour, musica per quartetto o quintetto.

In passato hai composto un lavoro per orchestra sinfonica intitolato The Open Book. Ne è rimasta traccia? Avresti intenzione di riproporlo in concerto?
Quello è stato il primo vero lavoro per grande organico che ho scritto. Lo composi per gli studenti del conservatorio di Baltimora, dove insegno. Sì, mi piacerebbe resuscitarlo, se fosse possibile: la partitura prevede un’orchestra sinfonica più una jazz band e sette solisti. Al momento esiste solo una registrazione di qualità non professionale, ma mi piacerebbe realizzare un disco vero e proprio. Sarebbe bello. Per ora sto soltanto lavorando a musica per una piccola formazione. Realisticamente, in questo modo, è più facile trovare date per concerti e quindi fare dei tour. Addirittura sto pensando di tornare a fare qualcosa per solo contrabbasso, come ho già fatto in passato. Però devo dire che mi sento soddisfatto di ciò che ho realizzato finora. Voglio andare avanti e raffinare la mia musica ma non ho grossi rimpianti per il passato. Guardo solo al futuro.

Enzo Capua