Umbria Jazz Winter 29
Orvieto, 28 dicembre 2022 – 1 gennaio 2023
Seconda Parte
Tornando a una più compita consecutio temporum, il 29 dicembre è la volta dell’Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti diretta da Paolo Damiani. Il top del jazz italiano, messi assieme grazie al progetto della Fondazione Musica per Roma, i cui musicisti sono selezionati attingendo alle graduatorie del Top Jazz indetto da questa rivista, si è esibito sul palco del Mancinelli all’insolito orario (per essere un teatro e per essere a pagamento) delle 12. Tale circostanza, probabilmente, ha giocato a sfavore, perché il pubblico in sala era tutt’altro che numeroso. E chi non c’era si è perso un bel concerto, fatto di musiche originali (che piacere non dover ascoltare cover/standard imbolsiti) e un ensemble ben rodato reduce da un fortunato tour italo-europeo.
La suite firmata da Paolo Damiani Come vento di taglio sulla pelle apre il concerto e rivela subito quanto sia compatto l’organico e il lirismo della composizione si sgretola sotto i colpi di maglio dei violini di Anais Drago ed Eloisa Manera e di una ritmica scalpitante (Francesca Remigi alla batteria e Federica Michisanti al contrabbasso). Ed è la firma della Michisanti a dare vita al secondo brano in programma, New Song, dai sonni agitati e tenebrosi con l’assolo significativo di Federico Calcagno al clarinetto basso. Ripped Spring è siglata dall’altista Michele Tino, con la sua marcia sottintesa e una slabbrata coralità che avvolge la struttura melodica. Anais Drago mette il suo sigillo su Different Perceptions: un brano dalle profonde dissonanze, dalla composta rabbiosità espressiva che apre a un’inaspettata melodia nordic-oriented caratterizzata dalla voce di Camilla Battaglia, che mette la sua firma su Four Season (sublimata da un assolo di Francesca Remigi particolarmente ispirato). Un’orchestra che funziona perfettamente, che ha in Paolo Damiani il suo architetto e nei solisti (a parte quelli già citati) Sophie Tomelleri (sax tenore), Francesco Fratini (tromba), Michele Fortunato (trombone), Giacomo Zanus (chitarra), Nazareno Caputo (vibrafono) una squadra vincente. Peccato che non fossero previste altre repliche per questo ensemble che merita la massima visibilità e considerazione.
Alle 16 il Palazzo del Popolo (sala 400) ha accolto la prima del tributo a Charles Mingus ordito da un gruppo di prim’ordine: Alex Sipiagin, Piero Odorici, Roberto Rossi, David Kikoski, Boris Kozlov, Donald Edwards. I lussuosi arrangiamenti mescolano le ancestrali realtà di Mingus con una musica torrida, un magma sonoro che inghiotte ogni cosa.
Alle 18.30 il medesimo sito ospita la prima esibizione della pianista e compositrice canadese Kris Davis, già compagna d’armi di Tony Malaby e Jeff Davis. La pianista parte all’attacco con un movimento ritmico costante e continuo, con il pianoforte preparato che da il là a Toward No Earthly Pole, dalla Davis firmato; pian pianino libera le corde da pesi e pesetti vari, prima di aprire a un unico flusso di coscienza che si muove tra asprezze e swing seminascosto, tra sussulti rapsodici e citazioni astratte (un velo di ‘Round Midnight si lascia ascoltare tra le pieghe di Parasitic Hunter (sempre della Davis). C’è anche la sua personale dedica a Thelonious Monk con Eronel e, se fino a questo momento il suo viaggio era tra jazz e classica contemporanea, con Monk ci fa capire come sappia addomesticare anche la tradizione jazzistica e si lasci ispirare ai movimenti monkiani. Con la sua A Different Kind Of Sleeps (dal suo carniere) e Whistlings di Ingrid Laubrock torna a raccontare il suo verbo tra pause, sospensioni, silenzi acuti, brevi respiri di schizzi sinfonici, dipingendo tenebrosi ritratti.
A sera è Vinicio Capossela a farla da padrone con il suo progetto autocelebrativo Round One Thirty Five. 1990-2020 Personal Standards. Capossela ha ripercorso la sua carriera partendo dal suo primo lavoro discografico. Il tripudio di pubblico intervenuto per l’occasione parla da solo.
Stessa ora, differente luogo (palazzo del Popolo, sala 400) c’è lo scoppiettante quintetto di Javier Girotto: Legacy. Con lui Giacomo Tantillo alla tromba, Michele Fortunato al trombone, Jacopo Ferrazza al basso e contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria.
Dal giorno 30 dicembre i concerti di Dianne Reeves, Iverson e Orchestra sono stati preceduti da un fenomeno dell’intrattenimento: Jon Cleary. Originario del Kent, ha ceduto alle lusinghe di New Orleans e lì si è trasferito ed è stato accolto dalla comunità, anche dei musicisti, tanto da diventare un esperto delle radici musicali della città della Louisiana. Cleary è fenomenale. Fonde, mischia, esegue, interpreta, lo stride, rhythm and blues, blues, jazz, ragtime, boogie woogie. Da Farewell To Storyville, che Cleary padroneggia ritmicamente e melodicamente, a Oh No No No, con la quale può gigionare con il pubblico (in realtà, è una condizione necessaria questa alla sua musica). Cleary fa la storia del pianoforte, fa Jelly Roll Morton, fa il Professor Longhair. Fa divertire con il passato. E ci fa capire come il jazz e i suoi prodromici parenti, siano stati musica divertente, giovane e fresca. Il pubblico entusiasta in entrambe le date (anche quella del 31) ringrazia per un momento di assoluta gioia, basato su di una tecnica inossidabile, tagliente e uno swing autentico.
A far data dal 29 dicembre, si è esibito il duo Larry Grenadier e Rebecca Martin (palazzo del Popolo, ore 12). Chi scrive ha assistito alla performance del giorno 31. Contrabbasso da una parte, voce e chitarra dall’altra. Un duo affiatatissimo quello dei coniugi Grenadier-Martin, che hanno sancito l’accordo musicale con la stessa grazia di quello matrimoniale.
La voce di Rebecca Martin è carica di feeling, con un bel senso del ritmo, pulita, adamantina: una voce in grado di scaldare qualsiasi atmosfera. A Fine Spring Morning, che apre il concerto, contrassegna quella che sarà l’evoluzione della mattinata: il contrabbasso di Grenadier tiene banco su armonia e ritmica – in sporadici casi coadiuvato dalla chitarra della Martin -, mentre alla vocalist del Maine spetta di diritto la linea melodica, dalla stessa disegnata. La voce di Rebecca è ricca di sfumature espressive e la si ascolta sempre con piacere. E’ orientata al pop, con trame folk irlandesi d’antan. E in The Space In The Song To Think la tessitura è più completa. Il duo ha il gusto della miniatura. Lo sottolinea Grenadier quando impugna l’archetto e detta dei crescendo e delle armonie sottili e raffinate; quando dedica un blues a Oscar Pettiford. E quando il duo intona Lush Life, che mostra tutta la sua bellezza nella semplicità espressiva del camerismo del duo.
Il gospel di Vincent Bohanan e il trio di Ethan Iverson completano la rosa dei bei concerti di Umbria Jazz Winter anno 2022-2023.
A proposito: Orvieto dal 30 dicembre era sold out! E questo dovrebbe far riflettere gli amministratori e governatori della politica italiana e regionale.
Alceste Ayroldi
Le foto sono state gentilmente fornite dall’ufficio stampa di Umbria Jazz.