Francesco Diodati: essere tenaci

di Alceste Ayroldi

1163
Francesco Diodati (foto di Giacomo Citro)
Francesco Diodati (foto di Giacomo Citro)

Parliamo di molte cose col brillante chitarrista romano Francesco Diodati: dal suo nuovo album con gli Yellow Squeeds al ruolo del musicista nella società contemporanea, e soprattutto di quanta pazienza e resistenza servano per fare l’artista oggi

Francesco, è da un po’ di anni che si sente parlare di te come un «giovane leone», un «astro nascente», rising star o altro. Ti sarai un po’ scocciato di sentirlo dire, oppure non ancora?
Diciamo che in generale non credo che l’età dovrebbe essere un parametro che dia più o meno valore alla musica e all’arte. Non credo che quando vediamo o sentiamo qualcuno che ci piace la prima domanda sia: «quanti anni ha?»; comunque io la trovo senza senso.

Prima di entrare del merito del nuovo disco, ci vorresti dire com’è nata l’idea degli Yellow Squeeds e perché hai scelto questo nome?
È un nome inventato, un animale immaginario, una fantasia, un gioco. Un po’come quando guardiamo le nuvole e diamo un nome alle forme. Anche il gruppo è un assortimento non convenzionale (chitarra, tromba, batteria, tuba/trombone, piano/synth) per il quale trovare una «forma» sonora. Una sfida.

A leggere i nomi dei componenti del gruppo – tu, Francesco Lento, Enrico Zanisi, Glauco Benedetti, Enrico Morello – siete tutti giovani ma ormai nomi di rilievo del panorama musicale non solo italiano. La prima domanda è: chi aggiungeresti a questo quintetto?
Difficile a dirsi! Un contrabbasso che dialoghi con la tuba, una voce, un rapper addirittura! Ci penserò se sentirò l’esigenza di nuovi suoni, ma già così abbiamo una tavolozza ampia.

La seconda domanda, invece: è difficile essere giovani, musicisti e, per giunta, jazzisti in Italia?
Più che un jazzista mi sento un musicista contemporaneo che fa improvvisazione e ricerca. Queste pratiche richiedono tenacia, insistenza, resistenza e una buona dose di spregiudicatezza: per mantenere una coerenza, investire sulle proprie idee e crederci fino in fondo non basta essere preparati. È una ricerca interiore, una identità tutta da scoprire e difendere con i denti, perché i musicisti, come tutti gli artisti sono scomodi in quanto mettono di fronte a qualcosa di sconosciuto. È anche un percorso che prevede spesso la condivisione: si instaurano equilibri, dinamiche umane, con le quali rapportarsi continuamente, fuori dal palco, sul palco, con chi ascolta, con i collaboratori e altri artisti. Fare il musicista vuol dire guardarsi attorno, essere continuamente attivo, muoversi, cercare e incontrare, fuori o dentro se stessi. Sono presupposti imprescindibili per me. Dal punto di vista pratico è complicatissimo perché viviamo in una società sempre più settorializzata, in cui il diverso è visto con paura e timore e spesso non è solo una persona nata in un posto lontano dal nostro ma è la donna o il bambino, o semplicemente un appassionato che mette tutto se stesso in qualcosa di materialmente inutile, come la musica. Appunto, la scomodità di cui parlavo: il musicista disvela un mondo di sensibilità, di emozioni che appartiene a tutti e questo spesso genera reazioni anche violente, perché non tutti sono abituati a rapportarsi con questa dimensione, che invece è umana e universale! Trovo che la musica sia davvero una forma di resistenza. Un musicista deve avere il coraggio di fare l’inutile, saper accogliere il diverso perché la musica ci insegna che non esistono razze, non esistono categorie, non è tutto finalizzato all’utile; tutto il contrario di quello che sentiamo dire ai politici e a chi fa business, a chi ci impedisce di fare un percorso proprio, originale ed unico, ma soprattutto vivo.
Finché non iniziamo a comprendere tutto questo, nessuno capirà perché un’artista debba essere sostenuto, come in Francia per esempio, perché si penserà che percepire uno stipendio in un mese in cui non si fanno concerti sia da scansafatiche. Al contrario, è proprio tramite quello stipendio che poi in altri Paesi riescono ad approfondire pratiche nuove, compiere passi in avanti nella propria ricerca, fare il lavoro vero, del quale il «concerto» e più in generale la performance o il brano audio sono solo una piccola parte.

Yellow Squeeds, da sinistra: Francesco Diodati, Enrico Morello, Francesco Lento, Glauco Benedetti, Enrico Zanisi. (foto di Giacomo Citro)
Yellow Squeeds, da sinistra: Francesco Diodati, Enrico Morello, Francesco Lento, Glauco Benedetti, Enrico Zanisi. (foto di Giacomo Citro)

A proposito di maturità, a sentire l’album «Never The Same», sembra che l’abbiate raggiunta. Dal punto di vista compositivo, però, non lasci molto spazio ai tuoi sodali. Perché?
Siamo cambiati molto, grazie ai concerti e alle esperienze di questi anni. Non ci accontentiamo e questo porta a un continuo cambiamento, che per me è linfa vitale. Semplicemente il progetto è da me pensato e costruito, e anche se sono aperto a materiale scritto dagli altri componenti non è successo che qualcuno proponesse un proprio brano. Però, mai dire mai….

E sempre dal punto di vista compositivo ci sono diversi passaggi che fanno venire in mente l’avanguardia classica europea. Hai studiato qualche compositore o movimento dell’avanguardia?
Approfondisco molta musica diversa, questo è sicuro, e quando mi innamoro della musica di qualcuno di solito vado a ritroso e scopro il musicista d’ispirazione in una catena (quasi) senza fine. È una bellissima ricerca. Per esempio, mi è capitato di studiare Marc Ducret e arrivare a Stravinskij, per poi imbattermi in Bernstein e Bartók e nelle musiche tradizionali europee. Per non parlare dei quartetti di Ravel e Debussy, o dell’improvvisazione di Derek Bailey che apre le porte all’improvvisazione in tutte le musiche del mondo. In fondo il jazz è giá di per se influenzato da tanta musica classica e non solo, se pensiamo a quanto Bach c’è nei bopper, o che Parker ascoltava Stravinskij, o Miles che adorava Hendrix… Quando si fanno distinzioni fra jazz, rock, classica eccetera, mi sembra che si perda proprio il senso della storia della musica e quindi della musica stessa. Inoltre amo gli artisti visivi e performativi – con cui lavoro e collaboro – e approfondisco lo studio di molti grandi come Mark Rothko, Paul Klee, Fontana, lo spazialismo. Coreografe come Pina Bausch, Anne Terese De Keersmaeker. Sono appena tornato dalla mostra Closer a Firenze, una retrospettiva su Marina Abramović. Meravigliosa e ricca di spunti. A tal proposito, la copertina del disco è frutto proprio di una di queste collaborazioni: è una scultura di Alberto Timossi sulla quale ha lavorato Sara Bernabucci, facendo un lavoro di «stratificazione». La foto che ho fatto è un particolare che dà proprio il senso di questo intreccio di sensibilità artistiche.

River ma anche Irrational Numbers sono sinfoniche, dolcemente irruente. Come sono nate queste due composizioni?
River è nata a Bolzano. L’idea è quella di continui flussi di note che portano in luoghi musicali sconosciuti. Ho registrato una mia improvvisazione e, riascoltandola, mi sembrava perfetta, a parte qualche punto che poi ho modificato. Da lí sono andato avanti con il brano. Nel finale il flusso è più per sovrapposizione di suoni. Un fiume che si spande nell’oceano. Irrational Numbers è pensata come un corale a due voci e si sviluppa con l’idea che i secondi ottavi delle pulsazioni siano sempre sospesi, per collassare solo in alcuni punti. Il tutto è immerso in un’improvvisazione che diventa sempre più collettiva, fino al crescendo finale, in cui torna l’idea del corale, due strati melodici che in questo caso si intrecciano e scontrano.

Lo sai che ci sarà qualcuno che si domanderà: «Ma è jazz, questo?» Che cosa gli risponderesti?
È Francesco Diodati, che piaccia o no.

Francesco Diodati Yellow Squeeds «Never The Same»
Francesco Diodati Yellow Squeeds «Never The Same»

L’ultimo breve brano reca una citazione che ritengo eloquente: Straight No Chaser. Che importanza ha Monk nel tuo bagaglio musicale?
Enorme. In «Flow, Home» avevo arrangiato Played Twice, e in «Need Something Strong» Brilliant Corners. Ho sempre amato visceralmente Monk, fin da ragazzino, poi alla New School nel 2010 ho frequentato un corso proprio su di lui, tenuto da Ben Allison; un’occasione per andare ancora piú a fondo. E ancora oggi questa passione non cessa.
Straight No Chaser, come tutti i brani di Monk, sviluppa al massimo livello una piccola idea, una cellula melodica in questo caso. È ciò che amo di Monk, e penso sia il suo insegnamento piú grande. Inoltre è una dedica ai miei allievi del conservatorio di Monopoli, con i quali ho passato un 2018 molto bello. Volevo far capire lo scheletro del brano, e li ho fatti esercitare sugli spostamenti ritmici fino allo sfinimento. Ci siamo addirittura messi a ballare, per capire la poliritmia intrinseca del brano.

Quanto è importante per te la tradizione jazzistica?
È un pozzo pieno di bellezza, idee, stimoli e sane frustrazioni che mi fanno sentire piccolo ma allo stesso tempo con la possibilità di una ricerca infinita.

A proposito: tu e il jazz quando avete incominciato a frequentarvi?
Nella scuola popolare di musica di Villa Gordiani, una piccola scuola dove c’era parecchio jazz, grazie agli insegnanti di allora e in particolare a Roberto Spadoni, chitarrista e arrangiatore che mi ha visto curioso e ha ripagato la mia fiducia entusiasta, aprendomi le porte di una musica meravigliosa di cui lui stesso era esperto e appassionato.

Da parecchio tempo sei legato alla casa discografica Auand di Marco Valente. Qual è il quid pluris di questa etichetta?
Marco crede in quello che fa, è un altro vero appassionato e io ho sempre amato le sue produzioni. È curioso e sempre pronto a mettersi in gioco, ha un senso della collettività, segue le novità, si guarda attorno. Discutiamo, parliamo e litighiamo se necessario, ma sempre in modo costruttivo. Per me sono qualità importanti, fondamentali.

Forse è presto per dirlo, ma hai un rammarico nella tua vita artistica? Qualcosa che avresti potuto fare ma non hai fatto o di cui ti sei pentito, o viceversa?
Studierei ancora di più, con ancora più amore e libertà. All’inizio c’è un po’ di fretta nel voler arrivare e farsi conoscere, e non credo che questo faccia bene alla ricerca e allo studio, così come agli incontri artistici. Ci vuole tempo per crescere, capire, sbagliare e bisogna concederselo. Per fortuna ho ancora un po’ di tempo, e lo sfrutterò al massimo!

La collaborazione artistica che ti ha arricchito più delle altre…
Quella con Enrico Rava, un poeta della tromba, un musicista che ha vissuto un’epoca incredibilmente fertile di musica. Imparo tantissimo ogni sera sul palco da Enrico, come lui gestisce il gruppo, come insiste nel suonare certi pezzi, come scava; è sincero e spontaneo quando suona, la musica è il suo mondo e lo condivide con chi lo ascolta. Potrei suonare My Funny Valentine un miliardo di volte con lui e scoprirla sempre diversa. Da questa primavera saremo di nuovo in giro per il mondo con un gruppo speciale per festeggiare i suoi ottant’anni:sono sicuro che ci divertiremo molto e sono davvero onorato di farne parte.

Un episodio da cancellare…
Proprio da cancellare non ne ho…

Francesco, cos’altro bolle in pentola? A quali altri progetti stai lavorando?
Ci sono molti progetti belli e stimolanti all’orizzonte. C’è il mio nuovo trio Blackline, con Leila Martial e Stefano Tamborrino, per il quale scrivo musica e testi, saremo in tour a marzo in Italia e registreremo dopo l’estate.
Ho appena terminato un tour europeo con i Floors, gruppo collettivo con Francesco Ponticelli e Filippo Vignato, con i quali stiamo affrontando un organico complicato e pieno di stimoli. Stiamo rodando il repertorio nuovo con il MAT, assieme a Marcello Allulli ed Ermanno Baron, con i quali ho festeggiato dieci anni di musica insieme: non vedo l’ora di ripartire. Sto anche preparando una nuova performance con la danzatrice e coreografa Roberta Racis, il ballerino Leon Maric ed Ermanno Baron. Grazie a diverse residenze in giro per l’Italia andiamo sempre piú a fondo nell’incontro fra musica e danza. A marzo è anche uscita una produzione particolare della Tuk, un progetto commissionatomi da Paolo Fresu nel quale ho scritto musica per violoncello, pianoforte (Leila e Sara Shirvan) e percussioni (Enrico Morello). Le sorelle Shirvani vengono dal mondo classico, così ho scritto delle musiche in cui l’ improvvisazione segue parametri specifici. Ne è venuto fuori un disco molto cinematografico. Inoltre lavoreremo al nuovo disco dei Travelers di Matteo Bortone, una collaborazione che dura felicemente da più di dieci anni, e darò il mio contributo a una nuova formazione di Ada Montellanico con Michel Godard, Simone Graziano e Francesco Ponticelli. Più qualche sorpresa che bolle in pentola, ma è ancora troppo presto per parlarne…

Alceste Ayroldi

[da Musica Jazz, maggio 2019]