Paolo Fresu: «Il mio rapporto con la tromba è fisico, mi consente di esprimere ciò che ho dentro»

di Luca Conti - foto di Maki Galimberti

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Paolo Fresu

Le mille attività di Paolo Fresu hanno reso necessario fare il punto della situazione con l’instancabile trombettista, soprattutto dopo la firma di un protocollo d’intesa foriero di importanti novità.

Due sono le ragioni principali di questo colloquio. La prima è legata alla firma del protocollo d’intesa tra la Federazione Nazionale IJI e il MiBACT, avvenimento che – da qualunque parte lo si voglia guardare – segna una tappa importante sul piano del rapporto tra il jazz fatto in Italia e le istituzioni. La seconda è l’uscita di «Carpe Diem», il nuovo album del Devil Quartet che si presenta in un’insolita versione acustica.
La firma del protocollo è l’atto conclusivo di un lavoro capillare che parte da lontano. Le giornate del «Jazz italiano per L’Aquila» sono state molto importanti anche per aver segnato l’inizio di un avvicinamento tra i progetti pensati dall ministro Franceschini e le istanze portate avanti da MIdJ, I-Jazz e Casa del Jazz. Una volta individuato un terreno
comune, ci siamo mossi per arrivare, prima delle elezioni, alla firma di un protocollo d’intesa i cui contenuti sono più dettagliatamente illustrati più avanti da Ada Montellanico, Gianni Pini, Giovanni Serrazanetti, Vittorio Albani e Marco Valente, ciascuno in rappresentanza delle singole associazioni che, tutte assieme, costituiscono la Federazione IJI. Ci piacerebbe anche veder nascere un’associazione tra i critici e i cronisti musicali e ne auspichiamo la nascita. Vedremo se sarà possibile, di modo tale da aumentare la rappresentatività delle varie categorie di operatori del settore. Ovviamente per noi era importante arrivare alla firma del protocollo prima dello scioglimento delle Camere, perché avevamo a che fare con un interlocutore attento e ben disposto. Quindi abbiamo cercato di chiudere la partita, per così dire, e siamo felici di esserci riusciti. Certo, questo è solo un primo passo e c’è molto da lavorare, ma intanto ritengo importantissimo che sia stato messo nero su bianco, all’interno di un atto ufficiale dello Stato, il riconoscimento del jazz come linguaggio che fa parte della cultura del nostro Paese, con tutto ciò che ne consegue in fatto di valori sociali ma anche di imprenditorialità. Non era così, prima; qualche precedente ministro – e non faccio nomi – aveva pubblicamente sostenuto l’esatto contrario. Per quanto riguarda il disco del Devil, si tratta di un altro momento significativo perché, dopo dodici anni di esistenza, suoniamo completamente acustico e la cosa ci soddisfa non poco. Le reazioni della critica e degli ascoltatori sono molto positive e vedremo in queste serate cosa ne penserà il pubblico [stiamo parlando poche ore prima della «tre giorni» di Fresu al Blue Note di Milano, ndr]. Alla base c’era il desiderio comune di tornare alle origini, di esplorare una sonorità non contaminata, quasi ancestrale se vogliamo. Il piacere di ritrovarsi, di fare musica in una dimensione quasi conviviale, tra vecchi amici che si conoscono da sempre. E il titolo dell’album suggerisce proprio questa chiave di lettura.

Dal tuo punto di osservazione – che per tanti motivi, soprattutto per l’ampia diversificazione delle tue attività, ha un raggio particolarmente ampio – come vedi la situazione del jazz nel nostro Paese?
I problemi esistono, e sarebbe assurdo nasconderlo. La battaglia, chiamiamola così, per arrivare alla firma del protocollo è stata lanciata proprio per non far finta di niente e cercare di smuovere le acque. Non ha molto senso distribuire colpe ma credo che ciascuna delle parti in causa – dalle istituzioni ai musicisti, passando per i direttori artistici e gli organizzatori – abbia commesso diversi errori che poi, messi tutti assieme, hanno condotto a una situazione complicata. Chi può investire in cultura dovrebbe farlo; a livello istituzionale sono necessarie politiche finanziarie a sostegno dell’arte; ma è anche vero che servono le idee, sia artistiche sia di programmazione. La mia esperienza a Time in Jazz, che è iniziata nel 1988 e coinvolge una quindicina di comuni sparsi su tre province, mi dice che lavorare per un avvicinamento delle nuove generazioni al jazz può dare esiti imprevisti. A Berchidda abbiamo sempre cercato di mettere in discussione la ritualità consolidata del concerto, portando la musica in giro per i paesi e tentando di coinvolgere le realtà locali. Un rapporto stretto col territorio può consentire la nascita di alternative praticabili al modo consueto di presentare la musica. A Berchidda è l’arte a suggerire, a guidare – se vogliamo – nuovi percorsi di crescita e di sviluppo nell’ambito non soltanto culturale, ma anche sociale ed economico. Credo che far convivere le idee di oggi con i materiali del passato possa dare un importante contributo alla costruzione del nuovo.

Paolo Fresu

Parlavamo della tua attività concertistica molto intensa, alla quale si aggiungono le sedute di registrazione, che non sono certo poche. Poi c’è Time in Jazz, c’è la gestione della tua etichetta discografica, ci sono mille altre cose. Considerando che la tromba è uno strumento che non perdona, quand’è che trovi – se lo trovi – il tempo per studiare? Oppure fai come qualche tuo collega altrettanto iperattivo, che ha candidamente confessato di «studiare sul palco»?
In realtà il tempo di studiare lo trovo sempre, così come per fortuna trovo quello per fare tutto il resto. Per esempio, qualche giorno fa – ero a casa – ho potuto dedicare una mattinata intera all’ascolto della gran quantità di dischi che ricevo. Questo è un punto d’onore, l’ho già detto un sacco di altre volte e lo ripeto: cerco di ascoltare tutto quello che mi propongono, non scarto mai niente per principio. E, così facendo, ho spesso delle belle sorprese; in quella mattinata, per dire, ho scoperto un musicista a me completamente sconosciuto (e del quale non faccio ancora il nome) ma che, dopo averlo ascoltato, ho deciso di far incidere per la Tǔk. Ogni tanto mi capita, è successo anche di recente con il gruppo TriApology (Vincenzo Saetta, Michele Penta ed Ernesto Bolognini), che ho deciso di produrre dopo aver ascoltato un demo. A TriApology tengo molto. È un gruppo campano di grande originalità, che con una formazione insolita – sax alto, chitarra e batteria, più elettronica – offre singolari interpretazioni di brani di Hendrix, David Bowie, Nirvana, Coldplay, tutte con un approccio fortemente jazzistico.

Ma – e scusa se insisto – qual è il tuo rapporto con gli strumenti che suoni, ovvero la tromba e il flicorno?
Non sono un adoratore dello strumento in quanto tale. Per me la tromba è un mezzo; l’obiettivo è la musica, non certo la tecnica. Anzi, per la verità spesso mi sento a disagio
davanti a certi colleghi che sanno tutto di tecnica, di strumenti, di modelli, di bocchini, di numeri di serie eccetera. A volte mi sembra che parlino una lingua sconosciuta… Non sono un feticista né della tecnica né dello strumento in quanto tale. La tromba mi consente di fare la musica che voglio fare, di esprimere ciò che ho dentro. Il mio rapporto con la tromba è fisico, è la vibrazione delle labbra, è il passaggio dell’aria, è il desiderio di esprimere il senso di umanità che a mio avviso questo strumento ha in sé.

In trentacinque anni di carriera, cosa vedi di cambiato nel mondo del jazz italiano rispetto a quando hai iniziato tu?
È cambiato tutto, a cominciare dal fatto che trentacinque anni fa a suonare la tromba eravamo in pochi – parlo dei miei coetanei: Flavio Boltro, Marco Tamburini, per esempio – e quindi era più facile farsi conoscere, avere l’occasione di essere chiamati dai musicisti della generazione precedente. Quando sono andato a studiare per la prima volta ai seminari di Siena, del jazz sapevo poco o niente, e qualche anno dopo mi sono trovato a insegnare proprio negli stessi corsi che avevo frequentato, non molto tempo prima, come allievo. Adesso la diffusione del jazz e il suo insegnamento sono mille volte più capillari, la preparazione teorica e tecnica dei ragazzi di oggi è mille volte più accurata di quella che potevamo avere noi all’inizio. Il livello medio è molto alto. Poi, ovvio, entra in gioco la creatività personale, ma questo è un altro discorso.

Paolo Fresu

Qualche parola sulla tua etichetta, la Tǔk, e sulle iniziative, non solo discografiche, che riuscite a intraprendere.
Tǔk pubblica musica che mi piace fatta da artisti che mi piacciono, e poco m’importa che siano famosi o sconosciuti. La vedo come una grande famiglia, per tornare all’aspetto «conviviale» di fare musica assieme del quale parlavamo a proposito del Devil Quartet, e proprio con questo obiettivo cerco di organizzare dei «Tour Tuk«, piccoli festival che presentano gruppi che incidono per l’etichetta. Ne abbiamo uno in corso alla Cantina Bentivoglio di Bologna, aperto nei giorni scorsi da un concerto del Devil, al quale seguiranno con scadenza settimanale il quartetto di Dino Rubino, il progetto del batterista del Devil, di Stefano Bagnoli – del quale è appena uscito «Rimbaud», realizzato in completa solitudine – il quartetto di Francesco Ponticelli e il gruppo TriApology cui accennavo prima.

Chiudiamo con un altro aspetto importante della tua attività, quello didattico. Prima accennavi alla tua esperienza di insegnante a Siena. Da qualche tempo sei coinvolto a Bologna nel progetto «Nidi di note» e, a Ravenna, in «Pazzi di jazz». Vuoi spiegare ai lettori di cosa si tratta?
«Nidi di note» è nato nel 2010 da un’idea di mia moglie Sonia Peana, violinista del quartetto Alborada, e si propone di avvicinare alla musica i bambini in tenera età, a partire dai nidi per arrivare alle scuole primarie. È un progetto che ha avuto un notevole riscontro e che si diversifica in una serie di laboratori riservati ai bambini e in una specifica attività di formazione, non solo per gli insegnanti ma anche per i genitori. «Pazzi di jazz», ormai arrivato alla quinta edizione, porta il jazz direttamente nelle scuole con una serie di incontri e laboratori. Quest’anno il tema è George Gershwin, sulla cui musica sarà basato l’evento finale del 7 maggio, che Sandra Costantini ha voluto inserire nel cartellone di Ravenna Jazz. Con me, a lavorare attivamente al progetto da un punto di vista musicale, ci sono da sempre Tommaso Vittorini e Ambrogio Sparagna. Per la mia parte, tengo assieme a Francesco Martinelli una serie di lezioni-concerto che riscuotono ogni anno un successo incredibile. L’idea è quella di formare il pubblico di domani, ma ci siamo accorti con stupore che è un pubblico che potenzialmente esiste già oggi!

Luca Conti

(Estratto dall’intervista pubblicata sul numero di aprile 2018 di Musica Jazz)