Jimi Hendrix: quel che resta di Jimi

di Riccardo Bertoncelli

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Jimi Hendrix sul palco a Sacramento (California), il 15 settembre 1968.
Jimi Hendrix sul palco a Sacramento (California), il 15 settembre 1968. (Photo by Larry Hulst/Michael Ochs Archives/Getty Images)

Sembra incredibile ma filtra ancora qualcosa dagli archivi di uno dei più grandi chitarristi del Novecento: pietruzze sonore che raccontano una storia di luci e ombre.

Il collezionista hendrixiano che il 18 settembre 1970, giorno della morte di Jimi, avesse fatto il conto degli oggetti discografici in suo possesso, si sarebbe sbrigato in fretta. Quattro lp ufficiali, una manciata di 45 giri, alcune antologie con pasticci giovanili e qualche bootleg di quelli originali, etichetta bianca e copertina spesso anche, con note magari sgorbiate a penna. Oggi quel collezionista per conservare tutto Hendrix dovrebbe affittare un bilocale, ammesso che un «tutto» in questa storia esista. Ancora non se ne vede la fine. Ogni anno o anche meno filtra qualcosa dal quartier generale degli eredi, dove la (non) sorella Janie tiene saldamente le fila dopo avere sbaragliato a colpi d’avvocati il fratello (vero, di sangue) e altri parenti interessati al gruzzolo dell’Astro Man. Janie non è un mostro di simpatia ma ci sa fare, e da anni si è coperta le spalle con un duo di studiosi che va a meraviglia: Eddie Kramer, il tecnico del suono che seguì Jimi e gli Experience fin dalle primissime sedute agli Olympic Studios, e John McDermott, un giornalista americano che ha avuto libero accesso agli archivi e negli anni è diventato il massino conoscitore del patrimonio hendrixiano. Kramer e McDermott hanno restaurato e sistemato il catalogo, che peraltro rimane disordinatissimo, aggiungendo qualcosa: bucce, avanzi, minuscole pepite in qualche modo interessanti. Nel 2010 hanno presentato un primo raccolto con l’antologia di «Valleys Of Neptune» promettendo una trilogia; che, dopo il «People, Hell & Angels» del 2013, trova compimento in queste settimane con «Both Sides Of The Sky».

Non mi azzarderei a raccomandare questi dischi a un profano. Gli consiglierei piuttosto di tornare a quella mattina di settembre del 1970 e studiare i pochi album che Jimi aveva ufficialmente voluto, definito, anche sofferto; se «Are You Experienced?» e «Axis: Bold As Love» gli erano parsi all’altezza delle sue immense fantasie, «Electric Ladyland» aveva assunto nei mesi i contorni dell’ossessione e della delusione, e il disco con la Band Of Gypsys anche meno – meno perfino di un miraggio. Tutto quello che è venuto dopo è diverso, e serve più agli studiosi, agli storici, ai curiosi, per cercare di capire la disgraziata vita di Jimi e le sue smanie di musica, e l’esasperato perfezionismo regolarmente frustrato che lo portava a fare e rifare, e rifare, e rifare, in un vortice che in breve diventava incubo – una room full of mirrors, per ricordare una sua canzone famosa, dove alla fine nessuno è più in grado di cogliere la differenza tra l’immagine reale e gli infiniti riflessi. Sotto questo profilo, «Both Sides Of The Sky» è una antologia esemplare. Non fornisce la mappa del labirinto, nessuno l’ha mai trovata, però dà indicazioni preziose. Sono fondamentalmente gli ultimi due anni di vita, 1969-70, il dopo «Electric Ladyland».

Quel disco ha sfinito Jimi, figuriamoci gli altri, che si sentono marionette nelle mani di un solitario profeta che parla per enigmi. Anche per quello la Experience si sgretola e una delle ultime volte che fa sentire la propria voce è ad aprile 1969, quando Hendrix, Redding e Mitchell ri-ri-riprovano uno dei tanti tormentati blues che Jimi non dichiarerà mai finiti – Hear My Train A-Comin’. È l’unico documento del glorioso trio che «Both Sides Of The Sky» riporta. Tutto il resto sono prove, sogni, dubbi, di un artista che vagheggia una formidabile «sky music», che sinesteticamente vede i suoni a colori e pure non sa dare forma a quelle fantasie, e se ne dispera. A Woodstock, in estate, presenta un sestetto che chiama Gypsy, Sun & Rainbows, aggiungendo una chitarra acustica e due percussioni; ma è un piccolo disastro e la prima volta sarà anche l’ultima. Non molto meglio andrà il progetto successivo, Band Of Gypsys, un trio all black che catapulta Hendrix dal profondo dei cieli alla nuda terra dell’America di fine Sessanta – Vietnam, Black Power, i ghetti in fiamme.

Jimi Hendrix, 1968
Jimi Hendrix, 1968

Both Sides Of The Sky è prodigo di nastri di quel trio, che finirà presto e ingloriosamente. Eppure non sono quelli i momenti più interessanti dell’antologia. Meglio certe prove casuali che nascono dalla incredibile disponibilità di Hendrix a suonare con chiunque, a ogni ora del giorno e della notte. Il 22 aprile 1969 è ai Record Plant con Buddy Miles e un bassista che non è più Redding, non è ancora Billy Cox ma la meteora Billy Rich. Provano Mannish Boy, il classico di Muddy Waters, e ne viene una bella versione grintosa che qui ascoltiamo in un missaggio inedito, anche se gli approcci di Jimi al pezzo li conoscevamo già. Ogni tanto Hendrix cade in depressione e giura di avere la mente prosciugata, senza più lo straccio di un’idea nuova. Allora i vecchi blues gli vengono in soccorso, lo confortano, sono il corrimano per le sue dita inquiete. Accade anche con Things I Used To Do, un vecchio numero di Guitar Slim che una notte di maggio 1969 Jimi disegna con Johnny Winter. I due si sono appena incontrati allo Scene, un locale dove Hendrix è di casa, e la tappa successiva è naturalmente lo studio, con quanti ci stanno a fare corona. In questo caso Billy Cox suona il basso e Dallas Taylor la batteria. In studio c’è anche Stephen Stills, che però sta fuori dal pezzo.

Ecco, Stephen Stills, è lui la star di «Both Sides Of The Sky», per via di un paio di brani che sono le pepite più luccicanti della setacciata negli archivi. Da anni si parla di un certo numero di nastri insieme a Jimi che addirittura potrebbero comporre un intero album. Dicono che si ascolti molto Stills e poco Hendrix ma chissà se è vero, e può anche darsi che tutto ciò che esiste sia questo paio di nastrini dell’autunno 1969: una Twenty Dollars Fine con Jimi, Stills organo e voce, Mitch Mitchell alla batteria e il pianista dei Buddy Miles Express, Duane Hitchings, e un abbozzo di Woodstock, il peana di Joni Mitchell per il meraviglioso festival cui non aveva partecipato (cui si era proprio rifiutata di partecipare, per dire le cose come stanno). Una minuscola pietruzza, però d’oro, se è vero che solo l’autrice in quel periodo aveva in repertorio la canzone, presentata come fresca novità al festival di Big Sur a metà settembre. La versione di Crosby, Stills & Nash verrà registrata di lì a poco e arriverà al pubblico solo nella primavera 1970, insieme a quella di Joni su «Ladies Of The Canyon».

I due brani Hendrix/Stills non si erano mai ascoltati prima, mentre gran parte del repertorio di «Both Sides Of The Sky» è fatto di riscritture, prove, ripensamenti – la fatica infinita di Jimi Sisifo. Lover Man la conoscevamo già, e così Power Of Soul, e Stepping Stone, sia con quel nome sia con un altro working title, I’m A Man; e ancora Cherokee Mist, emozionato omaggio di Jimi alle sue radici nativo-americane, che qui ascoltiamo in una particolare versione con sitar. Ma c’è un’ultima storia da raccontare, ed è quella di Georgia Blues, un brano che non è quello che Cecil Barfield ha consegnato alla storia della musica nera ma qualcosa di più semplice e easy composto con lo stesso titolo dal sassofonista Lonnie Youngblood, georgiano di Augusta.

Qui si entra in un territorio minato, quello di Jimmy James, come Hendrix si faceva chiamare prima del successo. In quegli anni di straziante bohème, quando non aveva letteralmente un dollaro in tasca e nessuno lo voleva, Jimi/ Jimmy saltava su qualunque carro musicale lo portasse su un palco o in unostudio. Capitò anche con Youngblood, all’anagrafe Lonnie Thomas, un onesto routinier che suonava r&b di seconda fascia cercando di emulare il maestro King Curtis. Jimi accompagnò Youngblood in un paio di dimenticatissimi singoli del 1966, un attimo prima di essere scelto dagli dèi del rock e di volare via da quell’inferno quotidiano. Tre anni più tardi Hendrix ritrovò casualmente l’amico in un locale e, per pura riconoscenza, lo invitò in studio a suonare qualcosa, così, senza impegno. I nastri finirono in un cantuccio degli sterminati archivi e riposarono in pace per una trentina d’anni, fino a quando una Georgia Blues da quella seduta arrivò chissà come a Martin Scorsese, che stava preparando i film e dischi della serie Blues. Nessuno aveva avvisato Youngblood della riscoperta e questo portò a una causa del vecchio sassofonista nei confronti della Jimi Hendrix Estate. Rapido litigio con bombardamenti tra avvocati ed ecco qui, possiamo immaginare, il risarcimento, con il pezzo ufficialmente accreditato a Youngblood e messo in evidenza come nessuno probabilmente immaginava la sera in cui fu registrato.

Gli eredi Hendrix amano le storie a lieto fine, lo scorso anno lo avevano già dimostrato chiudendo un contenzioso decennale con l’osso più duro di tutti, Ed Chalpin, proprietario dei nastri incautamente registrati da Jimi con Curtis Knight. Ora, se vogliono continuare nella tradizione, seguano il mio consiglio: vadano da John McLaughlin e lo convincano a liberare i nastri della storica jam con Jimi, Buddy Miles e Dave Holland che gli annali riportano alla data del 25 marzo 1969. È forse l’ultimo segreto rimasto nel profondo degli archivi che valga la pena di svelare, trenta minuti che andrebbero religiosamente ascoltati come si deve prima di congedare per sempre Jimi e dichiarare davvero finita la sua opera.

Riccardo Bertoncelli