Eric Wyatt: io con zio Sonny e zio Wilburn

Una delle più interessanti e giovani voci del sax tenore contemporaneo, Eric Wyatt, ha la fortuna di aver potuto conoscere e frequentare, fin da bambino, maestri come Sonny Rollins e Wilbur Ware, entrambi amici di famiglia

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eric wyatt
Eric Wyatt

Vi presentiamo un musicista che conosce a menadito la tradizione e allo stesso tempo si preoccupa di non sedersi sugli allori cercando di esplorare e andare avanti. È un sassofonista che racchiude, nel proprio modo di suonare, tutto ciò che è successo fino a oggi nella musica afro-americana, oltre a essere testimonianza vivente dell’ottimo stato di salute di cui gode il jazz all’inizio di questo millennio. Eric Wyatt suona il sax tenore (come suo padre Charles) ed è una miscela molto ben riuscita della tecnica sopraffina di Bird, degli sheets of sound di Coltrane e del linguaggio tagliente e rabbioso di Sonny Rollins, che ne è il padrino di battesimo.

Nato e cresciuto a Brooklyn, è oggi uno dei sassofonisti più richiesti nella Grande Mela. Il suo assolo su Solid (il famoso brano di Rollins), contenuto in un album del tastierista Greg Murphy intitolato «Summer Breeze», ha avuto una nomination al Grammy nella categoria «Miglior assolo improvvisato». Di recente Wyatt ha ottenuto un premio di grande prestigio come il Black History Event, assieme a Randy Weston. Il suo ultimo album (ma un altro è in uscita in questi giorni) è stato considerato uno dei migliori dischi di jazz del 2014. Si intitola «Borough Of Kings» ed è stato inciso per la Posi-Tone insieme ad Ameen Saleem, Benito Gonzalez e Clifton Anderson (il nipote di Rollins) tra gli altri: sono alcuni dei jazzisti di alto livello che animano la scena statunitense in questo momento.

Ho ascoltato la tua musica e ho trovato il tuo modo di suonare pieno di energia. Molto eccitante. Parlami delle tue principali influenze…
Innanzitutto mio padre. Mi manca tantissimo. È stato lui a volere con forza che imparassi a suonare. Ogni giorno ci faceva leggere la musica e imparare le scale prima di mandarci ai giardinetti a giocare a baseball. È stato in assoluto la mia principale influenza. Non aveva fratelli, però compensava con un sacco di amici che frequentavano assiduamente la nostra casa e che considerava la sua famiglia. Ricordo un signore che veniva a trovarci in continuazione. Mio padre lo considerava un fratello e noi, di conseguenza, uno zio. Quel signore era Sonny Rollins. E un altro che ogni volta ci regalava un cesto di ciliegie. Sapeva che ne eravamo ghiotti e trattavamo anche lui come se fosse uno zio. Mio padre ci portava in continuazione a sentirlo suonare. Quando sono diventato più grande mi sono reso conto che quel signore era quello che suonava il contrabbasso con Thelonious Monk. Wilbur Ware! Non l’ho mai dimenticato. Ricordo una volta, erano le tre del mattino: avevamo una casa con due stanze da letto, una per le mie sorelle mentre io dormivo con mio fratello. Quella volta mio padre mi impose di andare a dormire con le mie sorelle perché nel mio letto avrebbe dovuto dormire zio Wilbur. Mio padre conosceva anche Miles Davis: una volta mi portò a vedere un suo concerto e me lo presentò, mi ricordo la sua voce roca che mi chiedeva se mi piacesse il jazz. Era proprio lui, Miles Davis, quello che suonava dando le spalle al pubblico. È da lì che parte la mia ispirazione, dal mio ambiente familiare, dagli amici di mio padre. In casa si respiravano quell’atmosfera, quell’energia che mi hanno spinto a trovare la motivazione per imparare a suonare. Ma non mi è stato regalato niente. Ho dovuto lavorare sodo, il jazz non è musica che si suona per gioco. È una cosa molto seria.

Eric Wyatt con Sonny Rollins, suo padrino di battesimo
Eric Wyatt con Sonny Rollins, suo padrino di battesimo

Dove vivi?
Brooklyn, New York. Ci sono nato e cresciuto. E non mi sono mai spostato da lì. The borough of kings.

Parlami della scena di New York. La Big Apple è considerata la mecca del jazz. Ci sono stato per un po’ di tempo e mi è sembrato di notare che da quelle parti la sopravvivenza per voi musicisti di jazz è veramente molto difficile. C’è un luogo comune che dice che solitamente si suona per pochi dollari a New York per poi venire a fare i soldi veri in Europa. È vero?
È verissimo. Però perché tu possa comprendere devo iniziare un po’ da lontano. Vedi il jazz a New York è iniziato ad Harlem: c’era questa piccola comunità di musicisti, erano tutti ragazzi neri di Harlem, tutti amici tra di loro che suonavano per la propria comunità: Miles Davis, Sonny Rollins, Charlie Parker. Ad un certo punto i ragazzi di Broadway, per lo più bianchi, hanno cominciato a frequentare uptown, il motivo principale era che volevano bere e divertirsi nei bar dei quartieri neri sino a notte tarda. È in questo modo che il jazz si è sviluppato a New York. Poi quei ragazzi hanno capito che gli piaceva la musica che veniva suonata in quei posti, ma non era questo il motivo principale per cui frequentavano quel quartiere. Mio padre faceva parte di quella scena e io ne ho un ricordo vago per alcune cose, nitido per altre. Ricordo però che mi piaceva perché erano tutti estremamente gentili e disponibili. Mio padre mi diceva in continuazione: «Se vai da qualche parte in cui si fa musica, porta sempre con te il tuo strumento. Non ti preoccupare di chi sta suonando in quel momento. Potrebbe sempre chiederti di salire sul palco e suonare con lui, e tu se non hai con te lo strumento potresti perdere un’occasione». Non ho mai dimenticato quelle parole. Mi sono sempre comportato in quella maniera e, quando anch’io ho iniziato a suonare professionalmente, ho sempre invitato i giovani musicisti a dividere il palco con me. Non ho mai negato a nessuno un’occasione, potevano essere dei bravi o dei cattivi musicisti ma davo loro comunque una possibilità. Perché così si sono comportati con me tutti i grandi musicisti che mi invitavano a salire sul palco con loro quando ero giovanissimo. A quei tempi nei club si respirava quel tipo di atmosfera. Erano tutti bravi, umili e disponibili: ricordo Junior Cook, un grandissimo sassofonista, che mi invitò a suonare con lui. Oggi tutto questo si è perso. La scena attuale è piena di studenti dei college che studiano jazz. Per lo più sono musicisti che non sono immersi nella tradizione, imparano qualche standard e lo suonano con qualche compagno di classe in qualche club. Suonano per pochissimi soldi, e i posti dove suonare si sono ridotti di molto. Ora il fatto che tu sappia suonare un blues non ti rende un musicista di jazz e non mi sembra che ci sia molta voglia di fare la gavetta necessaria per diventarlo a tutti gli effetti. Questo è il motivo principale per cui la scena odierna è annacquata. Non ci sono più i musicisti di una volta, Sonny Rollins, Charlie Parker, Dexter Gordon, Jimmy Heath, Jackie McLean, Monk, tutti personaggi di enorme spessore che alle jam session si divertivano e facevano divertire il pubblico. Oggi non c’è più lo stesso livello di partecipazione; di recente, a una mia serata, erano tutti quanti seduti. Incredibile. Questa musica sta cambiando, giorno per giorno. Anche se sono convinto che il jazz non morirà mai, ci sono troppe persone che lo vogliono suonare ed altrettante che lo vogliono ascoltare. E sono le jam la prova del nove: se vuoi diventare un musicista di jazz devi partecipare alle jam e far vedere quello che sai fare. Le jam sono il ring e tu sei un pugile: se sei capace di farti notare, bene, se no devi tornare a casa a studiare gli accordi, a perfezionare la melodia. Solo così potrai crearti un’altra occasione. Da questo punto di vista a New York l’unico posto è lo Smalls, l’unico che ti dà un’idea di come dovrebbe svilupparsi una scena.

E il Fat Cat o lo Zinc Bar?
Scusa, li avevo scordati. So che l’ambiente lo conosci bene…

Qualcuno sostiene, specialmente in Europa, che nel jazz non accada più niente di nuovo. Cosa ne pensi?
Non condivido affatto questo pensiero. Il jazz è musica che viene creata nello stesso momento in cui la suoni, quindi è musica sempre nuova. Vorrei sapere cos’è il nuovo per questa gente e in cosa si contrappone al vecchio. Di recente ho composto nuova musica e sto per uscire sul mercato con un altro disco. Queste per me sono novità. Conosco un sacco di musicisti nuovi, cui l’industria musicale non fornisce il supporto adeguato ma che hanno un sacco di idee. Spesso sono molto giovani…

Eric Wyatt con jack DeJohnette e Al Foster
Eric Wyatt con jack DeJohnette e Al Foster

Tre nomi: Martin Luther King, Malcolm X, Barack Obama. Chi dei tre secondo te ha lavorato meglio per gli afroamericani?
Martin Luther King. Io vivo seguendo il suo insegnamento. Non giudico mai nessuno sulla base del colore della pelle o della razza. Sono andato a scuola con ragazzi bianchi, ho amici italiani, tedeschi, ebrei. Lo stesso mio padre e i miei familiari: mia sorella è sposata con un ebreo, mio fratello con una ragazza bianca ed è questo il contesto dal quale provengo. Capisco il pensiero di Malcolm X e la sua volontà di reagire ad una condizione di sottomissione ma non condivido la sua evoluzione religiosa. Obama ha lavorato in una condizione difficile perché a molta gente non piaceva che l’America avesse un presidente nero: lui sa parlare, è colto, istruito, ha una famiglia fantastica. Ma a molta gente tutto questo non piace. È lo stesso motivo per cui il jazz non ha ancora il suo giusto riconoscimento, perché rappresenta la parte più intellettuale della gente di colore e questo non va bene. Questa gente vuole vedere un nero che corre su un campo di basket, che salta e mette la palla nel canestro, per poi restarne meravigliata. Ma è sempre qualcosa che ha a che fare con l’intrattenimento più becero. Non concepiscono che i neri abbiano una cultura, delle tradizioni, uno spessore. Ma se devo essere sincero, per rispondere alla tua domanda, tutti questi personaggi sono stati grandi uomini, ognuno importante a suo modo per il mio popolo.

E tu alle ultime elezioni per chi hai parteggiato? Per Donald Trump o per Hillary Clinton?
Nel bene e nel male i Clinton hanno dimostrato umanità e rispetto per la mia gente. Ho conosciuto Bill che, come sai, suona il sax e ama il jazz. So che Hillary ha molti problemi, ma Donald Trump è un pazzo cui non interessa nessuna forma di arte a meno che non gli dia un ritorno personale. Non si può riporre fiducia in un tipo simile.

Le tue speranze e le tue delusioni…
La mia unica grande delusione è che mio padre non ha potuto assistere a quello che mi sta accadendo come musicista. I giornali iniziano a parlare di me e sono spesso in giro a suonare. Tutto questo lo devo a lui e ai suoi insegnamenti. Sai, io vengo da un quartiere poverissimo e per lui sarebbe stata una grande soddisfazione come del resto lo è per il resto della mia famiglia: mio fratello e mia sorella sono orgogliosi di me. La mia speranza più grande è di continuare a stare bene in salute per continuare a suonare grande musica. Una un po’ più piccola è che mi piacerebbe venire a suonare in Italia. Amo il vostro cibo, la vostra gente, trovo che i nostri popoli abbiano molte cose in comune, ma non sono mai stato in Italia. Sonny Rollins mi ha decantato le vostre doti e mi ha detto che anche lui vorrebbe tornare a suonare da voi.

Cosa pensi dell’idea di cambiare la definizione della musica afroamericana? Non più jazz ma BAM (Black American Music). Come certamente sai Nicholas Payton suggerisce di utilizzare questo acronimo perché il termine «jazz» è sempre stato ritenuto offensivo dai neri…
In effetti era un termine offensivo, almeno all’inizio. Poi non è diventato altro che un’etichetta, alla stregua dell’hip-hop, del r&b o del blues. A pensarci bene, BAM rappresenta la sintesi di tutto questo. Però ricordo di aver chiesto a Sonny Rollins se nella sua vita avesse conosciuto dei musicisti bianchi che sapessero suonare la nostra musica. Lui mi ha detto che ne ha conosciuti tanti e mi ha fatto il nome di uno che lo aveva impressionato, Pepper Adams. Anche Miles Davis, un altro che ho rispettato moltissimo, lo stimava. Ho suonato con Nicholas Payton: è un grande musicista con una bella testa, ma che senso ha cercare di cambiare una parola che definisce una tradizione, che è stata usata per così tanti anni. Ci sono troppe persone e troppe istituzioni, che hanno investito sulla parola jazz e non cambieranno le loro sedi o i loro documenti per sostituire il termine jazz con BAM. Certo, questa musica è stata inventata dagli afroamericani ma non credo che la battaglia di Nicholas abbia gambe solide. La sua idea è suggestiva (ne ho parlato anche con Sonny, cui piace molto Nicholas Payton come musicista e mi ha confessato che questa teoria non è completamente campata in aria) però non è realistica. Nick sta combattendo una battaglia persa in partenza, contro un gigante, contro King Kong o Mike Tyson, ma non ha gli strumenti, non può farcela. Anche se io rispetto il suo punto di vista, che ovviamente lui ha tutto il diritto di esprimere.

Eric Wyatt con Jimmy Heath
Eric Wyatt con Jimmy Heath

C’è un progetto importante in vista?
Il disco in uscita, registrato con un mio grande amico. È il trombettista che ha suonato nella colonna sonora del film di Don Cheadle su Miles e si chiama Keyon Harrold, lo conosco da quando aveva diciannove anni. Siamo così intimi che ha suonato al funerale di mia madre. Gli altri sono Benito Gonzalez al pianoforte, al basso c’è Eric Wheeler, che abitualmente suona con Theo Croker, e alla batteria ho ancora Shinnosuke Takahashi e Kyle Poole, come in «Borough Of Kings». In questo disco mi cimento anche come cantante. È una cosa che non avevo mai fatto prima: in una versione di My Favorite Things che è venuta particolarmente bene e poi faccio un duetto con una cantante molto brava che si chiama Andrea Miller. È venuta fuori una cosa molto speciale: l’ho fatta sentire a Sonny, che mi ha fatto i suoi complimenti. Secondo lui dovrei cantare più spesso.

Siamo all’ultima domanda. Ancora tre nomi: Sonny Rollins, John Coltrane, Dexter Gordon. Chi dei tre ti ha influenzato maggiormente?
Questa è veramente cattiva! Sonny Rollins è il mio padrino. Stava sempre a casa mia, era intimo amico di mio padre. Per cui, innanzitutto, dovrei dire Sonny. Però come fa un sassofonista che suona il tenore oggi ad affermare di non essere stato influenzato da John Coltrane? Il suo Bessie’s Blues è stato uno dei primi pezzi che mio padre mi ha fatto studiare. Avevo tredici anni «Crescent» girava in continuazione sul giradischi di casa. Mio padre, poi, possedeva tutti i dischi di Dexter Gordon, un altro che mi ha influenzato molto. Ma potrei farti ancora tanti nomi: Freddie Hubbard, George Braith e così via.

Nicola Gaeta

Foto di Salvatore Corso

In questi giorni abbiamo ricevuto direttamente da Eric Wyatt e in esclusiva questo video di presentazione del suo nuovo album in uscita a fine ottobre!
«Look To The Sky»: Eric Wyatt – saxophone Benito Gonzalez – piano Eric Wheeler – bass Keyon Harrold – trumpet Shinnosuke Takahashi – drums Kyle Poole – drums Andrea Miller- vocals

Buona visione!