«Far Away». Intervista a Emanuele Cisi

Il sassofonista torinese ci parla del suo ultimo lavoro discografico.

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Foto di Roberto Cifarelli

Emanuele, ci vorresti parlare della genesi di «Far Away»?
L’idea è nata in pieno lockdown, durante la pandemia. La Warner mi chiese di pensare ad un mio secondo disco, dopo “No Eyes”, e io avevo iniziato ad organizzare una registrazione a New York con i musicisti con cui ho suonato molto spesso nei miei frequenti soggiorni newyorkesi degli ultimi anni. Poi si fermò tutto e mi ritrovai come tutti, paralizzato e dubbioso sul da farsi. Andare in uno studio e registrare un disco “normale”, visto il folle momento che stavamo vivendo, mi sembrava inutile e anche un po’ inappropriato. Continuava a girarmi nella mente la parola “distanza”, declinata poi in “distanziamento”. Improvvisamente acquistava una accezione positiva, si era bravi e virtuosi se si stava distanti, guai ad avvicinarsi gli uni agli altri.  Ho così deciso che se volevo esprimere con la mia musica quell’inedito e assurdo momento storico volevo andare a farlo il più lontano possibile. E simbolicamente, uno dei luoghi dove ci si sente più lontani è il mare. Ho immaginato di registrare un disco su di una barca a vela, una idea forse un po’ folle, ma sono riuscito a realizzarla, con l’aiuto prezioso della Warner e in particolare del mio produttore, Patrizio Romano, che ha creduto da subito in questo progetto. Anzi fu lui a pensare che una cosa simile doveva anche essere raccontata in immagini, ed infatti è stato realizzato anche un cortometraggio che racconta l’avventura di tutta la registrazione. A causa del meteo pessimo non si è potuto registrare l’intero album in navigazione, ma una buona parte si, ed è stato davvero emozionante. E incredibilmente siamo anche riusciti a superare le evidenti problematiche tecniche che una impresa del genere pone.

Come è nato il sodalizio con Filippo Timi e perché hai voluto cooptarlo in questo tuo progetto?
Mano a mano che il progetto si delineava nella mia mente, capii che volevo una quinta voce. Pensai inizialmente ad un altro strumento, ma poi decisi che ciò che volevo era una anima narrante, che esprimesse in parole quello che la musica raccontava. Sono entrato fortuitamente in contatto con Filippo, ed è stato amore a prima vista. Lui si è immediatamente entusiasmato all’idea e dopo alcune chiacchierate si è messo a scrivere i testi che sentite nell’album. Ci siamo chiesti cosa sia realmente la distanza, e quanti risvolti e significati possa assumere nelle nostre vite, a tutti i livelli: fisico, spirituale, intellettuale. La sua voce per me era perfetta per integrarsi al nostro sound, in particolare al suono del mio sax tenore. Quando riascolto a volte ho l’impressione che i nostri due suoni si intersechino e dialoghino come fossero due strumenti musicali. E poi la personalità e il talento eccezionale di Filippo hanno fatto il resto.

Emanuele Cisi e Filippo Timi

Oltre a te e Filippo Timi ci sono anche tre musicisti. Vorresti parlarci di loro?
Ovviamente ho dovuto pensare ad una “line-up” che potesse suonare e stare fisicamente su una barca a vela; pur trattandosi di un 15 metri, chi è salito su una barca sa di cosa parlo. Lo spazio gestibile è molto risicato. Ho dunque pensato ad Eleonora Strino, meravigliosa chitarrista, con cui collaboro spesso recentemente. La sua cultura jazzistica e la sua spontaneità mi hanno colpito da subito. Marco Micheli è uno dei bassisti con cui adoro suonare da sempre, ci conosciamo da quando eravamo ragazzi, lui fece parte del mio primo quartetto con cui registrai i primi dischi a mio nome, tanti anni fa. Siamo autentici fratelli di musica e vita. Siccome è anche un fantastico bassista elettrico, l’ho preso a bordo senza indugi. Enzo Zirilli era il batterista perfetto, il suo approccio creativo, anche sulle percussioni, era ciò di cui avevo bisogno per il repertorio che stavo assemblando, anche in virtù del set “minimale” di batteria che si poteva imbarcare. E anche con lui il rapporto musicale e umano risale ai primi anni Ottanta.

Testi recitati in italiano che fanno da sfondo a jazz d’antan, come in Perla nera, ma anche in Sailing. Poi, si contrappongono alla voce di Eleonora Strino in You’ve Got A Friend. Insomma, tanta roba: non si rischia di fare confusione?
Tutto il repertorio è stato pensato con il filo comune della distanza, come ho spiegato. Sia i brani originali che ho scritto appositamente, sia le composizioni che ho incluso e che hanno le più svariate provenienze. Da «The Light At The Edge Of The World», che era la splendida colonna sonora di Piero Piccioni dell’omonimo film degli anni Settanta, tratto da un romanzo di Verne che narra di un faro in capo al mondo, a The Man That Got Away, una song resa celebre da Judy Garland che parla dell’abbandono fisico in modo piuttosto tragico ma che ho deciso di reinventare stilisticamente e su cui Filippo recita un testo ironico e dissacrante. I testi e la musica sono strettamente connessi, noi non facciamo “background music” dietro ad un attore, ma suoniamo con lui e lui improvvisa con noi. You’ve Got A Friend l’ho scelta perché, oltre ad essere una canzone meravigliosa, è il più bell’inno in musica all’ amicizia. Durante i lockdown non poter vedere e frequentare i miei amici mi ha molto intristito.

Perché hai scelto Sailing come singolo?
Sailing, oltre ad essere una ballad che mi ha sempre emozionato sin dalla mia adolescenza, è il manifesto perfetto di questo progetto. Il suo testo (la nostra versione è strumentale) originale, pur se un po’ kitsch, esprime perfettamente ciò che significa andarsene lontano, navigando a vela in libertà nel mare immenso. Le visioni poetiche di Timi hanno aderito in modo naturale alla musica. Devo dire che quando la abbiamo registrata in mare aperto, veleggiando dentro ad un tramonto da cartolina, ci siamo davvero tutti sentiti dentro ad un sogno.

Emanuele, sembra che l’obiettivo di questo disco sia diverso rispetto a quanto hai prodotto fino a questo momento. C’è una tua nuova visione artistica che si concretizza con questo lavoro discografico?
Come disse Stan Getz, noi musicisti di jazz non facciamo dischi per venderli, ma per documentare noi stessi. Io credo che la mia produzione discografica, in quasi trent’anni, si sia sviluppata in modo naturale, rispecchiando ciò che sono stato, ero e sono adesso. Non ho mai perseguito uno “stile”, ma un contenuto. I miei dischi sono  tutti abbastanza diversi l’uno dall’altro, quest’ultimo, per la presenza di Filippo, lo è più di altri. Ma non è una “nuova” visione. E’ semplicemente un’ “altra” visione che ha corrisposto ancora una volta al mio vissuto di questo momento del mio percorso su questa Terra.

Quando, come e perché hai deciso che la musica sarebbe diventata la tua professione?
Non ho mai pensato seriamente di fare altro, sin dall’infanzia, in realtà. L’incontro con il jazz è arrivato a 12 anni, ad un concerto nientemeno che di Art Blakey Jazz Messengers. Non avevo mai ascoltato una nota di jazz prima di quel momento, non ci capivo nulla, ma ricordo chiaramente che formulai questo pensiero: “se un giorno dovessi diventare un musicista, questa è la musica che voglio suonare!”. In realtà la storia fu impervia e non facile, nel mio libro A cosa pensi quando suoni?, pubblicato nel 2022, la racconto per filo e per segno, insieme a tutte le riflessioni che la musica e il suonare hanno sempre generato in me, fin da allora.

Hai collaborato con un bel numero di importanti musicisti. C’è qualcuno che, più degli altri, ha lasciato il segno?
Difficile dirlo, tutti lasciano un segno, in un modo o nell’altro. Clark Terry sicuramente mi ha lasciato il senso della gioia e della devozione necessarie per essere un vero musicista jazz. Ma si impara da tutti, mica solo dai grandi. A volte anche suonare con musicisti meno bravi di te ti insegna ad esser forte, a tirare fuori il meglio.

Qual è il tuo processo compositivo?
Non sono un compositore “regolare”, scrivo quando ho bisogno di musica o se ho una vera intuizione che riesco a sviluppare. Il problema è che spesso mi succede mentre studio il mio strumento. E se non fermo subito l’idea, per poi svilupparla, se ne va. A volte invece mi siedo al piano, suono accordi casuali, che magari provocano una scintilla melodica che dà origine a tutto. Per me, in ogni caso, tutto parte sempre dalla melodia.

Considerata la tua esperienza, quale giovane musicista consigli di ascoltare?
Siamo inondati di musica, ogni giorno. I social traboccano di musicisti eccezionali, che spesso postano video di loro stessi che si esercitano e eseguono assoli di altri. E’ un concetto che non capisco, non mi corrisponde. Sì, qualche rara volta capita anche a me di postare qualcosa, ma non è certo una pratica quotidiana come per molti. E dunque in questa selva, dove quasi non esistono più dischi, ma solo musica “liquida”, a volte mi è difficile districarmi. Ascolto per curiosità, ma mi rendo conto che è sempre un ascolto un po’ finto. Ascoltare da un telefono 20 secondi di un assolo non mi fa capire chi è quel musicista. Detto questo, i talenti sono sempre di più, sempre più precoci e incredibili. Lo vedo ovviamente anche nel mio lavoro di insegnamento. Ai miei studenti raccomando sempre di ascoltare i grandi della tradizione, perché lì c’è la verità. Non ci si sbaglia. Il futuro è nelle loro giovani mani, e chissà cosa ne faranno.

In un’intervista di una decina di anni orsono, hai dichiarato: “Io studio il suono”. E’ ancora così? Rispetto al 2012 cosa è cambiato nel tuo suono e nella tua tecnica?
Io continuo a studiare il suono. E non smetterò mai. E’ la mia ricerca, il mio punto di partenza e il mio punto di arrivo. Dove non arriverò mai. Il suono, per me, è la tecnica. La tecnica, per un sassofonista, è il suono, il suo controllo, la sua espressione. Ciò che cambia, che migliora con il tempo, almeno per me, è la capacità di entrare subito dentro la musica, di raggiungere molto più rapidamente quello stato di concentrazione che ti consente di esprimerti, di essere te stesso. Attraverso il suono.

Visto che questo tuo ultimo lavoro nasce nel periodo di pandemia-lockdown, cosa hai imparato dal periodo passato e come vedi il futuro del mondo dell’arte?
Dal periodo passato penso di aver imparato che la nostra fragilità di artisti ci rende sì più vulnerabili di altri ma al tempo stesso ci dà la forza per sopravvivere in un mondo sempre più incurante della bellezza. Non so quanto spazio ci sarà nel futuro per noi musicisti di jazz. Non so se questa musica potrà esistere nella forma che io ho conosciuto. Come ogni cosa, muta, si trasforma, e, spero, troverà grazie alle nuove generazioni, il modo per rigenerarsi e adattarsi all’epoca che verrà.

Quali sono i tuoi prossimi impegni e i tuoi prossimi obiettivi?
Spero di riuscire a presentare «Far Away» dal vivo, e che il cortometraggio venga distribuito al meglio. Oltre a questo, naturalmente, la mia regolare attività di solista continua, in vari progetti, anche con il mio No Eyes, e con musicisti vari. Continuerò anche a presentare il mio libro, che mi sta dando molte soddisfazioni, abbinandovi anche delle mini performance. Quando sarà il momento penserò a un nuovo album. Che sarà sulla terra ferma.
Alceste Ayroldi