Gianni Gebbia: «L’America a diciott’anni mi ha cambiato la vita»

di Alberto Bazzurro

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Gianni Gebbia (foto di Alberto Bazzurro)
Gianni Gebbia (foto di Alberto Bazzurro)

Esibitosi col Magnetic Trio al terzo Jaci&Jazz di Acireale, il sassofonista palermitano Gianni Gebbia ripercorre le esperienze che più hanno contribuito a formare il musicista che è oggi

Alla sua terza edizione, Jaci&Jazz di Acireale si è ampliato fino alle cinque serate (3-7 luglio) per ospitare il neonato Sicily Jazz Academy Contest, aperto alle band preselezionate da quattro conservatori della regione (Palermo, Catania, Messina e Ribera) e che ha visto alla fine primeggiare il palermitano Gnu Trio. Questo gruppo ha così aperto la penultima serata della rassegna, il cui clou era il concerto del Magnetic Trio di Gianni Gebbia, vale a dire il protagonista dell’intervista che trovate qui di seguito e dove il sassofonista palermitano ripassa le tappe salienti della sua vita artistica. Ovviamente senza dimenticare il presente, che ruota in primis proprio attorno a questo trio, di cui lui stesso ci parla e che nello specifico ha offerto un signor concerto,sfoggiando un suono fortemente identitario, anche grazie ai partner di Gebbia, entrambi estranei a facili cliché, laddove il leader, facendo largo uso della respirazione circolare, ha dato fondo alle gemme di un personale songbook ormai ultratrentennale, unendo sperimentazione e recupero di quelle radici popolari da lui mai rinnegate e oggi, anzi, rafforzatesi, pur depurate di ogni patina retorica, come levigate, alluse, quintessenziate.

Detto che protagonisti di Jaci&Jazz 3 sono stati anche il quintetto Gargano-Urbano di Achille Succi e, in chiusura, il Sestetto Orizzontale del direttore artistico del festival, Antonio Marangolo, come sempre molto attento all’aspetto compositivo, oltre che alla scelta di voci a loro volta di spiccata personalità (Andrea Paganetto, tromba, Mauro Negri, clarinetto, Pino Guarrella, cello, Ares Tavolazzi, contrabbasso, Antonio Moncada, batteria, col leader al sax tenore) che hanno contribuito a confezionare un set ricco e variegato, mai banale, quasi narrativo (ricordiamo che Marangolo è anche romanziere, veste in cui proprio ad Acireale ha presentato il suo ultimo parto, La mia pipa di nichel, fortemente autobiografico), cediamo dunque la parola a Gebbia e a tutto quanto ha voluto raccontarci.

Partirei da lontano, dal viaggio, e successiva permanenza, negli Stati Uniti che hai compiuto non ancora ventenne. M’interessa capire con quali motivazioni sei partito e come sei cambiato tra prima e dopo quell’esperienza.
Sono partito che avevo diciott’anni, nel 1979, e tornato a cavallo tra 1980 e 1981, per cui sono stato via un anno e qualche mese. La differenza fra prima e dopo è totale, abissale, cosmica, proprio una rivoluzione copernicana. Io ho avuto la fortuna di abitare e quindi crescere a pochi metri dal jazz club storico del Brass Group, a Palermo, per cui anche in età non sospetta potevo dire ai miei genitori che scendevo al Brass e quindi vedere mostri sacri come Archie Shepp, Ornette Coleman, Dexter Gordon, Charles Mingus, chiunque. Tutto ciò fin da bambino, perché la prima a portarmici è stata mia madre, grandissima appassionata. Tra i primissimi concerti che ho visto ricordo un trio con Johnny Dyani, Walter Davis Jr. e un batterista che in questo momento mi sfugge, oppure un Roberto Gatto sedicenne con Lee Konitz, appunto insieme a mia madre, che era una grande appassionata.

Gianni Gebbia
Gianni Gebbia

Era anche musicista?
No: era un medico che aveva studiato in America, dove vivevano un bel po’ di suoi parenti che si occupavano di musica. È stato quello il mio legame con l’America e il viaggio di cui sopra, visto che mia madre, stanti le mie insistenze, mi mandò appunto da loro, a Manhattan, dove speravano nella produzione di effetti sonori. In realtà diversi miei parenti da giovani avevano suonato jazz, ma poi la famiglia si era opposta, ritenendola una brutta strada, un mondo pericoloso. L’unico che continuò fu George Wallington, al secolo Giorgio Figlia, che io ho conosciuto, come tanti altri – da Manny Albam al fratello di Gerry Mulligan – appena arrivato, perché erano gli amici del cuore dei miei cugini, con cui erano cresciuti. Poi c’è stato l’aut-aut di cui dicevo, anche come conseguenza di una grande festa cui furono invitati fra gli altri Dexter Gordon e Melba Liston, che si scolarono tutto quello che ci si poteva scolare, per cui quella che io chiamavo nonna – ma che in realtà era una zia di mia madre – e suo marito dissero basta. Mio cugino si vide addirittura buttar via il sassofono da un momento all’altro.

E quindi tu che esperienze hai fatto, come ascoltatore e come musicista?
Ho iniziato prendendo lezioni di sax alto da un sassofonista afro-americano di cui in questo momento ricordo solo il cognome, Wright, un membro della big band di Jaki Byard che avevo incontrato a Washington Square. Per il resto lavoravo dai miei parenti, che mi pagavano profumatamente – pulivo le testine dei loro riproduttori di musicassette – per cui alla sera, finito il lavoro, avevo tanti di quei soldi a mia disposizione che mi vedevo almeno due concerti in locali ufficiali, pagando un regolare biglietto, dopo di che spesso e volentieri assistevo anche a un terzo concerto downtown, alternativo, ascoltando per esempio un giovane John Zorn quando ancora faceva il commesso da Tower Records, cosa che pochissimi sanno, oppure andavo nel loft di Beatrice Rivers, che in realtà era in chiusura, e ci trovavo Frank Lowe, Oliver Lake… Insomma: un’indigestione assoluta. Fra l’altro diversi di quei musicisti li conoscevo già, perché io e i miei amici fanatici a Palermo li vedevamo al jazz club e poi li andavamo a trovare dietro le quinte. Ero diventato per esempio amico di Joseph Bowie, il fratello di Lester, che mi disse di andarlo a trovare se fossi capitato a New York: solo che quello era un ambiente abbastanza pesante. Poi ho conosciuto anche Oliver Lake, che infatti qualche anno dopo venne a Roccella e mi invitò a suonare con lui, con mia grandissima soddisfazione. Quindi, tornando alla tua domanda, sì, l’esperienza americana mi ha cambiato la vita, perché non mi aspettavo questo côté jazzistico della mia famiglia: sapevo che i parenti di mia madre avevano un forte legame con la musica, ma non col jazz in particolare. In effetti non prevedevo neppure di fare il musicista, quanto semmai lo studioso di filosofia, in cui poi mi sono anche laureato, però il jazz mi ha preso e mi ha trasformato indelebilmente, perché l’attrattiva esercitata da questo mondo su di me è stata decisamente superiore a quanto potessi immaginare.

Gianni Gebbia «Augmenta Vol. II»
Gianni Gebbia «Augmenta Vol. II»

E comunque a un certo punto sei tornato indietro.
Sì, per vari motivi, in primo luogo perché anche su di me i parenti di mia madre, in particolare il mio prozio, iniziarono a far pressione perché mi mettessi a studiare musica classica alla Juilliard School e dimenticassi il jazz, ponendomela un po’ come condizione. Questo prozio, morto quasi centenario, era un italo-americano all’antica, un vecchio uomo d‘affari che ascoltava le romanze ottocentesche. Per lui la musica dei neri doveva rimanere circoscritta a loro. Io ero giovane, curioso, e in pratica lo mandai a quel paese, in realtà pentendomene, a posteriori, perché un po’ di studi classici non mi avrebbero fatto male. In realtà la mia generazione appartiene a quella che io chiamo epoca pre-pedagogica, quando non c’erano libri, metodi, scuole… Al punto che io ricordo il giorno esatto in cui un signore di nome Attilio Zanchi, tramite un negozio chiamato Birdland, portò i primi metodi, che in Sicilia arrivarono oltre tutto con il ritardo di rito. Allora si andava dal jazzista di turno e gli si chiedeva di spiegarci i rivolti di certi accordi, cose del genere. Si era nell’epoca dell’errore, della scoperta continua. Però tutto ciò è importante, e affascinante, perché quando impari le cose così…

…emotivamente l’approccio è molto più forte…
Certo: nulla è scontato.

E comunque c’è un percorso spesso faticoso, quasi carbonaro, che ammanta tutto di una sorta di epicità che fissa emotivamente certi passaggi, certe tappe, in maniera indelebile, spesso portandosi dietro anche una maggiore originalità, benché anche allora, forse persino più di oggi, i modelli non mancassero di certo.
Esatto: il pacchetto non era già pronto. E spesso quell’originalità, paradossalmente ma neanche troppo, traeva spunto proprio dall’errore.

Facciamo un salto in avanti di diversi anni: io ti ho scoperto attraverso «Arabesques» del 1988, in cui suonavi solo il soprano, ciò che hai ripreso a fare di recente, un disco, per come ti sei poi sviluppato – permettimi l’espressione – quasi fuorviante, perché molto calato in un humus popolare che è rimasto ma che lì è particolarmente forte, mentre poi è stato molto più mediato, e comunque già in tempi di poco successivi decisamente subordinato a un’adesione che definirei «antigraziosa», molto prossima alla scena radicale europea e alla sua grammatica.
Ma sai, erano tempi particolari, in cui c’era appunto una ricerca piuttosto insistita intorno a un jazz europeo. Noi italiani cercavamo di metterci del nostro, di trovare un senso personale a tutto ciò. Per quanto mi riguarda, cercavo di unire tante influenze, che sono riemerse di recente. Il mio abbandono del soprano in favore dell’alto, e un po’ del sopranino, si deve al fatto che mi pareva che tutti ci si «lacyzzasse» un po’ troppo, pur detto nei confronti di un musicista che ho sempre adorato. Comunque in me esisteva questa matrice popolare, anche perché provenivo, fin da prima del periodo americano, da esperienze prog-folk, la musica che riuscivo a suonare meglio perché più semplice del jazz. Allo stesso tempo partivo però con mio fratello per andare a Milano a sentire Braxton, o a Pisa, dove ho ascoltato Milford Graves, Evan Parker, Leo Smith, Han Bennink… Tanti shock: cercavo più che altro di mettere assieme i pezzi, e non era facile, perché stiamo parlando di un’epoca molto meno organica di oggi. Sentivi fusion, free, jazz politicizzato… Una fase complessa da digerire e metabolizzare, con input interessanti ma anche disastrosi. Stiamo parlando peraltro già di un’epoca di passaggio, forse vissuta maggiormente da chi ha qualche anno di più, perché io e Paolo Fresu, per esempio, siamo entrambi del 1961, siamo un po’ al limite…

Arabesques
Gianni Gebbia Group «Arabesques»

…nonché molto diversi.
Sì, però gli input erano quelli. Ed erano molteplici. In alcuni casi potevano farti perdere la bussola, perché in uno stesso festival ti capitava di ascoltare Michael Brecker e Steve Gadd, Mike Westbrook e Willem Breuker, Steve Lacy e Miles Davis, accanto a jazzisti più classici. Era il preludio del post-moderno, di musicisti come John Zorn, che mischiano un po’ di tutto, il citazionismo…

Torniamo all’abbandono del soprano, col conseguente recupero dell’alto, la pratica del solo e in generale, a brevissima distanza da «Arabesques», l’identificazione con una scena europea molto meno folk e molto più radicale.
Tutto ciò si ricollega appunto a quanto ho appena detto. Oggi, per farmi capire, non suono più per dimostrare una qualche appartenenza: immagino di possedere un mondo e cerco di tirarlo fuori. Da lì parto e faccio musica. All’epoca cui tu ti riferisci l’approccio era diverso. Gli esiti magari erano anche più avanzati, ma questo conta fino a un certo punto. Del resto, al di là di me, è difficile paragonare il Trovesi di quando io ero ragazzo, che ho visto in contesti a volte funambolici (per esempio in duo con Braxton), con quello che suona oggi con Gianni Coscia. Come potresti mai immaginare l’iter che c’è dietro, anche nella creazione di un dato suono? Tornando a me, e al solo, che tu citavi, ci sono arrivato tramite Peter Kowald, che fece il mio nome a Jost Gebers della FMP, il quale mi chiamò chiedendomi appunto di suonare in solo. Parliamo del 1990, quindi in effetti poco dopo «Arabesques». Avevo fatto qualche festival italiano, anche importante, ma in solo non avevo mai suonato. Così mi trovai a quel festival, a Berlino, e gli altri soli erano di Steve Lacy, Ernst Reijseger, Rüdiger Carl, Butch Morris… e poi tutti assieme. Conservo ancora il manifesto di quel festival, col mio nome, che nessuno conosceva, in mezzo a quei giganti. Così sono entrato in quel circuito, eminentemente europeo e ben poco italiano (un po’ Schiano, un po’ Minafra…). Contemporaneamente, e se vuoi anche un po’ paradossalmente, ho iniziato a suonare di più in Sicilia. Col tempo, però, mi son messo a proporre solo le mie cose, che sono un po’ il sunto di tutte queste esperienze, una musica se vuoi più melodica, anche se dipende dai contesti. Non disdegno per esempio l’improvvisazione totale, ma dipende con chi, perché una data pratica, anche inflazionata (ormai è quasi un genere a sé), spesso diventa noiosa, insensata.

Come s’inquadra in tutto questo processo il ritorno al soprano?
È un discorso un po’ complesso. Oggi il jazz ha raggiunto un tale livello di tecnica, anche di manierismo, che certi strumenti sono tornati a forme fortemente legate al passato, come per esempio l’alto a forme quasi parkeriane, con l’effetto, in parallelo, che, da Steve Coleman in poi, trovi sassofonisti ipertecnici, computerizzati, fino a Steve Lehman, che sono eccezionali; tuttavia, in rapporto a quella che era la mia poetica, lo stadio in cui mi trovavo, a un certo punto ho ritenuto il soprano più adatto perché più melodico, con echi etnici, e nel contempo – vedi Lacy, Coxhill, Parker – capace di sposarsi ottimamente con tutta una contemporaneità che passa per esempio attraverso la respirazione circolare, che io esploro da una vita. L’ho imparata da Dionigi Burranca, pontefice massimo delle launeddas, con il quale ho studiato dopo averlo sentito in un concerto che gli organizzai in piazza Bologna a Palermo. Non potevo credere che quest’uomo che fumava un pacchetto di Super senza filtro potesse suonare per un’ora senza prendere fiato! Alla fin fine posso dire che ho condensato la mia attuale attività su due linee principali. Una è il solo, che si è evoluto a livelli molto complessi perché può essere molto avanguardistico o molto for the people: lo controllo e posso proporlo nei contesti più diversi. Poi c’è il Magnetic Trio con Carmelo Graceffa alla batteria e Gabrio Bevilacqua al contrabbasso, due valentissimi musicisti della scena non solo siciliana con cui suono tantissimo e che è dedito esclusivamente – è una parola grossa – al mio songbook, pezzi che appartengono prima a tutta la mia vita musicale. Ogni tanto ne propongo una versione chiamata Electro Magnetic con un giovane bassista elettrico, Luca La Russa: una versione più jazz-rock.

E per quanto riguarda la diffusione della tua musica? Ormai da tempo prediligi il formato digitale a dispetto di quello fisico.
Sì, perché mi pare che non esista più – se non in casi rarissimi – il ruolo del produttore, per cui preferisco vendere la mia musica così, anziché metterla su un supporto appunto fisico, che spesso finisci anche per disperdere. Dai risultati fin qui ottenuti direi che non mi posso lamentare.

Alberto Bazzurro

[da Musica Jazz di settembre 2019]