«Per favore, mi lasci nell’ombra», potrebbe dire il sassofonista facendo sue le parole di Carlo Emilio Gadda. Ecco un’accurata analisi della poetica e della filosofia musicale di Mark Turner, schivo maestro del sax tenore
Probabilmente Mark Turner, se la cosa gli interessasse, sarebbe un protagonista del jazz di oggi nei panni del master musician a 360 gradi, con personalità di strumentista, compositore e leader, tra loro splendidamente comunicanti. Il suo curriculum ci mostra invece un interprete davvero unico del sax tenore, ma che compone con parsimonia e ancora meno lavora da leader, soprattutto nella maturità. Che cosa fa dunque di Turner la figura emergente che è in una stagione in cui il jazz sta mantenendo una solida ragion d’essere anche, o forse più di tutto, grazie a un chiaro spostamento di baricentro dall’espressione solistica a quella di una musica globale? Eppure il suo magnetismo non è sfuggito a nessun musicista o critico o appassionato che intenda il jazz come musica in atto, fatta per vivere delle vibrazioni del nostro tempo.
Turner è un nero di famiglia borghese da qualche generazione, nato nell’Ohio nel 1965 e cresciuto in Bassa California (nei Palos Verdes Estates), che il jazz lo ha conosciuto e attirato già da bambino e il sax tenore ha cominciato a suonarlo dalla scuola media, dopo essere passato per il clarinetto e il contralto. Il suo primo miraggio – stranissimo! – sarebbe stato di diventare un sassofonista di musica «commerciale», ma l’ascolto quotidiano del jazz lo spinge a studi musicali più attenti, fino a diplomarsi alla Berklee, maturando anzi un interesse miratissimo per Coltrane e Warne Marsh, due sassofonisti che in comune hanno soltanto l’essere improvvisatori armonici, e anche per la musica di Lennie Tristano, cosa anomala per un sassofonista, soprattutto se nero.
La prima deduzione è quindi che Turner non ha esattamente il DNA del black musician dominato dall’orgoglio razziale. Piuttosto del musicista molto coinvolto dalla cultura del jazz e altrettanto analitico nel ricercare i termini di una personale differenza. Per questo, proprio per questo, la sua attività comincia in ambito post-bop, mai sfiorerà il neo-free e mai si affaccerà fuori dal cosiddetto jazz, ma il suo linguaggio sassofonistico, sempre più votato all’approccio armonico, si rivela sempre più autosufficiente nel «generare» situazioni di sofisticato camerismo contemporaneo all’interno di situazioni jazzistiche.
Il primo disco inciso da Turner a suo nome, «Yam Yam» (1994), si affianca a quella intensa attività di sideman e per sommi capi non se ne distacca granché. Forse lo classificheremmo più neo-cool del mainstream medio per la forbitezza armonica di certe composizioni originali e la combine del suono gentile di Turner allo stile chitarristico di Kurt Rosenwinkel, che a tratti quasi ricorda una remota seduta di Stan Getz con Jimmy Raney. Al tempo stesso, le influenze di Marsh e il Coltrane di «Giant Steps» – non successivo – si avvertono più o meno in ugual misura sulle strutture delle esecuzioni e gli interventi pianistici di Mehldau, così come il suo bell’originale Subtle Tragedy, non possono che risultare da una cultura del jazz ampiamente e variamente stratificata. Il pezzo che si staglia da ogni forma di mainstream è Zurich, ambiziosa composizione out of tempo basata su una progressione di armonie che sembrano tra loro disarticolate – criterio compositivo che per Turner diverrà abbastanza tipico – e in cui si uniscono al quintetto i tenoristi Seamus Blake e Terry Deane. Si passa da un formalismo quasi West Coast nell’esposizione del tema a parti improvvisate di notevole informalità.
Gli intenti di Turner restano comunque ambigui per tutti gli anni Novanta. Dopo «Yam Yam», che questo coup de théatre solleva in parte dalla qualifica di disco di formazione, non solo la sua attività di sideman e talvolta co-leader prosegue a ritmo serrato persino con qualche data da sessionman, ma ancora piuttosto mainstream, almeno quanto «Yam Yam», sono i suoi stessi dischi realizzati in quegli anni per la Warner Bros. Il primo (1997), chiamato semplicemente «Mark Turner» (come se fosse un’opera prima), fa spiccare in alcuni pezzi sontuose tessiture sassofonistiche tristaniane con Joshua Redman, ma contiene una sola esecuzione che esce dal seminato: non a caso una lunga versione del colemaniano Kathelin Gray che, forse stimolata dalla particolare natura del tema, rimanda un po’ alla Band di Paul Motian. Il secondo, «In This World» (1998), un po’ come «Yam Yam», di cui ripropone il gruppo (con Rosenwinkel, Mehldau…), punteggia con qualche composizione avanzata (come soprattutto Bo Brussels) un repertorio che si bilancia tra composizioni personali e ben concepite (nasce qui il bel Lennie’s Groove, dedicato e ispirato a Tristano) e qualche versione di standard non più che elegante. Il terzo, «Ballad Session» (1999), rispecchiando il titolo davvero alla lettera, riserva un margine davvero limitato all’invenzione, malgrado la presenza di pagine all’origine non convenzionali quali Nefertiti di Wayne Shorter e Jesus Maria di Carla Bley.
Il valore che in questi dischi si aggiunge all’innegabile bellezza di molte delle esecuzioni che contengono sta dunque nel mostrare i continui progressi di Turner allo strumento: soprattutto la definizione della sua originalissima sonorità, che quasi assomiglia a quella del sassofono tenore adoperato in ambito accademico, ma è incredibilmente più rifinita, si direbbe più «motivata», e significativa in tutti i registri, dato anche l’aumento della sua estensione in ottave. Ciò che ancora non affiora con chiarezza, benché l’approccio sia ormai eminentemente armonico, è un rapporto diretto, causale, fra strumentismo e composizione: l’indizio che, addirittura in questo caso più che in altri, assicurerebbe la dimensione autoriale.
Dischi di formazione lo sono in tal senso tutti quelli che Turner ha inciso fino all’età di circa trentacinque anni. Ma il motivo potrebbe essere perfettamente degno della sua indole, per così dire, aristocratica: gli piaceva fare così, godersi l’attento lavoro di messa a punto del linguaggio strumentistico, goderselo in tutto l’impegno che richiede, e aspettare che ulteriori esiti spuntassero fuori da soli, senza forzare la mano. Difficile pensare che sia invece confinata la sua immaginazione, come a onor del vero quella di tanti storici soffiatori, gentili e no, che solo l’autarchica comunità del jazz ha potuto eleggere a star (non facciamo nomi per non offendere nessuno). Turner è altra cosa, e si vedrà bene.
Prova ne è il seminale «Dharma Days» del 2001, che è giusto considerare suo primo autentico disco d’autore, ma in quanto sviluppo maturo di ciò che prima, suscitando segni precari, sembrava non prendere il volo. Ed è naturalmente nelle composizioni, con le loro progressioni armoniche, che la sua sapienza strumentistica s’innesta per dare vita a una musica sua e di sensibilità contemporanea. Il sound neo-cool in qualche modo permane, perché il gruppo è un quartetto con chitarra (ancora Rosenwinkel, non più così Fifties), ma la musica esplora facendo lievitare le precedenti asperità e cupezze attraverso pagine tutte importanti e un’opportuna riproposta di Zurich. Alcune di queste nuove composizioni (Iverson’s Odyssey, Myron’s World, Dharma Days e Seven Points) saranno più volte rivisitate in seguito.
«Dharma Days» fa da spartiacque anche tra due modi diversi in cui Turner ha gestito la sua attività. Prima prevaleva il suo piacere di suonare in assoluto, senza discriminazioni, motivo della sua militanza nel mainstream; d’ora in poi, il progetto di suonare la «sua» musica il più possibile con musicisti che la amano al punto di farsene condizionare: ciò che lo ha indotto, sempre dall’aristocratico che è, a rinunciare a essere leader per anni e anni, col vantaggio di sollevarsi dalla cura di quegli affari non musicali che a un leader competono per forza (lo ha affermato più volte, in alternanza a giustificazioni riguardanti impegni familiari). E non c’è dubbio, il progetto ha funzionato alla perfezione. Ovvero, durante i dodici anni che trascorrono fra «Dharma Days» e «Lathe Of Heaven», che è del 2013, i tre dischi realizzati con il trio collettivo Fly, con Larry Grenadier e Jeff Ballard, e gli altrettanti con il quartetto di Billy Hart ci permettono di ascoltare «la musica di» Mark Turner al meglio: in due forme differenti e tra loro complementari, ma assolutamente al meglio.
Premesso che si tratta di dischi tutti di altissima qualità musicale e rappresentativi del volto più contemporaneo del jazz non stemperato in altre culture musicali, le loro diverse nature corrispondono probabilmente ai due modi in cui Turner ama depositare traccia di sé.
Il trio Fly, ufficialmente senza leader ma di fatto trio sassofonistico corroborato da un mirabolante interplay, è la situazione che Turner fa propria più o meno a tutti gli effetti, schivando, appunto, una parte delle rogne organizzative. Il primo disco, «Fly», inciso per la Savoy nel 2003, ne è ancora una conferma parziale, perché alcuni pezzi del repertorio, dovuto per lo più a Grenadier (Turner ne firma uno solo), sono piuttosto ritmici e non sempre adatti a sottolineare la propensione armonica turneriana nel suo radicalismo. I successivi due ECM («Sky & Country» del 2008 e «Year Of The Snake» del 2011) rivelano invece un’inattesa collusione fra il Turner più riflessivo e l’ECM-pensiero, opportunamente pendente dalla parte del sassofonista, che a sua volta è autore di un discreto numero di brani (oltre che recuperare il vecchio Dharma Days) e soprattutto influenza quelli non suoi, che siano di creazione collettiva o di qualcuno dei due compagni, ritmici o no, di medium tempo o lenti o out of tempo (di solito con Grenadier all’archetto). In qualcuno di questi pezzi, come dall’origine del gruppo, suona anche il soprano, al quale porta l’esatto suo linguaggio tenoristico, nel frattempo maturato in un suono insieme più poroso e più etereo, più sospeso nel nulla, e le sue linee melodiche, o per meglio dire anti-melodiche, sembrano volare a bassa quota su orizzonti desolati, meditare sopra lo strato dei sentimenti. Con al vertice due pezzi in particolare, The Western Lands I e Brothersister (entrambi in «Year Of The Snake»), questa musica potrebbe essere un manifesto del trio sassofonistico con finalità opposta al blowing record. Rarissimo ottenere, da una formula di questo tipo, atmosfere così sottilmente suggestive.
Anche la collaborazione con il quartetto di Billy Hart comincia con un disco di produzione americana chiamato col solo nome del gruppo («Billy Hart Quartet», HighNote, 2005) e si completa con due ECM inevitabilmente più intellettuali («All Our Reasons» del 2011 e «One Is The Other» del 2013). Ma le caratteristiche che fanno di tutti e tre questi dischi autentiche pietre miliari sono altre da quelle della musica dei Fly. Prima di tutto perché Billy Hart è un leader connotato anche come compositore; poi perché nel gruppo c’è Ethan Iverson, pianista e compositore dalle gesta talvolta invadenti. Sono dischi che non presenterebbero né la stessa bellezza né la stessa originalità con chiunque sassofonista al posto di Turner, ma in cui Turner è come l’invitato d’onore in un circolo culturale al quale si addice anche la buona cucina. Motivo per il quale porta in tutto poche composizioni – di spigolose solo il vecchio Iverson’s Odyssey e di particolarmente rarefatte solo Wasteland, accanto a un Nigeria dedicato a Rollins (che nel cd risulta invertito di posizione con Duchess, che è di Hart), al neo-tristaniano Lennie’s Groove (ripreso da «In This World») e al lirico Sonnet For Stevie – e in qualche esecuzione, trovandosi in un contesto comunque molto propizio all’improvvisazione armonica, addirittura assume un po’ di postura coltraniana. Il punto è che, nonostante questo, se non proprio per questo, al personaggio Turner è propizia per intero anche la situazione di questo gruppo, e per un motivo logicissimo e paradossale insieme: che la quasi totalità delle composizioni (in maggioranza del leader e qualcuna di Iverson) sembra concepita apposta per lui, per stimolare la sua cifra armonica e valorizzare l’assoluta originalità del suo stile strumentistico. Ben altra cosa dallo spazio che potevano concedergli le collaborazioni con gruppi mainstream e persino che lui stesso sapeva concedersi a quel tempo.
Tornato ad essere leader dopo dodici anni, Turner incide per la ECM il disco prezioso, altero, suprematista, che è «Lathe Of Heaven» (titolo replicato dal noto romanzo di fantascienza di Ursula K. Le Guin del 1971). I suoi compagni, Avishai Cohen alla tromba (da non confondersi con l’omonimo contrabbassista), Joe Martin al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria, sono musicisti di prim’ordine, il sound dei due fiati ricchissimo, le composizioni, di cui quattro su sei scritte per l’occasione, tutte meditatissime e la complessità armonica ovunque, dallo scritto all’improvvisato, essendo anche Cohen molto ferrato in materia. Il difetto è che questa musica rischia di dir poco all’ascoltatore non alienato dalla specialità, come invece quella dei Fly, da cui pur sempre avrebbe preso le mosse. Brothersister, nato con i Fly, resta d’altronde il tema più magico del disco, ma in versione arricchita di armonizzazione sembra perdere qualche strato della sua incantatoria ambiguità. E persino la rivisitazione di Sonnet For Stevie, tema di certo più lirico che cerebrale (diversamente da tutti gli altri), attira l’attenzione per sapienza, bellezza intellettuale, non portato emotivo.
Certo non è un disco da stroncare, e giustamente nessun critico di nessuna sponda ci ha provato. Chiunque ha rilevato con quanta cura Turner lo avrebbe concepito, rilevandone anche un’indiscutibile bellezza finale. Il punto è che, proprio da parte di Turner, potrebbe essere stato così tanto più oggetto di impegno che non frutto di piacere da oscurare, sembrerebbe, qualche lunghezza d’onde della poesia di questo anomalo Pres del ventunesimo secolo. Poi, si potrebbe anche osservare che il sound turneriano perde un po’ di aura mescolato al lavoro di una tromba – così anche con Ambrose Akinmusire nel concerto di Bergamo Jazz 2015 – e che il drumming del pur eccelso Marcus Gilmore è forse troppo enfatico per una musica che di principio sarebbe piuttosto raccolta: ben più di quella di Vijay Iyer, per citare chi di Gilmore è stato un leader appropriato.
Cosa abbastanza certa è che al mondo di Turner hanno dato maggiore respiro i duetti con un pianista: il delicato, un po’ pedante «Dusk Is A Quiet Place» con Baptiste Trotignon (2011) e il recentissimo e più riuscito «Temporary Kings» con Ethan Iverson. Entrambi fanno aleggiare classicismi e cerebralità, ma Turner sembra ricavarne ambientazioni perfette per il suo stile.
Molti atteggiamenti di Turner sono un po’ bizzarri, incongruenti; lo è già in sé la «vertigine borghese» che ha impresso a uno strumento soprattutto «popolare» quale il sassofono tenore e, volendo, forse di conseguenza, lo è tutto lo svolgimento della sua carriera. Pertanto, assolutamente lodevoli i musicisti che in tutto questo hanno riconosciuto un valore non comune, soprattutto mentre certi produttori – non Eicher! – tendevano semmai a fraintenderlo. Cosa che sarebbe facile tuttora, dal momento che Turner non si allontana mai troppo dalla linea di confine con il cosiddetto jazz.
Paolo Vitolo
[da Musica Jazz, dicembre 2018]