Linda Oh: camminando controvento

di Alceste Ayroldi

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Linda Oh (foto di Shervin Lainez)
Linda Oh (foto di Shervin Lainez)

La contrabbassista cinese (ma nata in Malesia) Linda Oh si è in breve tempo imposta sulla scena internazionale, contesa da stelle come Pat Metheny, Dave Douglas, Joe Lovano, Vijay Iyer.

Dal tuo precedente album a «Walk Against The Wind» sono passati quattro anni. Cosa è successo nel frattempo?
Sono successe un sacco di cose, in questi quattro anni. Ho fatto diverse esperienze, viaggiando e collaborando con molti musicisti. Ho avuto la meravigliosa opportunità di stare al fianco di musicisti del calibro di Dave Douglas, Joe Lovano, Vijay Iyer, Geri Allen, Terri Lyne Carrington, Steve Coleman e Kenny Barron. Ho suonato molto anche con la mia band in molti locali di New York. E ho scritto molto, per quartetto e quintetto, e anche per alcuni cortometraggi e mediometraggi. E molti di questi hanno influenzato la musica di questo mio ultimo disco. In questo periodo ho studiato molto e ho cercato di prendere lezioni quando potevo. Ciò, in parte, grazie alla borsa di studio che ho ricevuto dalla Fondazione Jerome, che comprende lezioni di basso, di musica classica, di musica folclorica cubana e lezioni di percussioni coreane. E c’è di più. Ho lavorato per due album: il primo per un trio con il trombettista Ambrose Akinmusire e Tyshawn Sorey alla batteria; il secondo per un gruppo denominato Aventurine che è un doppio quartetto con sassofono, pianoforte, basso, batteria e un quartetto d’archi.

Cosa hai voluto raccontare con questo disco?
Tutta la musica di questo album è molto personale. La stessa musica può variare da momenti introspettivi ad altri più bizzarri, qualcosa che possa raccontare la mia personalità e la mia vita. I brani variano, ma in generale ci sono diversi temi sull’empatia e sul superare le avversità della vita. Da qui deriva il titolo «camminare controvento». In questo album c’è un brano, Speech Impediment, che è è una storia immaginaria che parla di un uomo che cerca di dichiarare a una donna il suo amore, ma non ci riesce perché è balbuziente. Così trova altre vie per dimostrarle il suo amore e, quindi, vi è un lieto fine. Il messaggio è di guardare oltre l’aspetto esteriore e badare, invece, alla sostanza.

Un disco particolarissimo anche nella confezione.
È un format disegnato e brevettato dal pianista e proprietario della casa discografica Biophilia, Fabian Almazan. È il risultato di anni di sperimentazione e di ricerca. Non c’è nessun cd, sono venti pannelli, fronte-retro, che si ispirano all’origami e che si aprono diventando una vibrante opera d’arte, corredata dalle note di copertina. All’interno si trova un codice unico per il singolo ascoltatore, che può scaricare il disco nel formato che preferisce, compresa la qualità cd, con file .wav non compressi. So che molta gente si lamenta, nell’era del download, della perdita della sensazione tattile e della mancanza di copertine e liner notes. Abbiamo pensato a un ascoltatore eco-consapevole, che sia a conoscenza degli effetti nocivi della plastica sull’ambiente ma non ritenga sufficiente scaricare i brani in formato digitale; acquistando questo album sostieni il futuro della musica e dell’artista che lo ha creato, ricevendo inoltre un’opera d’arte originale.

Linda Oh (foto di Shervin Lainez)
Linda Oh (foto di Shervin Lainez)

«Walk Against The Wind» è anche un riferimento alla tua musica?
Il titolo dell’album trae spunto dalla celebre pantomima del grande Marcel Marceau. L’ho scelto perché negli ultimi anni ho tenuto molto lezioni, clinics e masterclasses. Spesso, gli studenti erano divorati da tutto ciò che li circondava, come le classi o i gruppi in cui suonavano. A volte è bene scappare e pensare a qualcosa di più grande: cosa puoi fare con il tuo talento, con la tua forma d’arte. Ho fatto vedere questa piccola clip di Marcel Marceau che imita un’improvvisazione tra un sassofono alto e un trombone. Ciò dimostra gli elementi del discorso dell’improvvisazione e del linguaggio non verbale. Quindi ho parlato della storia di Marceau, che ha aiutato parecchie persone durante la seconda guerra mondiale, prima di diventare famoso; ha utilizzato le sue abilità di pittore per rifare le carte d’identità e ha utilizzato la sua abilità di intrattenitore e di comunicatore non verbale per aiutare i giovani e i bambini ebrei a mettersi in salvo. Ho fatto questo perché gli studenti fossero in grado di vedere da un’altra prospettiva e cercare di migliorare il mondo. È questo il motivo del titolo del mio album. Vado forse controvento?

Rispetto ai tuoi precedenti lavori, «Walk Against The Wind» è più meditato e più strutturato e non vi è traccia alcuna di mainstream. La tua musica sta andando in una nuova direzione?
Quello del mainstream, oggi, è un falso problema. Mi interessa scrivere musica autentica. Ciò a cui bado è l’equilibrio tra la scrittura e l’esecuzione. Ci sono dei momenti di pausa e di riflessione, che si alternano con alcuni più tesi e, forse, più folli. A far da contraltare a composizioni più intricate o melodie intrecciate, uso sezioni aperte che sono una sorta di tela vuota per una conversazione musicale collettiva.

Si ascolta la tua voce che accompagna il contrabbasso. È molto importante per te il lirismo dei brani?
Forse sì, in parte. Ma è anche importante, come consiglio sempre, di aggiungere differenti colori per rinforzare alcune melodie e armonie. In pratica, un aspetto più orchestrale.

Ci parli dei musicisti che suonano nel tuo disco?
C’è un quartetto di base: io, Ben Wendel al sassofono, Matthew Stevens alla chitarra e Justin Brown alla batteria. Poi ci sono gli ospiti: Fabian Almazan alle tastiere e al pianoforte; Minji Park, che suona musica coreana tradizionale e, in particolare, suona le percussioni in un brano. Ben lo conosco da un po’ e ha suonato nel mio disco «Sun Pictures». Ha fatto un lavoro incredibile con la band Kneebody, così come con il suo gruppo. Matthew Stevens ha una tavolozza timbrica speciale, che penso sia il suo più grande punto di forza. Justin lavora in diversi gruppi ed è un talento incredibile: ha un suono meraviglioso. Con Fabian ho suonato negli ultimi undici anni: lui nel mio gruppo e io nel suo. Non è solo un pianista fantastico ma, come Matthew, riesce a tirare fuori qualsiasi colore dallo strumento ed è anche un grande compositore. Park è una talentuosa esperta di musica tradizionale coreana. Mi sta insegnando il janggu (un tamburo coreano). Lei suona su Mantis, brano che ho composto quando collaboravo con alcuni musicisti al Gwangju Festival. Tra di loro c’era Simon Baker che mi ha insegnato il ritmo ochae chilgut, usato poi come base per Mantis.

Sei nata in Malesia e cresciuta a Perth in Australia, mentre i tuoi genitori sono cinesi. Questi fattori hanno influenzato la sua musica?
È difficile dirlo, perché i miei genitori non ascoltavano molta musica cinese o malese. Ho solo frammentari ricordi di entrambe, ma molta della musica che si ascoltava a casa era, per lo più, classica, soprattutto quando ero più giovane. In seguito, quando la collezione di dischi di mia sorella maggiore è aumentata, ho trovato molta ispirazione dai suoi diversi gusti e ascolti. Devo dire, però, che quando sono cresciuta, è aumentata anche la mia curiosità riguardo alla musica asiatica e a quella della mia eredità culturale. Molti espatriati, quando si spostano tra differenti paesi, sentono la necessità di assimilare la cultura del Paese in cui si trovano e, spesso, ho avvertito anch’io questa necessità stando in Australia. E da adulta ho capito quanto sia importante per me riscoprire questi aspetti.

Linda Oh «Walk Against The Wind»
Linda Oh «Walk Against The Wind»

Tra le tue collaborazioni, ce ne è una che ti ha influenzato in modo particolare?
Ci sono innumerevoli musicisti che mi hanno influenzato e, guardandoli crescere al mio fianco, mi hanno ispirato. Fabian Almazan ha avuto una notevole influenza nella mia vita. La sua musica e il suo modo di suonare non hanno mai cessato di darmi una spinta. Ci sono anche altri musicisti con cui ho suonato e dai quali ho tratto ispirazione, come Ambrose Akinmusire e Jen Shyu, giusto per citarne un paio. Ho suonato a lungo con Rudy Royston, grande batterista e musicista, che mi ha ispirato; poi Matt Mitchell, musicista incredibile e fonte inesauribile di informazioni. Poi tanti grandi bandleaders e mentori che continuano a influenzarmi, come Dave Douglas, Terri Lyne Carrington, Steve Coleman, Joe Lovano, Geri Allen, Vijay Iyer e ora Pat Metheny. Suonare nel gruppo di Pat significa per me passare tanto tempo anche con Antonio Sanchez e Gwilym Simcock, entrambi musicisti scrupolosi e di talento.

Quali sono i passaggi che ritieni fondamentali nella tua vita artistica?
Difficile dirlo, anche perché cambiano a seconda del momento che musicalmente si sta vivendo: se si è in sala prove, sul palco o a lezione. Può trattarsi di un momento in cui sto chiarendo le mie idee, oppure mi trovo nella fase creativa. E poi ci sono dei momenti importanti, come il suonare con Kenny Barron o suonare in duo con Pat Metheny nel suo appartamento. In quel momento ti rendi conto che stai suonando assieme per creare qualcosa di speciale e non soltanto perché sei in sala di registrazione!

E conoscere Dave Douglas ha cambiato la tua prospettiva?
Dave è un musicista estremamente attivo ed è una grande fonte di ispirazione per me e per molta altra gente della mia generazione. È estremamente intelligente e versatile in molti campi della vita, per non parlare della musica! Ho imparato tantissimo da lui, facendo parte di alcuni suoi progetti. È un leader stimolante che ha sempre fatto bene il suo lavoro e ha le idee molto chiare di cosa ci sia bisogno.

In tour con Pat Metheny. Come è avvenuto il vostro incontro?
L’ho conosciuto nel 2013 al Detroit Jazz Festival. Io suonavo con la band Sound Prints di Douglas e Joe Lovano come gruppo di apertura al concerto del Pat Metheny Unity Group. Ci incontrammo velocemente nel backstage e lui fu molto affabile. Due anni più tardi, allo stesso festival, ero nel retropalco ad ascoltare il concerto del gruppo di Rudresh Mahanthappa e arrivò anche Pat. Lui era il resident artist e avrebbe suonato subito dopo, con Gary Burton. Ci salutammo e lui mi chiese se avessi ricevuto la sua mail con la quale mi diceva che voleva suonare con me. Così gli diedi la mia mail: in seguito, trovai la sua mail tra lo spam… Insomma, abbiamo iniziato a suonare in duo e poi con Antonio Sanchez: il tutto è stato molto bello, così Pat mi ha chiesto di fare parte di questo suo nuovo progetto e sono stata molto felice di accettare.

Che consigli dai ai tuoi studenti?
Lavorare sodo, essere curiosi, non dare niente per scontato e ricordare che ogni cosa è provvisorio. La vita è breve e bisogna sfruttare al meglio il tempo, ma c’è sempre una lunga strada da affrontare.

I tuoi compositori di riferimento?
Charles Mingus, Meshell Ndegeocello, Maurice Ravel, Pat Metheny e Bach.

Qualcuno (più d’uno) ha detto che il jazz non ha futuro. La tua opinione in proposito?
Penso che il futuro del jazz sia emozionante. Naturalmente, il problema è chi pensa che il jazz abbia una sola via. Invece il jazz ha un significato differente per ciascuno di noi e penso che questa sia una bella cosa.

I tuoi tre dischi preferiti?
«Blood Sugar Sex Magik» dei Red Hot Chili Peppers; «Night Train» di Oscar Peterson; i quartetti per archi di Debussy e Ravel suonati dall’Emerson.

Alceste Ayroldi