Kenny Barron: «New York è ancora la mecca del jazz.»

di Nicola Gaeta - foto di John Sann

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Kenny Barron - foto di John Sann

Un nuovo, giovane gruppo segna l’inizio dell’ennesima fase artistica di Kenny Barron, uno dei maggiori musicisti di oggi. Ecco cosa ci ha raccontato il grande pianista di Filadelfia.

Kenny Barron ha un modo così flessibile, dal punto di vista armonico, di suonare il pianoforte da poter praticamente esibirsi con chiunque. Oltre, naturalmente, a un’enorme capacità di comunicare passione e a una padronanza dello strumento scevra da virtuosismi e sempre al servizio della musica. È lo swing il motore pulsante del suo pianismo, così presente nella sua musica da mettere in secondo piano la gran parte dei clichè bop che ancora influenzano quasi tutti i giovani pianisti. Kenny, è noto, ha suonato coi padri del jazz (Dizzy Gillespie, tanto per dirne uno), ha realizzato delle incisioni importanti con Stan Getz (del quale è stato il partner prediletto negli ultimi anni del sassofonista), s’è fatto carico dell’eredità di Monk nel gruppo Sphere ma soprattutto possiede una conoscenza enciclopedica della tradizione. Elencare i dischi nei quali si è distinto richiederebbe un articolo a parte, ma oggi vorremmo citare un album del 1988 per la Criss Cross intitolato «Green Chimneys», in trio con Buster Williams e Ben Riley, dove il pianista lavora per sottrazione con interventi cristallini. I suoi lavori per la Muse (da ricordare «Peruvian Blue» del 1974 con un ottimo Ted Dunbar a tessere le trame chitarristiche) hanno segnato un capitolo a sé nell’affermazione del cosiddetto spiritual jazz. L’eleganza di Barron dal vivo è testimoniata dalle invenzioni armoniche e dall’interplay di «Live At Bradley’s» del 2000. E la passione, mai tenuta in sordina, per la musica classica è stata sublimata nel suo lavoro al fianco di musicisti stratosferici come Stefon Harris, Ron Carter e Lewis Nash sotto il nome di Classical Jazz Quartet. Sembra comunque essere il trio – come del resto accade per molti pianisti – la dimensione espressiva a lui più idonea, ma Kenny si mostra a suo agio anche in formazioni inconsuete (le sue recenti esibizioni in duo con Dave Holland sono alcune delle cose più belle del jazz di questo inizio millennio) e in formazioni più allargate come il quintetto che, da poche settimane, è sul mercato con un disco, «Concentric Circles», inciso per la Blue Note. Così abbiamo deciso di approfittare della proverbiale disponibilità di Barron e di intervistarlo con piacere.

Con «Concentric Circles» lei torna a esprimersi in quintetto. Non è la prima volta. Ricordo dischi come «Live At Fat Tuesday», «Quickstep» e «Images». Anche se negli ultimi anni ci aveva abituati ad una dimensione più intima: sto pensando al trio con Francisco Mela e Kiyoshi Kitagawa e al duo con Dave Holland. Vuol raccontare qualcosa di questa sua nuova avventura e del suo rapporto con «giovani leoni» come Dayna Stephens e Johnathan Blake?
Suono in trio con Johnathan già da dieci anni. Mi piace molto lavorare con musicisti giovani. Per diversi motivi. Ma soprattutto perché mi trasmettono energia ed entusiasmo. Esercitano su di me una forte influenza in termini di motivazione e hanno il potere di farmi suonare in maniera diversa.

Kenny Barron - foto di John Sann

Quando la ascolto percepisco la grande tradizione del jazz: lo Swing, il bop e anche i suoi studi classici. In più, in dischi come «Concentric Circles» sento il suo amore per la musica latina. C’è una bellissima versione di una canzone di Caetano Veloso, Aquele Frevo Axé, e Baile è fortemente influenzata dal latin tinge. Mi parli di questa sua passione…
Amo la musica brasiliana, ho fatto due dischi con musica esclusivamente brasiliana. Mi piace l’armonia, il ritmo e credo mi piacerebbero anche le parole se potessi capire il portoghese, Ho scoperto quella canzone di Caetano Veloso in un disco di Gal Costa che ho ascoltato molte volte e ho deciso che volevo suonarla. È un pezzo cosi bello, veramente emozionante. Il mio amore per la musica latina risale a tanto tempo fa quando per la prima volta arrivai a New York nel 1961. C’era una trasmissione alla radio di un dj radiofonico che allora era abbastanza famoso, Symphony Sid, il quale conduceva una trasmissione, non ricordo bene se uno o due giorni la settimana, all’interno della quale mandava in onda solo musica latina. Lo ascoltavo sempre. Restai affascinato da quella musica, dal feeling di quella musica, dal ritmo, dalla passionalità. Era così ballabile. A Filadelfia, la mia città d’origine, non se ne ascoltava tanta. Il latin tinge di Baile viene da lì.

Nella sua vita lei ha suonato con alcuni dei giganti della musica afroamericana. Personaggi come Freddie Hubbard, Yusef Lateef, Ron Carter, Milt Jackson, Dizzy… Chi di loro l’ha influenzata maggiormente?
Tutti. Tutti mi hanno influenzato in maniera diversa. Probabilmente il tempo trascorso con Dizzy è stato per me molto utile e ha esercitato una grande influenza su di me. Dizzy sapeva tantissime cose, riguardo al ritmo, all’armonia. Suonava bene il pianoforte. Spesso durante le gigs nei club, durante l’ultimo set, se non c’era troppa gente, mi faceva spostare e suonava lui il piano per un paio di brani. Sicuramente l’esperienza con lui è stata molto importante per me. Ma anche Yusef Lateef ha avuto una grande importanza. Yusef era molto audace, gli piaceva rischiare e ha incoraggiato me a fare la stessa cosa. Mi ha anche stimolato molto spingendomi a comporre. Suonava molta musica che avevo scritto e l’ha anche registrata. In più mi ha incoraggiato a tornare a scuola e a studiare per ottenere un diploma musicale.

Se le chiedessi di indicare un musicista, non necessariamente un pianista, che oggi sta suonando qualcosa di nuovo, il nome di chi mi farebbe?
Sono arrivato a un momento della vita in cui mi sembra che nulla suoni veramente nuovo. Ho ascoltato tantissima musica, dall’avanguardia al r&b, veramente di tutto, ma ciò che sento non mi suona nuovo. Ascolto delle cose bellissime, mi piacciono molte, moltissime cose, mi piacciono molti pianisti, Gerald Clayton è uno di questi. Molte delle cose che mi piacciono riguardano la composizione più che il modo di suonare, oggi faccio attenzione alla scrittura, al modo in cui le cose sono scritte. Per quel che riguarda i pianisti mi piace Sullivan Fortner, non so se lo conosci, ma lui mi piace molto, mi piace il suo concetto, il suo modo di suonare, sembra nuovo ma in realtà non lo è… Usa entrambe le mani, adoro quello che sta facendo. Aaron Parks è un altro che mi ha colpito. È stato un mio allievo, oggi sta prendendo una direzione diversa, verso il suono ECM, molto seria ma molto interessante. Sono tutti molto bravi, questi giovani musicisti. Stanno facendo un ottimo lavoro e credo che la musica sia in buone mani.

Quanti anni ha?
Settantacinque.

Kenny Barron Johnathan Blake Kiyoshi Kitagawa Dana Stephens Mike Rodriguez
Kenny Barron Johnathan Blake Kiyoshi Kitagawa Dayna Stephens Mike Rodriguez

Quindi la possiamo considerare un anziano musicista di jazz, uno che ha trascorso la gran parte della sua vita all’interno di questa musica. Come vede il futuro di questo linguaggio? Alcuni parlano del jazz come di qualcosa di vecchio, ormai ingabbiato all’interno delle scuole…
No, non credo affatto sia così. Credo che il jazz e tutta la buona musica finché sono suonati con passione esercitino un effetto benefico sulla gente, e questo non ha nulla a che fare col fatto che si tratti di un vecchio linguaggio o no. Le parole chiave per me sono passione, amore, sentimento, swing. È questo tutto ciò che conta. Tanta della musica dei giovani musicisti è molto, forse troppo intellettuale, e questo è l’unico commento un po’ negativo che mi sento di fare. Qualche volta non mi emoziona, ci sono tante note, troppa complessità. Per carità, non necessariamente tutto questo è negativo ma spesso questa musica non mi emoziona, non mi fa piangere, non mi fa venire voglia di ballare. E comunque questa è solo la mia personale opinione.

A molti dei suoi colleghi non piace il
termine jazz. Lei cosa ne pensa?
Non saprei. Yusef Lateef era uno di questi, anche a lui non piaceva la parola jazz. Anche a Max Roach non piaceva il termine jazz per via della sua origine etimologica. Non so se lo sai. Se cerchi la parola jazz nel dizionario, soprattutto in quelli vecchi, tra le sue definizioni troverai qualcosa che ha a che fare con l’atto sessuale. Da qualche altra parte se ne parla come qualcosa di rumoroso e discordante. Questa musica, all’inizio, era suonata nei bordelli e quindi a molta gente non piace venire accomunata a quell’immaginario che, nella loro testa, coinvolge un legame con qualcosa di infimo, di basso livello sociale e culturale.

Dove vive adesso?
Brooklyn, New York.

New York è ancora la mecca del jazz?
Sì, direi di sì. Per me lo è sempre stata. E lo è soprattutto oggi. A New York ci sono più club che in qualsiasi parte degli Stati Uniti: ogni sera puoi andare in almeno venti ottimi jazz club ed ascoltare ottima musica fatta da eccellenti artisti. In più ci sono molti posti, anche piccoli, in cui i giovani musicisti possono suonare e farsi le ossa e questa è una cosa molto positiva. Fuori da New York non è così. A San Francisco, per esempio, credo ci sia solo un importante jazz club, anche Chicago ne ha solo uno di importante. A Minneapolis c’è il Dakota Jazz Club, ma solo pochi di questi club ingaggerebbero un artista jazz per una settimana intera, non più di due o tre sere. Per cui sì, New York è ancora la mecca del jazz.

Nicola Gaeta

[da Musica Jazz, agosto 2018]