Il primo ad accennare all’esistenza di opere inedite di Jelly Roll Morton fu il critico Floyd Levin (American Rag, 11/97), ma a darne una conferma ufficiale sarà nel 1999 William Russell – scopritore di Bunk Johnson e altri leggendari pionieri, e fondatore della storica etichetta American Music – che nella sua monumentale opera Oh, Mister Jelly (Jazz Media, Copenaghen) pubblicherà gli spartiti di alcune composizioni e originali arrangiamenti per big band rimasti inediti. Tutto questo materiale era entrato nel frattempo a far parte della «Historic New Orleans Collection» fondata nella città del Delta dallo stesso Russell. Nell’elenco di tutte le composizioni di Morton pubblicato nella «Jelly Roll Morton Manuscript Music Collection», parte integrante del suddetto archivio e aggiornato da James Dapogny nel 2000, incontriamo originali rielaborazioni per grande orchestra di Finger Buster (con il nuovo titolo Finger Breaker), Mamie’s Blues, Swinging The Elks (ribattezzata We Are Elks), Mister Joe, Good Old New York, più quattro nuove composizioni dal titolo Oh Baby, Stomp And Go, Prologue Opening e Ganjam.
L’argomento, successivamente ripreso da Phil Pastras (Dead Man Blues, University Of California Press), da Howard Reich e William Gaines (Jelly’s Blues, Da Capo Press) e dal sottoscritto (Ring Shout, 3/04), meritava per la sua straordinaria rilevanza di essere approfondito e portato a conoscenza dei lettori della nostra rivista, visto che questa straordinaria scoperta contribuisce ad accrescere la grandezza di Jelly Roll Morton. Ambizioso come era, non amava vivere di ricordi e aveva già tentato di rinnovare il proprio repertorio inserendovi brani di chiara estrazione Swing (le versioni di Fickle Fay Creep, Burning The Iceberg, New Orleans Bump e Swinging The Elks ne costituiscono i più significativi esempi); così come, durante gli anni Trenta, non perdeva mai occasione di ascoltare le orchestre di Jimmie Lunceford (la sua prediletta) e Chick Webb e, pungolato dal successo arriso ad alcune delle sue più celebri composizioni, King Porter Stomp in testa, aveva pensato bene di integrare il suo famigerato biglietto da visita aggiungendovi «Inventore dello Swing».
Dal carteggio intercorso con Roy Carew (il suo ultimo editore musicale, con il quale aveva fondato nel 1938 la Tempo Music) e pubblicato nel succitato volume di Russell, si scopre per esempio che nel 1939, quando ancora viveva a New York, Morton aveva scritto un nuovo arrangiamento per big band di Swinging The Elks. E, nelle lettere indirizzate a Ed Garland (Russell, p. 556) ben prima del suo trasferimento a Los Angeles, già accennava al progetto di formare e dirigere una grande orchestra. D’altronde non è più un mistero che il nostro eroe rimase profondamente deluso quando nel settembre del 1939 la Victor (con la quale era rimasto in contatto e alla quale aveva sottoposto quel suo ambizioso progetto) gli offrì solo l’opportunità di organizzare una seduta – quella con Sidney Bechet e Albert Nicholas – in rigoroso stile New Orleans, rendendosi lui perfettamente conto dell’inutilità di riproporre stilemi ormai superati. Nei primi giorni di novembre del 1940, Morton, già minato nel fisico da asma, disturbi cardiaci, prime forme di artrite, e con non pochi problemi finanziari (Carey, truffandolo spudoratamente, si metteva infatti in tasca larga parte dei suoi diritti di autore), decise di trasferirsi in California, lasciando a New York la povera Mabel Bertrand, che non avrebbe voluto perderlo e che gli scriverà tante tenere lettere poi pubblicate nel volume di Russell.
A Los Angeles Jelly Roll Morton sperava di poter trascorrere più serenamente il suo ultimo scorcio di vita, allietato dalla presenza di Anita Gonzales, che non lo aveva mai dimenticato, e dal clima più favorevole. Con la vecchia Cadillac – il suo ultimo lusso – percorse in cinque giorni quasi duemila chilometri, fermandosi rapidamente nell’Oregon per rivedere Anita, che si era nel frattempo risposata con Jack Ford e che lo avrebbe raggiunto poche settimane dopo. I due sarebbero andati ad abitare nella casa del fratello di Anita, su Central Avenue. Nella capitale della California Morton ritrovò molti vecchi amici tra cui Kid Ory, Mutt Carey, Ed Garland, Bud Scott, con i quali era rimasto sempre in contatto, e strinse amicizia con David Stuart (noto produttore discografico e proprietario di un prestigioso negozio di musica), al quale amava raccontare i suoi trascorsi gloriosi portandolo in giro con la vecchia Cadillac (Russell, p. 191). E a Ed Garland, che godeva della sua piena fiducia, Morton affidò l’incarico di allestire un’orchestra, scegliendo come pianista Buster Wilson, un suo grande ammiratore. Il resto della formazione comprendeva Mutt Carey e Pee Wee Brice, trombe; Kid Ory e Jug Everly, tromboni; Wade Whaley, clarinetto; Theodore Bouner, Robert Garner, Alfonso George, sassofoni; Bud Scott, chitarra; Minor Hall, batteria. Le prove si tenevano alla Elks’ Hall sotto la direzione di Morton; il quale, se l’artrite alle mani glielo permetteva, sedeva al pianoforte.
«Era una gioia ascoltarlo, e ascoltandolo – lo racconta Garland (Russell, p. 557) – mi rendevo sempre più conto di quanto fosse grande sia sotto il profilo tecnico sia dal punto di vista creativo. La cosa che più mi sconvolgeva, da contrabbassista, era la sua mano sinistra: aveva ancora una spinta terrificante». Ogni seduta di prova durava ore e ore. Morton era esigentissimo e pretendeva che gli arrangiamenti venissero eseguiti così come li aveva scritti lui. Non tollerava errori, e le esecuzioni venivano ripetute fino alla perfezione. Continuava nel frattempo a promettere ai musicisti lauti compensi, che dovevano giungere da ipotetici ingaggi e da una vagheggiata seduta di incisione. In realtà l’orchestra non avrebbe mai avuto l’opportunità di esibirsi in pubblico, visto che di offerte di lavoro non ve ne furono mai: e questo, è giusto sottolinearlo, anche per il peggioramento delle condizioni di salute di Morton. Stante la situazione, Jelly Roll tentò – con l’aiuto di Benjamin Spikes – di aprire una nuova casa editrice musicale, la Broadcast Music Inn (BMI), cui cedere i diritti sulle sue nuove composizioni per non dipendere più dalla ASCAP, ma il progetto svanì sul nascere per l’ostruzionismo di Roy Carew, che non aveva alcun interesse a modificare quello stato di cose. Tale argomento fu trattato anche in un articolo di Down Beat del gennaio 1941.
A partire dalla primavera del 1941 le condizioni di salute di Jelly Roll Morton cominciarono a peggiorare, costringendo il pianista a supplicare Carew di spedirgli del denaro per comprare i farmaci più costosi. Il grosso del carteggio tra Morton e Carew (che occupa circa 150 pagine del volume di Russell) è peraltro rappresentato una lunga sequenza di lettere del pianista, che chiedeva invano conto dei diritti maturati sulle sue composizioni registrate e/o radiotrasmesse. Il povero Jelly aveva calcolato che Milenberg Joys, King Porter Stomp e Wolverine Blues fossero state radiotrasmesse, nell’arco di un anno, non meno di 4.000 volte e con un ricavato di 300.000 dollari (un dato che riportava anche l’articolo di Down Beat, con un esplicito riferimento a colui – leggasi Carew – che avrebbe dovuto incassarli). Ma le risposte di Carew contengono giustificazioni semplicemente risibili, accompagnate dalla spedizione di somme irrisorie: praticamente elemosine.
Il motivo per il quale Morton continuò a farsi prendere in giro da Carew era e resta un enigma. Mentre sono più che evidenti le ragioni per cui Russell, che puntava a ottenere da Carew il materiale che quest’ultimo gli avrebbe, in effetti, poi lasciato in donazione, si guarda bene dall’esprimere giudizi sul suo vergognoso comportamento nei confronti del malconcio Morton. Nel maggio del 1941 Jelly Roll Morton era arrivato ormai al limite della sopravvivenza e riusciva a malapena a racimolare qualche soldo per mangiare.
Venne quindi ricoverato dapprima al Los Angeles Sanitarium e poi all’ospedale della Contea, dove avrebbe finito di soffrire pietosamente assistito dalla povera Anita. Quando morì, Morton aveva soltanto debiti, incluso il conto della degenza ospedaliera. I suoi unici beni consistevano in un centinaio di dollari, nei vestiti che aveva addosso e in una cinquantina di dischi Victor. Al suo funerale, celebrato in forma davvero misera, andarono in pochi. Tra questi, oltre ad Anita, i colleghi Ory, Carey, Scott e Garland, che si presero la bara sulle spalle. Tra le assenze non passarono inosservate quelle di Ellington (che suonava al Mayan Theatre di Los Angeles) e di Lunceford (di scena alla Casa Manana), i quali non sentirono neanche il bisogno di inviare un biglietto di condoglianze. Per non parlare di quella di Roy Carew, che addusse impegni di lavoro. Morton fu poi tumulato in una fossa provvisoria senza nome, dove rimase per dieci anni. Solo all’inizio del 1950 la Southern California Hot Jazz Society investì 250 dollari per acquistare una tomba e dare finalmente a Jelly Roll Morton una decorosa sepoltura. Il fisco calcolò un imponibile di 7.500 dollari percepito da Morton a titolo di diritti d’autore, un’autentica miseria rispetto ai milioni che avrebbe dovuto incassare dalla ASCAP. Nel 1958 la stessa ASCAP erogava una somma di 12.800 dollari alla vedova, nel frattempo deceduta; nel 1965 altri 116.000 dollari che finirono nelle tasche di Jack Ford, il nuovo marito – oltre che erede – di Anita Gonzales e che avrebbe finito per arricchirsi con i diritti di autore che le composizioni di Morton continuavano ad accumulare. Reich e Gaines (Jelly’s Blues, p. 243) hanno calcolato che nell’ultimo ventennio del secolo passato, grazie alle sole esecuzioni della Smithsonian Jazz Orchestra, della Lincoln Center Jazz Orchestra, del Chicago Jazz Ensemble e ai compensi per riprese televisive e cinematografiche, Morton avrebbe potuto maturare non meno di tre milioni di dollari in diritti di autore.
Ciò detto, possiamo adesso affrontare il problema delle partiture dei brani originali e dei nuovi arrangiamenti per grande orchestra che Morton aveva affidato a Buster Wilson. Costui, dopo la morte di Jelly Roll, li custodì gelosamente rifiutando sempre di cederli. Soltanto dopo la scomparsa del marito, la moglie di Wilson avrebbe accettato l’offerta di Russell. Nel carteggio con Roy Carew, tra maggio e giugno 1941, Morton nomina una sola volta i suoi nuovi arrangiamenti per grande orchestra, allegandovi lo spartito di We Are Elks (che, in effetti, compare nell’elenco delle sue ultime composizioni pubblicate dalla Tempo Music) senza mai accennare ad altre sue opere completamente originali. Due sono le più plausibili spiegazioni di questa voluta omissione. È possibile che Jelly le considerasse ancora incomplete oppure imperfette e quindi non ancora pronte per essere pubblicate (tesi peraltro poco credibile considerando la famigerata presunzione del Nostro, che avrebbe avuto tutto l’interesse a vantarsene). È assai più probabile che Morton, rendendosi finalmente conto della disonestà di Carey, evitasse di parlargli di queste nuove composizioni preferendo cederle ad altri. I nuovi arrangiamenti di Finger Buster, Mamie’s Blues, Mister Joe, Good Old New York, Swinging The Elks dimostrano sostanzialmente l’influenza esercitata su Jelly Roll Morton dalle orchestrazioni di Jimmie Lunceford e non presentano particolari elementi di novità. Il più interessante è forse quello di We Are Elks, caratterizzato da una felice fusione di stilemi – marcia, Dixieland e Swing – e favorito dalla piacevole originalità che già contraddistingueva quello di Swinging The Elks.
Ben diverso il discorso per le quattro composizioni originali: Oh Baby, Stomp And Go, Prologue Opening e Ganjam. Prologue Opening (Russell, p. 608), che prevede una parte di violino, strumento che Morton aveva utilizzato solo nella versione di Someday Sweethart, (Victor, 1926) sembra quasi una rielaborazione per grande orchestra di Jelly Roll Blues. Stop And Go è un’opera molto complessa e armonicamente assai ardita. Restando sempre nell’ambito della tonalità, Morton inserisce accordi di settima e di undicesima chiaramente dissonanti. Il relativo manoscritto (infarcito di correzioni, segno evidente che il suo autore non lo considerava ancora definitivo) è integralmente pubblicato nel volume di Russell, che ne offre un personale commento.
Oh Baby e Ganjam furono eseguite in pubblico per la prima volta, assieme a Mister Joe e We Are Elks, nel maggio 1998 all’Heritage Jazz Festival di New Orleans dall’orchestra di Don Vappie, che era riuscito ad entrare in possesso dei relativi spartiti in anteprima. A proposito di Ganjam, Barry Mc Rae (Jazz Journal) e Howard Reich (Chicago Tribune) hanno parlato di una polifonia così libera e dissonante, in rapporto all’epoca in cui fu scritta, da ricordare le opere di Mingus di fine anni Cinquanta. Reich, in particolare, ha sottolineato come l’opera sia stata concepita e sviluppata da Morton a mo’ di sinfonia, con un primo e un secondo tema, uno sviluppo e una ricapitolazione. Il tutto costellato di accordi complessi e imprevedibili modulazioni su un sottofondo spagnolesco. Qualcosa che nel jazz non si era mai ascoltato prima degli anni Cinquanta. Se Ganjam, che sarà esaminata in maniera più approfondita, è stata certamente scritta da Jelly Roll Morton visto che disponiamo della partitura autografa, non altrettanto può dirsi di Oh Baby, il cui spartito non autografo è stato ugualmente inserito nel catalogo ufficiale delle composizioni di Morton con la dicitura «Not in his own hand». Sull’effettiva autenticità dello spartito di Oh Baby sono stati espressi dubbi che riteniamo peraltro infondati. In primo luogo perché la partitura del brano, un tema di 32 misure in forma AABA basato su di un arrangiamento di pretta matrice Swing non particolarmente originale, contiene soluzioni armoniche e di tessitura orchestrale simili a quelle che contraddistinguono Stop And Go. In subordine, per la chiara individuazione di elementi di continuità con le innovazioni che Jelly Roll Morton aveva già introdotto nei temi in forma canzone registrati nel biennio 1929-30 con i Red Hot Peppers, da Pretty Lil a Sweet Anita Mine, dove Morton aveva per esempio già sperimentato lo special di sassofoni.
Tornando a Ganjam, il musicologo Leo Izzo (Ring Shout, cit., p. 21) ha analizzato scrupolosamente lo spartito originale (da noi recuperato direttamente presso l’archivio di William Russell con il prezioso aiuto di Bruce Raeburn) che, risultando incompleto e costellato di correzioni non tutte di facile comprensione, necessitava di integrazioni necessarie a interpretare nel modo più autentico il pensiero dell’autore. Da una simile approfondita indagine emergono, in tutta la loro evidenza, le rilevanti novità di un simile brano rispetto ai classici stilemi mortoniani: dalla dimensione dell’orchestra così come concepita (tredici elementi) alla durata dell’esecuzione, di gran lunga superiore a ogni altra sua opera. Basandosi sul numero di battute della composizione, e tenuto conto delle ripetizioni dei temi in cui la stessa è articolata, Izzo ha calcolato una durata non inferiore ai sei minuti. Sempre dalla stessa analisi rileviamo come il brano in questione sia articolato in diversi episodi musicali, che non seguono alcuno schema formale e che presentano aspetti particolarmente innovativi (come le successioni accordali non convenzionali e l’invenzione melodica libera da vincoli tonali), e sia caratterizzato da una scrittura quanto mai avanzata e dissonante.
Un’altra rilevante novità è rappresentata dal ricorso ciclico al vamp (ripetizione di una breve cellula melodico-ritmica) per conferire all’esecuzione un tocco apparentemente esotico ma in realtà perfettamente connaturato alle radici africane (leggasi iterazione). Una formula che Morton aveva in precedenza utilizzato solo sporadicamente e incidentalmente in Jungle Blues, New Orleans Bump e Fickle Fay Creep. Nel concludere la sua lunga e scrupolosa analisi, Izzo sottolinea come la modernità di Ganjam emerga non tanto dall’uso di scale simmetriche o di successioni accordali eccentriche quanto dalla logica strutturale e dal lavoro di elaborazione melodica che conferisce coerenza al brano.
«Quando la dissonanza non serve ad aggiungere ornamenti modernisti od orientalisti alla superficie del brano, ma si innesta sul principio di variazione melodica, allora il pensiero compositivo di Morton appare veramente innovativo per non dire rivoluzionario». Una versione di Ganjam ricavata dallo spartito originale di Morton, semplificata nella struttura orchestrale e accorciata nella durata (cinque minuti) per essere adattata ad un organico più ridotto, è stata registrata dal trombettista Randy Sandke nel 2005 con una formazione comprendente Wycliffe Gordon e Ray Anderson (tromboni), Marty Ehrlich, Ken Peplowski, Scott Robinson (clarinetti e sassofoni), Uri Caine (piano), Howard Alden (chitarra), Greg Cohen (contrabbasso), Dennis Mackrel (batteria) e successivamente pubblicata nel cd «Out Side In» della Evening Star. Versione che veniva poi inserita da chi scrive nel cd «Hot Piano» di Jelly Roll Morton allegato al numero 55 di Jazzit (2009).
Dall’ascolto diretto di questa incisione affiorano non pochi degli elementi già individuati da Izzo. L’introduzione è in effetti caratterizzata da un vamp di pianoforte e ritmi (reso più lugubre dai rintocchi del gong) che riaffiora ossessivamente per quasi metà dell’esecuzione facendo da collante alle diverse sezioni. Su questo sottofondo ossessivo si innesta la voce del clarinetto, che esegue nel registro grave una seducente malinconia dai colori orientaleggianti che viene ripresa dalla tromba con sordina. È quindi la volta del trombone che introduce un secondo tema assai più articolato e meno lineare del precedente, restando inalterato il giro armonico. I tre fiati danno poi vita a una polifonia di stampo New Orleans, sostenuta dai riff della sezione dei sassofoni e dallo stesso ossessivo sottofondo ritmico. A questo punto la tromba prende il sopravvento, riproponendo il tema base in una tonalità più alta rispetto alla ragnatela elaborata dagli altri fiati. Ricompare quindi la voce del clarinetto, che espone il tema nel registro e nella chiave iniziali. Un inciso che prelude all’esplosione degli ottoni e delle ance i quali, ora all’unisono ora in armonia, ripropongono il tema base in termini ben più complessi, tortuosi e volutamente dissonanti (connotati, questi, che sembrano davvero anticipare le tipiche sonorità laceranti di Mingus). Su questa polifonia libera, per non dire decisamente free, torna a innestarsi la voce del clarinetto in una folle improvvisazione sul registro acuto: e, con il rintocco del gong, l’esecuzione termina in maniera volutamente brusca e imprevedibile.
In conclusione, non vi è dubbio che con Ganjam Jelly Roll Morton compia uno straordinario salto in avanti, non soltanto rispetto al suo precedente percorso stilistico ma anche relativamente al linguaggio jazzistico dell’epoca, apportando soluzioni atte a rinnovarlo radicalmente. Tutto questo rafforza l’immagine di un genio sostanzialmente incompreso e ancora sottovalutato, se davvero può essere oggi considerato un anticipatore del jazz «d’avanguardia».
Giorgio Lombardi