Nelle leggende dell’antica Cina il drago è associato al bene, alla gioia e alla fecondità: signore incontrastato dei quattro elementi, rappresenta il tutto e la vita, cioè una visione opposta a quella europea e medioevale, fatta di lucertoloni poco rassicuranti, temuti e combattuti come banco di prova di una mitologia cavalleresca giunta sino ai giorni nostri. Scrivere di Fred Ho è come scrivere di un drago cinese.
Nato Fred Wei-han Houn nel 1957 a Palo Alto da genitori cinesi, il sassofonista, compositore, sociologo e rivoluzionario dell’arte è una figura difficilmente classificabile, che attende ancora una valutazione più specifica e organica. La sua curiosità e la fine competenza lo portarono a essere un compositore originale, uno scrittore arguto, un potente teorico dell’arte e un militante per la libertà. La sua evoluzione artistica, i suoi dischi e i suoi libri lo testimoniano, come pure il bellissimo documentario di Steven De Castro incentrato sull’ultimo suo anno di vita, epilogo della strenua battaglia combattuta contro il cancro.
L’apporto della cerchia culturale degli Asian-Americans al jazz è sempre stato ben poco visibile nelle cronache della nostra musica e non è mai stato oggetto di analisi musicologica e storiografica, presumibilmente a causa dell’adozione di un approccio culturale opposto a quello africano, fatto di isolamento e chiusura verso l’esterno, come forma di protezione degli valori costituenti e identitari.
Ma è possibile analizzare una corrente ideologica e artistica non guardando l’insieme? Si può ipotizzare che una minoranza tanto importante (una forza lavoro di molte migliaia di uomini, usata nei cantieri ferroviari e per la costruzione delle maggiori infrastrutture) possa non aver influito sull’evoluzione della cultura statunitense?
La risposta è scontata: per quanto non storicizzato, l’impatto degli Asian-Americans sullo sviluppo delle correnti di pensiero artistiche degli anni Settanta e Ottanta è evidente e ben documentato. Di quel gruppo Fred Ho fu un esponente di primo piano. Associando lo studio del sax baritono (prevalentemente da autodidatta) a quelli universitari in sociologia, per tutta la vita mise gli uni in relazione agli altri, costruendo una poetica della liberazione del tutto originale, che lascia a noi il compito di continuare a interrogarsi sui rapporti tra politica e arte.
«L’arte rivoluzionaria deve ispirare uno spirito di sfida: l’orgoglio nazionale o di classe di resistere alla dominazione e alla sua ideologia. L’arte rivoluzionaria deve stimolare e umanizzare; non pacificare, confondere e desensibilizzare»: già da questa affermazione si evince quanto Ho fosse calato nell’analisi dei sistemi produttivi del music business. I suoi gruppi stabili nacquero rispettivamente del 1980 (Monkey Orchestra) e nel 1982 (Afro Asian Ensemble) e furono il motore musicale della sua immaginazione e della sua progettualità, che accolse l’opera cinese, le arti marziali, i balletti in dischi con la capacità evocativa delle leggende e un impianto estetico da blaxpoitation, di cui era appassionato, collezionandone le colonne sonore. Parimenti esplicito, senza infingimenti, era il suo debito intellettuale nei confronti delle visioni di Sun Ra.
Fred Ho costruì così ensemble ampi in cui la scrittura si alternava al free, mescolando sonorità e melodie folk asiatiche e africane con una scrittura densa – a tratti orgiastica – e gettando l’ennesimo ponte tra scrittura per orchestra post free, Ellington e Mingus: al Duca rendeva spesso omaggio in arrangiamenti sempre al limite del grottesco ma mai fini a se stessi, con una sorta di spirito pop (erano gli anni Ottanta) associato all’evidente necessità di creare una personalità e difendere i propri interessi. Per la prima volta strutture ritmiche della Cina tradizionale si tingono di blues; le asimmetrie melodiche e i cicli ritmici del lontano Oriente vengono usati in modo organico in una prospettiva di composizione inclusiva e cangiante e, caso raro nel jazz di quegli anni, parlano di liberazione, ecologia, lotte e libertà. «Turn Pain Into Power», «Freedom Now», «We Refused To Be Used And Abused» sono solo alcuni titoli dei dischi che Ho produsse negli anni Novanta a testimoniare sia una ben precisa visione politica della musica (che si associava a molte produzioni di quegli anni ma ben difficilmente nel jazz) sia il rapporto con la Soul Note, che gli diede spazio.
Come sassofonista, Ho possedeva uno dei suoni più potenti e agili nella storia del sax baritono, usato come motore propulsivo ma anche con le sue doti da leader melodico e timbrico. La sua voce originale trovò spazio anche nel capolavoro di Julius Hemphill «Five Chord Stud» (Black Saint), in cui affiancava sassofonisti di tutto rispetto e dal roseo futuro. Ho sintetizzò nel suo solismo vari mondi, la cui emanazione erano le composizioni per grandi organici.
Pare non ci sia campo dello scibile musicale con cui non si sia confrontato, riuscendo in totale indipendenza ad assicurarsi finanziamenti per mettere in atto le proprie strategie in totale libertà e costruendo a tutti gli effetti una piattaforma unica di affrancamento dal sistema mercato e dai suoi stilemi. Su questo le generazioni attuali dovranno pur confrontarsi per mantenere possibile un’indipendenza non solo produttiva ma anche artistica.
Anche la battaglia contro la malattia divenne una potente operazione divulgativa, con libri e video ed esibizioni fino al 2013. La sua lotta lo portò ad affermare con forza la possibilità di potersi trasformare in un vero guerriero. Ho era cosciente che quella trasformazione non potesse essere una cura; ma la possibilità di continuare fino alla fine a tenere seminari, concerti in solo, dirigere gruppi, insegnare e formare strategie di aggregazione intorno a una necessità culturale di condivisione e divulgazione, in cui scrittori, sociologi, storici, musicisti, registi e persino stilisti (amava vestire con abiti cuciti a mano e non industriali, con disegni che evocavano la sua ricerca di identità e artistica) ruotavano intorno alla sua figura di uomo, artista e rivoluzionario.
Alla fine del proprio percorso intensificò i concerti in solo, dimostrando la grandissima tempra che gli permise di suonare il sax baritono in brevi composizioni dai titoli sempre eloquenti come Free New Afrika! Boogaloo o Fishing Song Of The East China Sea e mantenendo saldi elementi poetici ed estetici in cui l’arte rivoluzionaria diventava motivo di resistenza e possibile futuro. I titoli evocano la partecipazione, le melodie affrescano una tradizione urbanizzata e post coloniale e il ritmo è usato come medium per arrivare al pubblico e alla sua capacità di pensare e agire.
La musica e l’arte sono viste come strumenti per migliorare la condizione delle persone, renderle coscienti e capaci di cose più alte: evocazione e coinvolgimento raffinati e sperimentali, e tuttavia sempre al servizio di un ascolto non intellettuale ma archetipico e rituale, capace di sintetizzare le molte anime della contemporaneità in una proposta transtradizionale e visionaria, che parla ogni lingua del pianeta, balla su ogni ritmo e forgia all’interno del melting pot degli Stati Uniti un’arma da usare per ricordare che la musica di una minoranza è quella capace di parlare a chi è emarginato e non sospetta di avere un futuro né riesce a ricordare di avere un passato.
Fred Ho fomentava possibili scelte, visioni alternative su cui fondare i dibattiti attuali sulla forza comunicativa della nostra musica, sulla capacità di veicolare senso attraverso l’arte: un dibattito più che mai attuale e pianificabile ormai in una logica globale, facendo apparire sempre più scialbe le distinzioni nazionali e innescando un processo di comprensione di una nuova sociologia della musica, capace di identificare in netto anticipo le forzature politiche e proporre la possibilità di visioni differenti.
La vita di Fred Ho è stata un atto di amore per le persone, per le loro possibilità, per renderle più consapevoli e pronte ad amare. Un messaggio non distante da quello degli ultimi anni di Coltrane ma con la forza eversiva che sorge dal passato, dalla musica di Mingus, e con la capacità visionaria di Sun Ra. Il tutto da una prospettiva personalissima e fortemente identitaria, sempre, fino alla fine: il 12 aprile 2014.