Dominic Miller: Absinthe

di Alceste Ayroldi

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Dominic Miller (foto di Christoph Bombart)
Dominic Miller (foto di Christoph Bombart)

Dominic Miller, «il chitarrista di Sting», abusata definizione che però a lui non dispiace, pubblica un nuovo album di gran classe con un gruppo di alto livello

Dominic, parliamo del tuo nuovo album «Absinthe». Innanzitutto, vorrei chiederti perché hai scelto questo titolo.
In realtà il titolo dell’album, così come anche il tema portante dello stesso, deriva dalla mia passione per la pittura impressionista francese. Mi appassionano l’uso del contrasto e una certa vena «psichedelica», e ho voluto rendere omaggio a questa corrente che ha influenzato anche la mia visione della musica. L’assenzio è ovviamente un liquore, ma non solo questo: è anche uno stato della nostra mente, così come lo descrisse nel suo ritratto Edgar Degas.

C’è qualcosa in questo album che mette in luce le tue radici argentine.
Senza dubbio. Sono nato in Argentina e, probabilmente, nella mia musica si ascoltano i paesaggi sonori del mio Paese natio. Il bandoneón, che in questo disco è utilizzato e suonato da Santiago Arias, descrive ancor meglio queste sonorità, anche se per lo più è utilizzato nei contesti del tango; ma qui lo adopero nel contesto più globale del sound.

Parlando dei musicisti, rispetto ai precedenti tuoi lavori «Ad Hoc» e «5th House», Mike Lindup a parte, è del tutto cambiata. Perché hai scelto questi nuovi compagni di viaggio?
Cerco sempre di fare qualcosa di diverso e di non ripetermi. Comunque, alcuni dei miei musicisti sono inossidabili, come Nicolas Fiszman con il quale collaboro da circa quindici anni; poi c’è Mike Lindup dei Level 42, che lavora con me già da qualche tempo e col quale ho già realizzato alcuni progetti, mentre con Manu Katché ho lavorato anche in certi album di Sting. Inoltre c’è Santiago Arias al bandoneón, che in questo disco gioca un ruolo molto importante. In verità, la scelta più significativa è quella di far parte della squadra ECM e di poter collaborare con Manfred Eicher, che è sicuramente l’uomo in più in questo album.

Dominic Miller (foto di Christoph Bombart)
Dominic Miller (foto di Christoph Bombart)

Anche se non nel senso stretto del termine, è un concept album?
Non credo che lo si possa definire tale, anzi direi che proprio non lo è.

Dominic, adesso ti elencherò i brani dell’album e tu ci dirai qualcosa per ciascuno. Cominciamo con Mixed Blessing
Questo brano racconta delle mie radici nella musica folk americana, che adoro, come quella di Neil Young (anche se lui è di origini canadesi) o di Paul Simon. Ma il titolo del brano è ispirato da una canzone di un mio amico cantante. Il significato di Mixed Blessing è ciò che può capitarti nella vita, ciò che può darti dei vantaggi ma che non si mostra sempre visibile.

Verveine.
È un tipo di tè a base di verbena che mi moglie prepara ogni sera. Adoro il profumo che sprigiona questa erba tipicamente francese.

La petite reine.
È un modo francese per definire la bicicletta e, quindi, evoca un movimento circolare.

Christiania.
È una piccola comunità indipendente, un quartiere in Copenaghen dove sono stato un paio di volte. È una comunità libera, dove non c’è polizia, dove ci sono hippies che, già dagli anni Settanta, si presero cura di questo quartiere che era diventato una specie di dormitorio-ghetto e lo hanno reso bello e vivibile. Lo amo particolarmente, perché le persone sono veramente belle, serene e tutto ciò che ci può essere di malvagio viene tenuto opportunamente fuori.

Il gruppo di Dominic Miller (al centro), con Mike Lindup, Santiago Arias, Manu Katché 
 e Nicolas Fiszman.
Il gruppo di Dominic Miller (al centro), con Mike Lindup, Santiago Arias, Manu Katché
e Nicolas Fiszman.

Étude.
Molto semplicemente si tratta di uno studio, che ho preferito definire in francese e non in inglese perché la melodia è d’ispirazione tipicamente francese. Ed è un omaggio ai compositori francesi e ai loro modelli di studio, oltre che a Heitor Villa-Lobos. E questo è il mio studio, perché penso che la pratica strumentale sia fondamentale per ogni musicista.

Ombu.
È il nome di un albero che cresce in Sud America, in particolare nella pampa argentina dove sono nato, che mi riporta alla mia infanzia e ai miei luoghi natii. Quindi è il mio personale omaggio alle mie radici sudamericane.

Ténèbres.
Evoca le tenebre, le ombre, qualcosa di scuro, come il mio gatto che ha questo nome! E io lo amo moltissimo. La musica evoca il suo passo felpato e un po’ sinistro…

Saint Vincent.
È dedicata al chitarrista del Camerun Vincent Nguini, che è stato per lunghi anni un fedelissimo di Paul Simon. L’ho seguito per lungo tempo e ha abbastanza influenzato il mio modo di intendere la chitarra. È morto nel dicembre 2017, aveva solo sessantacinque anni. È stato per me un mentore. L’ho voluto definire «santo», perché a mio avviso è il principale responsabile del «Rhythm Of The Saints» di Simon.

Questo è il tuo secondo album prodotto e pubblicato da ECM. Come è iniziata la tua collaborazione con Manfred Eicher?
Trascorrevo le vacanze con la mia famiglia a Saint-Tropez, perché non avevo impegni nel mese di agosto. Quando chiamai il mio manager per sapere se ci fossero aggiornamenti per eventuali impegni, lui mi disse: «Non ha chiamato nessuno, tranne Manfred Eicher che ti vuole incontrare!», «Davvero?! E cosa vuole da me?». «Solo che vorrebbe incontrarti». Così fu, facemmo una bella e lunga chiacchierata e verificammo come fossimo d’accordo anche sul reciproco gusto musicale. Allora è iniziata la nostra collaborazione, della quale io sono felicissimo, perché è un onore far parte di una casa discografica così attenta ai musicisti e al suono. Penso di aver avuto un’occasione favolosa.

Dominic Miller «Absinthe»
Dominic Miller «Absinthe»

Un domanda a bruciapelo: il tuo disco è di jazz?
Non è proprio jazz: ovviamente io non sono un jazzista, se con questo termine intendiamo definire i grandi come John Coltrane, Charlie Parker o Miles Davis, Dizzy Gillespie, Herbie Hancock: tutta gente che ha sempre fatto jazz, alcuni di loro quasi esclusivamente. Io suono musica strumentale ma non prettamente jazz, intendendo questa musica secondo degli schemi precostituiti. Però amo il jazz e la sua filosofia. Il fatto che io abbia inciso per ECM non fa del mio lavoro un disco jazz. ECM è una casa discografica che si occupa anche di altre musiche, dalla classica contemporanea all’avanguardia, e non si pone barriere di genere.

Facciamo un passo indietro tornando al tuo album «First Touch» e, in particolare, al brano La Boca. Potresti dirci qualcosa di più a riguardo di questa composizione?
Si ispira alla città di Buenos Aires. La Boca è il nome originario della città dove sono nato e dove il ritmo è segnato dal tango, che io evoco con la chitarra. È il mio personale omaggio alle strade della mia città natale, anche se non sono un tifoso della squadra del Boca Junior bensì del River Plate.

Dunque sei nato a Buenos Aires, tuo padre è statunitense, tua madre è irlandese e vivi in Francia. Ti senti più argentino, francese, statunitense o irlandese?
Dipende. A essere sincero non mi sento di appartenere a un Paese in particolare. Mi sento a casa quando sono con la mia famiglia, indipendentemente dal posto in cui mi trovo. Non credo di potermi associare a un posto ben determinato: mi capita di trovarmi in tante situazioni diverse e cerco di viverle nel miglior modo possibile.

Quando eri giovane che musica ascoltavi?
Ascoltavo una specie di cocktail tra Beatles, Rolling Stones e Antônio Carlos Jobim, che è stato molto importante per la mia formazione musicale. Poi ascoltavo anche Jimi Hendrix e la musica folclorica argentina, non solo tango. Inoltre anche parecchia musica sacra, così come la musica venezuelana e quella caraibica.

Usi solo la chitarra per comporre?
Principalmente sì: la uso nel momento in cui ho già in testa quel che vorrei sentire.

Chi sono i tuoi mentori?
Probabilmente Jimi Hendrix ed Egberto Gismonti, così come non posso trascurare Tom Jobim. Ma in tanti hanno contribuito alla mia crescita e formazione: da Bach a Stevie Wonder.

Spulciando tra le molte pagine del web che trattano di te, nella maggior parte dei casi vieni definito come il chitarrista di Sting. Non sei stanco di essere etichettato in questo modo?
No, assolutamente no. In realtà non può che farmi piacere; oltretutto è la verità e si tratta di una parte molto importante della mia carriera. Penso, anzi, che sia un complimento, e sono orgoglioso di poter essere definito come il chitarrista di Sting.

A tal proposito, la tua lunga collaborazione con lui ha influenzato in qualche modo la tua evoluzione di musicista?
Sì e in larga misura. Il modo di strutturare la musica, di raccontare una storia, di costruire le architetture della musica, di ascoltare la musica sono tutte cose che, con (e grazie a) Sting, hanno subito una logica evoluzione.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Fare musica, continuare a migliorare, fare nuove conoscenze e collaborare con altri musicisti. Al momento, ovviamente, sono alle prese con il tour di presentazione del nuovo album e sono particolarmente emozionato e onorato di poterlo presentare anche in Italia, anche per la sua importante tradizione musicale.

Alceste Ayroldi

[da Musica Jazz, marzo 2019]