Neil Young: canzoni da una notte buia

di Riccardo Bertoncelli - foto di François Lochon

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Un live inedito torna a illuminare una zona oscura e gloriosa della discografia di Neil Young. Brividi e good vibrations.

È sempre difficile star dietro a Neil Young, specie negli ultimi tempi. Se non è in studio a progettare dischi nuovi, è impegnato su qualche palco in una sua specie di «never ending tour» o immerso nella nastroteca di casa, che sta assumendo dimensioni zappiane. Fruga, riscopre, restaura. Dopo anni di promesse da marinaio, ha completato il lavoro di digitalizzazione del suo immenso archivio che è finalmente ordinato e disponibile online, consultabile gratuitamente (per ora) al sito neilyoungarchives.com. Un investimento commerciale, certo, ma anche un esercizio spirituale. Ritrovando, riascoltando, l’incazzoso Neil ha fatto pace con certe zone d’ombra del suo passato, rimettendo all’onor del mondo il più detestato album del suo catalogo, «Time Fades Away», riaccogliendo con amore il figliol prodigo cacciato di casa cinquant’anni orsono (il terzo lp Buffalo Springfield). Qualche riscoperta invece ha l’aria della rivincita: ascoltate «Hitchiker», l’album rifiutato del 1976 edito qualche mese addietro, e dite se non fu un crimine non averlo pubblicato all’epoca, con tutta quella sua naiveté che fu scambiata per sciatteria e invece era puro distillato di Neil Young, bucce e graspi compresi.

L’ultimo ritrovamento è ancora meglio. È un live del 1973 a Los Angeles, con i musicisti che avevano appena finito di registrare «Tonight’s The Night» e, anzichè andarsene a festeggiare da qualche parte del mondo, scelsero di inaugurare un club che sarebbe diventato famoso, il Roxy, suonando e risuonando in più serate il repertorio che avevano appena fissato su nastro. La performance è notevole, la qualità sonora ottima; e si può aggiungere il bonus che il nastro non ha mai girato, né in originale né in copia, sfuggendo miracolosamente ai tombaroli bootleg. Ma non è solo quello: è che «Tonight’s The Night» è un’arteria vitale dell’organismo younghiano, un disco inquietante e misterioso che spiega tanto della prima, faticata maturità del nostro Shakey.

Si può partire da «Harvest» e da un paradosso. Registrato nel corso del 1971, quel disco è il più famoso (e venduto) del Neil Young anni Settanta ma quello che lo spiega meno, anzi, quasi lo dissimula, lo equivoca. È un disco chiaro, sedato, rotondo, quando il ragazzo sulla via dei trent’anni è tutt’altro. È la fotografia di un momento passato in fretta. «Tutti hanno detto che «Harvest» è stato un viaggio», racconterà anni dopo, «per me si è trattato solo del posto e del momento giusti per fare un disco molto morbido e sincero, perché all’epoca la mia vita andava così. Ma è durata solo un paio di mesi. Se fossi rimasto lì, chissà dove sarei adesso. Sono cambiato, tutto qui. Credo che «Harvest» sia stato il disco più raffinato che io abbia fatto, ma “raffinato” per me è un aggettivo molto limitante». Quando «Harvest» esce, a febbraio del 1972, Young è già su un’altra lunghezza d’onda. È pieno di idee che però non coltiva con gioia, è sentimentalmente confuso e vive con apprensione e dolore la storia di due cari amici, il chitarrista Danny Whitten e il roadie Bruce Berry, che l’eroina si sta portando via. Whitten è una colonna dei Crazy Horse, il suo chitarrista perfetto, e una canzone di «Harvest», The Needle And The Damage Done, ha drammaticamente lanciato l’allarme. Morirà a novembre, lasciando Young confuso e stordito, tagliato in due dalla forbice di quella realtà e dai sogni e desideri dei fans che vogliono credere invece a quell’altra canzone così dolce, così speranzosa, Heart Of Gold.

Neil Young e i Crazy Horse, 1975

Il tour di «Harvest» parte senza Whitten e per Young è uno strazio. Tutti premono perchè sfrutti il momento d’oro ma lui ne ha poca voglia, e non lo aiutano le richieste economiche dei musicisti, che creano un clima di freddezza e distacco all’interno della band, e il fatto di suonare in spazi grandi e anonimi, dove non scatta quel feel che ha sempre cercato e sempre cercherà – «voglio vedere in faccia la gente per cui suono e voglio che ogni spettatore sappia che la musica è tutta per lui». La casa discografica insiste per un nuovo disco e Young la accontenta con una bislacca idea che è un po’ sfida e un po’ provocazione: uscirà un’antologia di quel tour però con pezzi solo inediti, spesso provati poco, volutamente grezzi. Il risultato è «Time Fades Away», un album che l’autore definirà un giorno come il peggiore della sua carriera, con il paradossale pregio di essere uno dei più onesti: la fotografia di un disagio se non di un disastro, l’anticlimax quasi perfetto di «Harvest». Capirà il pubblico che Neil Young non è un cuoricino d’oro e il Perfetto Folksinger chitarra-voce? Nel dubbio che non lo faccia va in studio e nell’estate 1973 pianifica un album verité dove raccontarsi senza maschera, spietatamente, chiamando paure e inquietudini per nome: «Tonight’s The Night». A giugno è morto anche Bruce Berry, il roadie di Crosby, Stills, Nash & Young, e anche quello diventa canzone, nera pietra d’angolo per il nuovo edificio musicale.

«“Tonight’s The Night” non è un disco amichevole», confesserà al momento dell’uscita. «È realistico, punto. O ti va di ascoltarlo o non ti va… Va ascoltato di notte, perchè di notte è stato realizzato. Al mattino bisogna mettere su i Doobie Brothers, loro sì che vanno bene prima di mezzogiorno. Questo disco no. È fatto apposta per la notte.» C’è in effetti qualcosa di tenebroso in «Tonight’s The Night», e non solo per il titolo o per la veste grafica che immerge tutto in un nero senza scampo. Il rock della title track è lancinante e stabilisce la linea dell’album, e il canto è spigoloso anche quando il rumore della musica si attenua in braccio a ballads strazianti: Mellow My Mind, New Mama, quella Borrowed Tune che senza nasconderlo si appoggia alla Lady Jane degli Stones. Proprio quel brano, nel suo stordito candore, spiega il momento e l’umore, più ancora della title track che urla la morte di Berry senza velare niente, più di Tired Eyes che mette in scena un sanguinoso regolamento di conti fra spacciatori di droga. «Mi arrampico su questa scala/ la testa fra le nuvole/ spero che voglia dir qualcosa/ ma ho tanti dubbi», recitano i versi. «Canto questo motivo in prestito/ L’ho preso dai Rolling Stones/ Da solo, in questa stanza vuota/ Troppo devastato per scriverne uno mio».

La gestazione dell’album è lunga, Young passa settimane a suonare e risuonare le nuove canzoni con un gruppo di musicisti che chiama The Santa Monica Flyers: con i due cavalli rimasti, Billy Talbot e Ralph Molina, ci sono Ben Keith alla pedal steel e Nils Lofgren, un amico fidato che sa fare tanto e si alterna a chitarra, piano, canto. Le registrazioni sono una specie di prolungata veglia funebre e forse per quello, alla fine, monta la voglia di esorcizzare i cattivi spiriti e di sfogare l’energia compressa. Sta aprendo un locale sul Sunset Strip, il Roxy, e lì i Flyers si rifugiano non appena finito il lavoro in studio, fortunatamente accompagnati da uno studio mobile che li registra. Suonano due set al giorno per tre giorni ed è il live di queste settimane, fugando alcune delle ombre che pesavano sulle loro teste, dimostrando uno spirito più positivo, reagendo allo sprofondo immortalato sul disco. Sono tutti pezzi sconosciuti al pubblico, compreso Walk On che sfuggirà alla scaletta definitiva della Night; ma l’accoglienza è buona e, per farla semplice, fosse stato così «Time Fades Away» tutti si sarebbero risparmiati tanti mal di fegato. Un lieto fine allora? Non proprio. Riascoltati i nastri del disco in studio, Young si convince che l’album non è finito; mancano «il respiro giusto, l’ordine giusto, l’idea di fondo», va trovato «il colore adatto, per evitare di mettere a disagio il pubblico con un disco troppo cupo». Così accantona quei nastri e si dedica ad altro, confidando in una vena ispirativa che in quella stagione ha del prodigioso. Non possiamo lamentarci; tra febbraio e aprile del 1974 registra un disco tutto diverso, «On The Beach», che poi diverso non è tanto per pessimismo e scontrosità ma riflette più luce, ed è meno selvatico della Notte – un capolavoro, in ogni caso. Sfoga quegli otto brani fra il suo ranch e i Sunset Sound Recorders e ancora non gli basta, perchè in autunno e inverno eccolo di nuovo in studio con un altro progetto, «Homegrown», che un giorno definirà «l’anello mancante fra “Harvest” e “Comes A Time”, “Old Ways”, “Harvest Moon”». L’inquietudine porta a una sorprendente abbondanza e Young fatica a districarsi. Alla fine sceglie di scartare «Homegrown», troppo sincero e intimo, e di tornare a «Tonight’s The Night», completato con un paio di prequel e pubblicato infine nel giugno 1975. «Homegrown» non vedrà più la luce, anche se mai dire mai con l’archivista del 2018. E, a proposito: esiste un missaggio diverso di «Tonight’s The Night», più crudo ancora, più graffiante, quasi ossessivo, ne ha parlato il padre di Neil nella sua biografia. Se Young ha voglia di tornare a immergersi nei suoi anni Settanta, ecco un’altra pista da seguire.

Riccardo Bertoncelli

(Articolo pubblicato sul numero di luglio 2018 di Musica Jazz)

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