Il grande songwriter ha deciso di ritirarsi dai palchi ma non dalla musica, e torna con un nuovo album di vecchie canzoni affidate agli amici jazzisti.
A differenza dell’amico/nemico Bob Dylan, che persiste nel suo «Never Ending Tour» e per levarlo dal palco bisognerà abbatterlo, Paul Simon ha deciso di chiudere. È nell’anno dei settantasette, le energie cominciano a venir meno e la voce ogni tanto lo tradisce; e siccome è sempre stato un giudizioso e mai un avventato, ha scelto la mossa meno eclatante ma probabilmente più saggia: il ritiro. Le energie cominciano a venir meno, non certo l’ispirazione. Il nostro uomo chiude in ascesa, come i veri grandi, se è vero che gli ultimi album, «So Beautiful, So What» e «Stranger To Stranger», sono un balsamo e una bellezza, con meditazioni da filosofo e suoni raffinati e luminosi, lontani da tutti gli standard, anche quelli sempre a portata di mano delle canzoni «alla Paul Simon». Che poi simili meraviglie le abbiano ascoltate in pochi, è un discorso che in fondo non importa, men che meno all’autore. Il successo è una chiavina per aprire la porta della libertà; e proprio perchè saggio e giudizioso, Simon vede la sua vicenda artistica come un continuum, e gli bastano le due grandi ondate di popolarità che l’hanno investito, ai tempi di Garfunkel e nella stagione di Graceland, per ritenersi soddisfatto e badare ad altro. Dunque chiude senza rimpianti e da uomo libero: chiude con un tour mondiale che si snoderà per buona parte dell’anno prossimo e con un disco non di canzoni nuove ma di riletture, perchè agli aggettivi che abbiamo già snocciolato per definire il tipo dobbiamo aggiungere «puntiglioso», e questo disco, «In The Blue Light», tocca quella corda del carattere.
Un dissidio classico tra musicisti e appassionati riguarda il repertorio e gli arrangiamenti dei brani quando vengono eseguiti dal vivo. I fan amano le repliche fedeli, le canzoni come le hanno ascoltate su disco, e prediligono i pezzi arcifamosi, quelli che un autore, per quanto affezionato alle sue creature, vorrebbe a un certo punto non avere scritto mai, tanto se ne sente prigioniero, e soffocato. Simon non ha remore a confessare il suo disagio: quando attacca per la millesima volta Sound Of Silence, Bridge Over Troubled Water, Graceland gli capita di sentirsi con imbarazzo «il leader di una cover band di Paul Simon», e amerebbe fare altro nella vita. Per questo, con la chiavina della libertà che dicevamo, è entrato nella grande stanza del suo repertorio, ha scelto dieci canzoni di quelle meno celebri, o proprio dimenticate, e ha deciso di cambiar loro vestito. Un po’ per il perfezionismo da primo della classe, un po’ per la voglia di riaffermare il primato del compositore su chi ascolta: così è nato «In The Blue Light». La scusa ufficiale è stata quella di correggere imperfezioni che forse avevano impedito il successo delle versioni originarie; in realtà credo che Simon abbia voluto compilare una personale playlist con il puntiglio, arieccoci, di chi non sputa nel piatto dei suoi greatest hits ma con discrezione e fermezza invita a guardare anche oltre. Non ci sono stravolgimenti radicali, il Giudizioso si muove felpato come gli è sempre venuto bene. Ha solo aggiunto qualcosa e altro sottratto, ripulito i timbri, ritoccato luci e ombre, aiutato da una brigata scelta di musicisti: il collettivo yMusic per le parti più cameristiche, Bill Frisell e Bryce Dessner dei National per certe allucinazioni di chitarra, Wynton Marsalis con la sua tromba quando occorrevano scoppi, scarti, guizzi. «Ha dato una nuova mano di vernice ai muri della vecchia casa di famiglia», minimizza con un sorriso, e naturalmente dove passare il pennello lo ha deciso lui, anche se quelle mura le conosciamo in tanti e ognuno avrebbe voluto dir la sua. Ma diamo fiducia al padrone di casa, se la merita, e seguiamolo nel suo percorso che arriva fino al 1973 di One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor, non più indietro, salta «Graceland» come dicevamo ma non il suo seguito, «Rhythm Of The Saints», e si concentra su un album soprattutto, «You’re The One». Alzi la mano chi se lo ricorda, anche se vedo dalle statistiche che non vendette male e guadagnò un disco d’argento. Comunque era il 2000, primo disco di canzoni nuove dopo otto anni, escluso il musical The Capeman, e forse fu per la disabitudine ad ascoltare il vecchio Paul o perchè nel frattempo the times they had a-changed che l’opera passò sotto silenzio. Simon all’apparenza non fece una piega ma ora si capisce che ci rimase male; perchè qui ci sono quattro riscritture di quel disco e nella recente antologia di «Songwriter» tre pezzi vengono da lì, a rimarcare come spesso accade che i gusti di chi scrive non sono quelli di chi ascolta. Una canzone soprattutto sembra la preferita, sta qui e lì ed è Darling Lorraine: un po’ verbosa, dispersiva, sia nell’originale sia in questo rifacimento, ma con un testo meraviglioso, il film in sette minuti di un amore e di una vita, dalla cotta al matrimonio, dalle routine di famiglia agli scazzi, alla noia, e poi la morte di lei, il dolore, il rimpianto. Anche Pigs, Sheep And Wolves viene da «You’re The One», e nel suo caso il restauro ci voleva proprio: un testo amaro e avvelenato, un bestiario per tempi da bestie che nell’originale suonava sbiadito e qui invece sprizza energia e colori come un dissennato Mardi Gras a New Orleans.
Il pittore è stato equilibrato, la mano di vernice è toccata ad angoli bui così come a sale frequentate. How The Heart Approaches What It Yearns appartiene alla colonna sonora di One Trick Pony, il docufilm del 1980 che fu un sonoro schiaffone sulle gote di un Simon che all’epoca si riteneva invincibile; ma Some Folks’ Lives Roll Easy viene da uno dei dischi più noti e apprezzati, «Still Crazy After All These Years», e ha l’aria giusto della correzione puntigliosa, da primo della classe come si diceva. Lo stesso vale per René & Georgette Magritte With Their Dog After The War, in questo caso con un rischio. L’originale di quel brano e tutto l’album che lo comprendeva, «Heart & Bones», erano e rimangono semplicemente perfetti: aver turbato la sobrietà dell’originale con un (delicato) intervento di archi è un esercizio di stile che soddisfa il cameristico Simon della maturità ma nulla aggiunge alla bellezza del brano. Il meglio è nemico del bene, dice quel sacrosanto proverbio, e in tanti lo hanno verificato, a cominciare da Joni Mitchell, che anni orsono volle «raffinare» alcune delle sue canzoni preferite immergendole nella melassa orchestrale di «Both Sides Now». I seguaci della signora ancora si disperano. Simon, per fortuna, ha preso un’altra via.
Dicono che le canzoni riarrangiate per «In The Blue Light» siano state più di dieci, e tra le escluse una sorprendente Sound Of Silence. Se è vero, un giorno o l’altro salterà fuori e noi faremo «ooooh». In realtà non se ne sente la mancanza. Ci basta questo zig zag ai margini del mito, una Can’t But Run che sembra arrangiata da Philip Glass, The Teacher trasportata in un angolo di Mediterraneo; fino al sigillo di Questions For The Angels, una canzone già incantevole tra i solchi di So Beautiful, So What e qui ancora più splendente, immersa in un bagno di luce come quel giorno famoso a Memphis, quando «The Mississippi Delta was shining like a National guitar». Il vecchio Paul guarda i diseredati che abitano gli anfratti di New York e si pone domande senza risposta sulla vita che viviamo. Domande per gli angeli, e chi crede agli angeli? Gli stupidi, gli innamorati, e «io credo agli angeli», confessa l’autore in uno slancio coraggioso. Lo avevamo già intuito. Solo uno che crede agli angeli poteva scrivere canzoni tanto belle e intense lungo una vita intera, e porsi il problema di come un giorno farle luccicare ancora più.
Riccardo Bertoncelli
[da Musica Jazz, novembre 2018]