Steve Tibbetts: «Il suono è un’entità astratta ma estremamente potente.»

di Alceste Ayroldi

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Steve Tibbetts (foto di Diane Waller / ECM Records)
Steve Tibbetts (foto di Diane Waller / ECM Records)

Steve Tibbetts è uno dei più singolari sperimentatori in attività e ha appena pubblicato il suo nuovo album, «Life Of»: soltanto il decimo, in quarant’anni di carriera.

Innanzitutto complimenti per il tuo ultimo lavoro, «Life Of»!
Grazie mille! Penso sia venuto abbastanza bene. E il merito è anche di tutti coloro che vi hanno collaborato, anche di chi si è occupato del packaging e, soprattutto, della ECM: è un piacere lavorare per questa casa discografica.

Qual è il tuo background musicale? Che musica ascoltavi da giovane? Rispetto al passato, che cosa noti di diverso?
Sono nato nel 1954 e sono cresciuto negli anni Sessanta; quindi a quell’età non si poteva scappare dall’ascolto dei Beatles, naturalmente. La domanda che si poneva un ragazzo in quel tempo era: «Come posso apparire diverso dagli altri?» E la risposta era sempre quella: prendere la chitarra e suonare in giro per attirare l’attenzione della gente. Come per molti altri, negli anni 1964 e 1965 erano i Beatles a farla da padrone. Onestamente non sono cresciuto prestando particolare attenzione al jazz; la mia attenzione era in prevalenza focalizzata sul rock. A quell’epoca avevo messo su un bel power trio, sul modello dei Cream.

Hai definito la tua musica «postmoderna-neo primitivista». Puoi spiegarci il significato di questa descrizione?
Be’, l’ho detto per scherzo! Era una battuta. In realtà avevo chiesto a un mio caro amico, grande e ben noto musicista, quale titolo avrei potuto dare al mio album ed era stato lui a descriverlo in questa maniera.

Di certo si nota la particolare attenzione che dedichi al suono, forse addirittura più che alla melodia.
Osservazione interessante e che ritengo attendibile. Quando leggo o sento in radio qualcosa che riguarda ciò che ho fatto, e leggo recensioni dei miei concerti che si soffermano sul fatto che la mia musica ruota attorno al suono, allora mi rendo conto che tutto questo è vero. Per me rappresenta ciò che, almeno credo, rappresenta per tutti. Il suono è particolarmente astratto ma ti riconduce a qualcosa di concreto. Quando ascolto il verso del gufo, mi tornano in mente la mia adolescenza e il letto di casa in cui ascoltavo il suo richiamo. Il suono è un’entità astratta ma estremamente potente; è difficile, praticamente impossibile, dire perché abbia un impatto così forte e riesca a suggestionare la mente di chi ascolta.

Viene in mente la risposta di John Cage e il silenzio.
Anche quella di Charles Ives: la notte, le tenebre di New York City.

È molto bella la copertina del tuo album, che mostra una serie di gatti in visione notturna. Qual è, se esiste, la relazione tra il contenuto del disco e la copertina?
Non ha un significato preciso, ma quei gatti stanno tutti vicini e rappresentano le persone di cui si parla dell’album, perché anch’esse potrebbero essere dei gatti! Poi la luminosità di quegli occhi nella notte… Insomma, mi sembrava una bella fotografia.

Steve Tibbetts (foto di Daniel Corrigan / ECM Records)
Steve Tibbetts (foto di Daniel Corrigan / ECM Records)

Qual è la genesi del tuo nuovo lavoro?
A un certo punto mi sono trovato con tredici brani, tutti di musica strumentale e volevo dar loro dei titoli che fossero intelligenti e calzanti, che si sposassero con la musica. Alcuni dei titoli delle canzoni e dei frammenti sonori sono frutto di conversazioni colte di sfuggita. Erano solo indicazioni, segnalibri, note prese su post-it. Nel corso del tempo, i titoli hanno acquisito una certa trazione e acquisito una sorta di esistenza spettrale. Crescevano piccoli e significativi collegamenti tra canzoni, musica e persone: collegamenti che hanno iniziato a esercitare un’influenza sulla direzione musicale. Ho iniziato a utilizzare i nomi delle persone senza fare distinzioni, senza associarli a un singolo brano. Sono partito dai nomi: per esempio, Joel è il nome di mio figlio ma anche di mio zio, e la personalità di mio figlio e di mio zio hanno iniziato a dare una direzione alla mia musica. I nomi, i personaggi erano capaci di disegnare sé stessi. Forse è un’idea po’ folle, ma può capitare se si lavora da soli. Poi, a un certo punto, mi sono trovato nella condizione di dover mettere in successione i brani. È come scrivere una poesia: le cose si incontrano a loro modo e bisogna lasciarle andare. Alla fine sei costretto a prendere delle decisioni basate sul modo in cui i brani si susseguono; su come un brano leghi con quello successivo e crei un buon gioco uditivo, come se fossero i capitoli di un libro. In sostanza il risultato finale deve suonare al meglio e, quando sono stato convinto, mi sono deciso a inviarlo a ECM con diverse idee per la copertina.

Quali sono gli elementi che non devono mancare nei tuoi lavori discografici?
Devo restare dentro la musica. Cerco di evitare l’esibizionismo fine a se stesso, di suonare velocemente per il solo gusto di stupire, di creare delle situazioni armoniche drammatiche solo per colpire il pubblico. Tutto deve essere funzionale alla musica che ho creato, senza effetti speciali. Una mia amica, Susan Katz, mi ha detto che il modo migliore per capire se la musica è quella giusta, è di ascoltarla con gli amici in cui credi. Se, a un certo punto, inizi a stringere i pugni, allora c’è qualcosa che devi risolvere; c’è qualcosa di non reale, qualcosa di non sincero. Questo è un procedimento utile a sbarazzarmi di alcune delle cattive abitudini che posso acquisire, oppure che uso quando sono depresso perché la mia creatività è sottozero.

Era passato parecchio tempo dal tuo ultimo disco. Cosa è successo in questi anni?
I miei figli! Ho scelto di stare vicino a loro, di affiancarli negli studi fino al momento di scegliere al meglio le scuole superiori. Era difficile andare in studio oppure in tour e, contemporaneamente, studiare con loro la tavola periodica, la trigonometria, la biologia, altre lingue o la storia. Continuavo a recarmi in studio ogni giorno ma non come ero abituato a fare prima, ovvero dalle dieci del mattino alle dieci di sera. I miei tempi si erano dimezzati e, in cinque ore, non riesci mai ad ottenere gli stessi risultati. Poi, un’estate alla volta, ho voluto percorrere tutta l’Asia viaggiando da nord a sud.

C’è anche una storia che riguarda la tua fedele chitarra Martin D-12-20.
Mio padre suonava la chitarra. Insegnava diritto del lavoro all’università del Wisconsin, nei corsi serali, e girava tutto lo Stato per spiegare ai lavoratori quali fossero i loro diritti. I suoi studenti arrivavano a lezione stanchi morti dopo una giornata di lavoro, così lui suonava la chitarra e, cantando, riusciva a suscitare interesse verso una disciplina potenzialmente noiosa. Ogni volta che tirava fuori la chitarra dalla custodia, tutti prestavano attenzione a ciò che diceva e faceva, neanche fosse Paul McCartney o John Lennon. Poi entrò nel comitato direttivo della sua congregazione religiosa e, dopo qualche anno, si procurò una chitarra a dodici corde. Io vedevo quella chitarra nella custodia, ma non mi azzardavo a toccarla. Quando lui era via per lavoro, però, la suonavo come meglio potevo. Un giorno, poi, tornai a casa dal college per la pausa invernale – era il 1978, credo – e mi cadde lo sguardo sulla chitarra nella sua custodia, appoggiata alla scarpiera nell’atrio della nostra casa. Tolsi la neve dagli stivali e, indicando la custodia della chitarra, dissi scherzando a mio padre: «Ehi, dovresti farmela provare!» Lui si sporse al di sopra della ringhiera con le mani intrecciate e non disse nulla. Per le due settimane che rimasi a casa, suonai solo quella chitarra. Poi, alla fine delle vacanze, il giorno in cui mi stavo preparando a partire vidi la chitarra nello stesso posto di quando ero arrivato. Mio padre era di nuovo appoggiato alla ringhiera, con le mani giunte. Mi indicò la chitarra con il mento e mi disse: «Prendila!». E da allora è la mia fedele compagna: non vado da nessuna parte, in tour, senza di lei.

In questo disco suoni anche il pianoforte. Con quale strumento esprimi al meglio la tua musica?
Quando compongo uso prevalentemente il pianoforte perché è uno strumento sia melodico sia ritmico. Non suonavo il pianoforte, in origine: ho iniziato a studiarlo otto anni fa e sto ancora imparando i tanti misteri di questo strumento. Invece, quando devo improvvisare, uso sempre la chitarra.

Steve Tibbetts - Life Of
Steve Tibbets «Life Of»

Parliamo del tuo connubio con il percussionista Marc Anderson. Quando e come vi siete conosciuti?
Un giorno, in Minnesota, un mio amico mi invitò a uscire per andare a sentire una band. Ci recammo con le nostre rispettive ragazze all’auditorium dell’università di St. Paul. La band di Marc suonava davanti a forse tre persone. Marc suonava le conga e cantava con un’intonazione perfetta. Purtroppo il batterista non era all’altezza. Però Marc aveva afferrato perfettamente il senso deil brano. Così gli dissi che, se poteva suonare così in un auditorium vuoto, avrebbe suonato magnificamente anche in studio; e io in studio avevo proprio bisogno di uno come lui. È difficile trovare qualcuno così bravo con cui andare d’accordo tanto in studio quanto in tour.

Invece, parlando di Michelle Kinney, perché hai scelto il violoncello come altro strumento del tuo gruppo?
Perché il violoncello di Michelle sembra una chitarra elettrica. Lei è capace anche di effettuare delle variazioni armoniche e di usare l’archetto, portando la struttura musicale del brano come su una nuvola. Il suo suono si interseca molto bene con la chitarra a dodici corde. Poi è anche una grande improvvisatrice, proprio tutto ciò che volevo per questo album.

Facciamo un salto indietro e parliamo della sua collaborazione con Chöying Drolma.
Per molti anni ho prestato attività all’estero nei programmi di studio dell’università Naropa in Colorado. Un anno a Bali e un anno in Nepal. Il mio lavoro si svolgeva a Katmandu e consisteva nel seguire i programmi di installazione, nel prendermi cura dei salari dei lavoratori, del trasporto e dell’assistenza sanitaria. Durante questo periodo, nel pomeriggio, c’erano anche delle meditazioni di gruppo e, alla sera, ci trovavamo con i due interpreti a bere qualcosa fuori, sugli scalini dell’abitazione dove risiedevamo e fare chiacchiere. A un certo punto uno dei due, terminata la birra, mi disse: «Hai la possibilità di registrare? Prendi il mangianastri e scendi con me». Così andammo in una piccola stanza, dove c’era una monaca. La sua voce mi incantò, tanto che dimenticai di togliere la pausa dal registratore. L’andai a trovare nuovamente e facemmo altre registrazioni che inviai a Manfred Eicher, a un mio amico, Rob Simons e a un critico, John Diliberto. Piacque a tutti e, alla fine, si decise di fare un disco. La cosa meravigliosa è che Chöying ha utilizzato i proventi di questo disco per costruire una scuola e ora in Nepal è una superstar.

È da trentasei anni che incidi con ECM. Cosa ti offre di più rispetto ad altre case discografiche?
Sì, dal mio terzo album, per la precisione. Dove altro potrei andare? Scherzi a parte, penso che si sia creata una fiducia reciproca nel corso degli anni. Di certo non sono uno dei suoi best sellers, ma sono un fan della casa discografica e ne mantengo la stessa sensibilità estetica. ECM non detta i tempi: quando ritengo di avere qualcosa da dire, quando ho composto qualcosa che penso sia valido, allora lo invio a Manfred Eicher. È la casa discografica che mi consente di prendermi tutto il tempo necessario a pensare, creare, comporre. Dico sempre ai miei amici musicisti di non essere frettolosi ma di prendersi a loro volta tutto il tempo necessario a produrre qualcosa che abbia il giusto senso artistico.

Perché hai deciso di fare il musicista?
Per le ragazze, naturalmente! Perché non potevo diventare un giocatore di football, né di calcio o di baseball! Da ragazzi si pensa sempre a come fare per attirare l’attenzione dell’altro sesso. E vedevo che quando mio padre impugnava la chitarra tutti si fermavano. Comunque credo che ben pochi possano dire con certezza di aver voluto e potuto fare soltanto il musicista. Io ho fatto tanti mestieri, ho anche lavorato in un negozio di dischi. In realtà la domanda dovrebbe essere: «Come fai a sopravvivere facendo il musicista?» O hai anche un altro lavoro oppure devi stare sempre on the road e suonare in ogni occasione possibile.

Chi ti ha insegnato la chitarra?
Mio padre è stato il mio primo maestro, naturalmente, perché lo guardavo suonare. Mio padre aveva un disco che era una guida per la chitarra (o un titolo simile), che aveva anche un booklet esplicativo. Mettevo su il disco, prendevo la chitarra e questo disco ti diceva cosa fare, come suonare: era un vero e proprio tutorial. Dopo aver terminato anche il lato B si era, teoricamente, nelle condizioni di suonare da soli! E io lo ascoltai tante di quelle volte… Dopo molti anni, dopo che avevo terminato il college, decisi che avevo bisogno di imparare sul serio e studiai con un maestro che mi insegnò a migliorare la tecnica. Mi faceva suonare Fats Waller, Duke Ellington e altri, tutti brani arrangiati da lui per chitarra.

Posso chiederti cosa pensi delle politiche governative di Donald Trump?
La politica di Trump è totalmente sbagliata e si avvicina a quella di Bush e di Reagan, per i danni che sta procurando. Solo che mentre questi ultimi avevano almeno qualche idea e qualche ideologia, per quanto balorda, Trump non ha niente di tutto ciò.

Quali sono i tuoi programmi futuri?
Ho sessantatré anni ed è arrivato il momento di non fare troppi programmi, perché non sai mai quando finirà la partita. Mica posso dire che vorrei diventare un medico! E ormai dubito che avrò altri figli. Mi godo ciò che ho e sto pensando di incidere un altro paio di dischi: uno con la chitarra elettrica e l’altro con l’acustica. E poi vorrei viaggiare ancora.

Alceste Ayroldi

[da Musica Jazz, settembre 2018]