Il chitarrista e cantante di origine argentina Raul Midón ci racconta la sua faticosa ma determinata ascesa verso una musica davvero personale.
La vita di Raul Midón sembra un soggetto perfetto per un film. Nato prematuro cinquantadue anni fa, in un ospedale di campagna male attrezzato nel New Mexico, a pochi mesi perde la vista (e con lui il fratello gemello) per via della lunga permanenza in incubatrice. Fin dall’infanzia il padre, un ballerino folk argentino, lo incoraggia a approfondire la musica. Comincia così un percorso che lo porta a diventare un’eccellenza in ambito jazz e soul, ma riuscirà a lanciare davvero la sua carriera solista a oltre quarant’anni, dopo aver militato a lungo tra i turnisti e i coristi delle più grandi stelle del pop internazionale. E a oltre cinquanta, finalmente la consacrazione: con il suo ultimo album «Bad Ass and Blind», dichiaratamente il più sperimentale e senza compromessi, quest’anno ha ottenuto la sua prima nomination ai Grammy Awards, nella categoria «Best Jazz Vocal Album», poi vinta da «Dreams And Daggers» di Cécile McLorin Salvant. Attualmente è impegnato in un tour mondiale che toccherà anche l’Italia (oltre a Roma, il 16 maggio all’Elegance Café Jazz Club, questo mese sono previste altre quattro tappe a Reggio Emilia, Vipiteno, Salerno e Vicenza).
La tua è una storia incredibile, ricca di colpi di scena e spunti di riflessione. Tanto che spesso si parla più di quella che della tua musica…
Oggigiorno c’è così tanta musica, in giro, che la gente vuole avere anche una storia: è a quella che si sente legata. Penso sia normale, dato il contesto.
Il modo in cui usi l’arpeggio della chitarra classica nel jazz e nel soul, in cui tradizionalmente non è mai protagonista, è molto singolare. Come hai cominciato?
Suono la chitarra classica fin da piccolo, da sempre ne studio il repertorio: apprezzo anche la chitarra elettrica, ma quella acustica è tuttora il perno della mia produzione. È davvero naturale per me usarla nella mia musica, ne detta il tono e l’atmosfera. Amo davvero la sua semplicità, l’uso delle dita e del tocco; con l’elettrica tutto si riduce soprattutto all’equipaggiamento e all’effettistica utilizzati, dalle pedaliere all’amplificatore.
Perché intitolare il tuo album «Bad Ass And Blind», un titolo che potrebbe essere tradotto con «Cazzuto e cieco»?
Volevo banalmente portare l’attenzione su ciò che faccio. È il secondo album che produco e registro da solo: sono finalmente coinvolto nell’intero processo, non semplicemente in quello artistico, e mi sento un supereroe!
E, nella pratica, come funziona il tuo lavoro?
Be’, ovviamente devo adottare degli accorgimenti. In studio uso un programma di sintesi vocale che permette al computer e ai software di «parlarmi», leggendo ad alta voce i parametri. Mi aiuta a orientarmi rispetto a livelli e frequenze e a lavorare come se vedessi effettivamente i monitor. Per tutto il resto, il procedimento è identico a quello di qualunque altro musicista.
In una precedente intervista hai descritto questo ultimo album come «L’episodio più jazz del mio repertorio», eppure il jazz è stato il tuo primo amore: ti sei diplomato in questa materia…
Esatto, ho studiato jazz all’università di Miami, approfondendo soprattutto la composizione. Per anni non è stato questo il soggetto principale della mia musica, ma avendo avuto nell’ultimo anno l’opportunità di suonare con una band di jazzisti, ho colto l’occasione per approfondire di nuovo questa componente della mia formazione. A volte il modo in cui lavori dipende dalle persone di cui ti circondi, e questo è proprio uno di quei casi.
È curioso, però, perché nella traccia che dà il titolo all’album arrivi addirittura a rappare: una cosa che non avevi mai fatto prima, nonché all’apparenza quanto di più lontano ci sia dalla tradizione del jazz.
Non sono un grande fan del rap ma ho sempre amato molto lo spoken word: Gil Scott-Heron è un vero poeta, e quello che faceva lui affonda le sue radici ben prima dell’hip hop, che è nato alla fine degli anni Settanta. Tutti noi musicisti, quando scriviamo i testi delle nostre canzoni, in fondo scriviamo poesie, e il rap (o lo spoken word) non è che una versione parlata di tutto ciò. Insomma, quella strofa va vista in quest’ottica, e non come un omaggio a sonorità contemporanee.
Ti aspettavi di essere nominato ai Grammy?
Assolutamente no! Quando l’ho scoperto ero davvero entusiasta. Come spesso capita in questo mestiere lavori a testa bassa, ti dedichi a un progetto e poi passi a quello successivo, senza aspettarti davvero qualcosa in cambio, e quando succede è speciale. Faccio musica da un bel po’, ed è bello essere preso in considerazione per un premio, quale che sia. Sono davvero felice anche solo di essere stato nominato, anche se ovviamente la speranza era quella di vincere!
Uno dei brani più riusciti dell’album è senz’altro Wings of Mind, nel quale racconti di un tuo viaggio interiore. Com’è nato?
Tutto parte in realtà da una mia fisima di composizione. Non esistono molte canzoni in questo stile: ci sono molti brani jazz che ormai sono considerati standard, ma sono parecchio tradizionali, in una cadenza II-V-I. Il testo è stato ispirato proprio dal modo in cui stavo organizzando l’armonia, pensando ad artisti come Wayne Shorter. Wings of Mind parla del fatto che l’immaginazione può portarti ovunque, rendendoti capace di qualsiasi cosa.
Restando in tema di ispirazione, George Benson ti ha in qualche modo influenzato nella scrittura di quest’album? Non ci sono vere e proprie somiglianze, ma brani come If Only ricordano molto capolavori come This Masquerade…
George Benson è stato un’enorme ispirazione per me. Ricordo ancora quando per la prima volta ho scoperto This Masquerade, per un’intera estate l’ho ascoltata ogni giorno. Non avevo mai sentito nulla del genere: una tale complessità unita a atmosfere così soul erano una completa novità per me. Per la mia crescita di musicista, quel brano è stato una vera e propria pietra miliare.
Hai scelto di registrare anche una versione di Fly Like an Eagle della Steve Miller Band: anche quella è stata una tua pietra miliare?
È stata mia moglie a darmi l’idea. «Fly Like An Eagle» è stato il primissimo disco che ho acquistato da bambino: ai tempi ascoltavo molto rock, soprattutto grazie alle radio, perché all’epoca c’erano molti programmi che anziché suonare solo i singoli preferivano passare dei brani dall’album. Per me quella canzone è stata rivoluzionaria: partiva con un sintetizzatore strano e poco educato, che mi catturava fin da subito, e aveva un messaggio chiaro e diretto. Era rock, ma aveva vibrazioni che mi ricordavano molto l’r&b. Pensavo sempre a come l’avrei rifatta: avrei voluto riarrangiarla un po’, cambiare qualche accordo e qualche passaggio, ma anche nella sua versione originale è stata davvero fondamentale per la mia evoluzione.
A proposito di evoluzione: prima di iniziare la tua carriera solista eri un turnista per le sessioni in studio di artisti pop come Shakira, Enrique Iglesias o Christina Aguilera. Com’è stato, per te, lavorare in un contesto così diverso?
Molto gratificante, in un certo senso. All’epoca suonavo in piccole band locali, perciò quando iniziarono a chiamarmi per questi lavori fu un sollievo, economicamente parlando! Ho imparato molto: in quel tipo di contesto sei una maestranza al servizio del progetto di qualcun altro, e in tal modo ho capito come lavorare in studio, cantare in diversi stili e armonizzare la mia personalità artistica con quella di altre persone. Di solito lavoravo con molte coriste, per esempio, e ho dovuto perfezionare quello che in America chiamiamo «vibrato misurato», ovvero calibrato sulla canzone e sulle voci che intervengono al suo interno.
Hai mai avuto la tentazione di darti tu stesso al pop? In fondo sei un autore incredibilmente versatile, molte delle tue canzoni potrebbero essere riarrangiate anche in quella chiave…
All’inizio era proprio quello che volevo fare! Che ci crediate o no, in origine volevo essere una Norah Jones al maschile. Volevo essere un artista borderline, che si muoveva tra il jazz e la musica leggera, per fare sì che i miei dischi arrivassero a molte più persone. Album come «State Of Mind» avevano questo intento. Però credo che non fossero abbastanza pop da esserlo davvero. Il jazz è sempre stato una parte fondamentale di ciò che facevo: ho finito per essere identificato solo con quello, e alla fine ho accolto a braccia aperte questa categorizzazione. Il destino fa di te ciò che vuole, indipendentemente da quello che hai pianificato.
Un’ultima curiosità. Anche tuo fratello gemello Marco è un’eccellenza nel suo campo, che è completamente diverso dal tuo: è un ingegnere spaziale della NASA…
Siamo sempre stati molto portati per i mestieri che facciamo oggi, e siamo cresciuti in una famiglia appassionata, che ci ha insegnato a dare il meglio in tutto ciò che facevamo. Ed è quello che abbiamo sempre cercato di fare.
Marta «Blumi» Tripodi