Michele Rabbia: Lost River

di Luca Civelli

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Michele Rabbia (foto di Flavien Prioreau)
Michele Rabbia (foto di Flavien Prioreau)

Il duo Michele Rabbia – Eivind Aarset si allarga a trio con l’aggiunta di Gianluca Petrella e pubblica in questi giorni un disco di ottima qualità per ECM

Michele, pochi giorni fa ECM ha pubblicato «Lost River», un album inciso da te, Eivind Aarset e Gianluca Petrella. Chi ha avuto l’idea di aggiungere Petrella al duo?
Penso che Manfred avesse l’esigenza di aggiungere un terzo musicista, una voce solista che ampliasse il duo, e ha fatto il nome di Gianluca; nome che io e Eivind abbiamo accettato senza esitazione. È un trio fresco, cui tengo molto. Abbiamo suonato poche volte ma stiamo preparando una serie di concerti per l’autunno.

Il materiale del disco è principalmente improvvisato?
A parte qualcosa scritta da me a da Eivind, i brani sono tutte improvvisazioni nate in studio. Aggiungo subito che, ancora una volta, l’apporto di Manfred è stato determinante, per me è sempre il musicista in più del gruppo, non un’entità separata. In ogni occasione Manfred mette a disposizione la sua grande esperienza, il suo gusto e talento come produttore. Ma va anche sottolineata l’importanza di Stefano Amerio, con cui collaboro oramai da molti anni. Tra la sensibilità che lo contraddistingue e la profonda conoscenza delle apparecchiature in studio, Stefano riesce a cogliere appieno la dimensione fonica dei musicisti. E per un’etichetta come ECM, sempre attenta alla qualità del suono e alle sfumature, è davvero fondamentale.

Da cosa partono le improvvisazioni?
Dai suoni, più che da precisi concetti armonico-melodici. Cerchiamo di forgiare i brani partendo dai suoni e lavorando di continuo la materia. Manfred è fondamentale perché appoggia le nostre idee e ci aiuta a districarci nelle situazioni meno fluide, nei momenti di difficoltà, se così vogliamo chiamarli. È sempre propositivo, gli piace condividere le idee con i musicisti.

Nel disco tutti e tre «smanettate» con l’elettronica. Quali differenze hai riscontrato tra di voi?
Mi verrebbe da dire che abbiamo una visione personale dell’elettronica, e penso che questo sia dettato un po’ dallo strumento, un po’ dal background di ognuno di noi. Nell’elettronica di Gianluca ritrovo le frequentazioni con certi ambienti legati al mondo dei dj; io, forse, provengo come ascolto più dal free jazz e dalla musica contemporanea, mentre Eivind si è creato un mondo nordico fatto di grandi tappeti sonori e di tanti colori con cui pennella i brani. Nonostante tre approcci diversi, penso che abbiamo trovato un’amalgama, una nostra specificità.

Gianluca Petrella, Michele Rabbia e Eivind Aarset (foto Luca A. d'Agostino)
Gianluca Petrella, Michele Rabbia e Eivind Aarset (foto Luca A. d’Agostino)

Una volta, su queste pagine, fu chiesto ad Aarset come definisse il suo stile alla chitarra. Vorrei sapere come definiresti il tuo stile alle percussioni…
Non so bene neanch’io come definirlo. Mi sono sempre considerato un ibrido: non sono né un batterista né un percussionista, né tantomeno un musicista elettronico.

E nemmeno un jazzista.
No, e certamente non nel senso classico. Forse per qualcuno lo sono per assimilazione, perché mi sono ritrovato a suonare con tanti jazzisti o musicisti considerati come tali. Dopodiché amo la musica e quindi anche il jazz, che continuo ad ascoltare con grande interesse e attenzione. In realtà, vuoi per necessità vuoi per interessi estetici, mi sono orientato verso altri tipi di musica. Per quanto riguarda lo stile, ho cercato di mettere all’interno di un unico contenitore le mie passioni, a partire da quella principale nei confronti del suono. Può sembrare un paradosso ma adesso che ci penso bene questa passione per il suono ha forse origini molto recondite. Mi sfugge il titolo del brano, ma ricordo perfettamente l’effetto che mi fece un assolo di Davis in cui nei primi quaranta, cinquanta secondi, Miles si limita a suonare tre note, ma tre di numero! Bastò quel suono talmente bello e pregno di significato per convincermi che con poche note si possono fare cose meravigliose, senza andare a caccia di chissà che cosa. Per cui metto il suono al centro dei miei interessi. Questo mi ha portato a cercare accessori, strumenti, apparati elettronici che potessero aiutarmi a creare un mio mondo. Ma la ricerca del suono è un percorso senza fine.

A quando risalgono i primi esperimenti con l’elettronica?
A dieci, forse addirittura a quindici anni fa, non ricordo bene con precisione. Quando iniziai a utilizzare percussioni e dispositivi elettronici non avevo appigli, quindi sono stato costretto a trovare una strada tutta mia che, se dovessi usare un aggettivo, definirei personale. Ricordo che all’inizio provai qualche pedale ma le difficoltà tecniche erano troppe. Quindi sono passato quasi subito al computer. Una figura fondamentale per mettere a fuoco l’uso dell’elettronica è stata quella di Maurizio Giri, che mi è stato di grandissimo aiuto. Maurizio programma, insegna, pubblica libri, lavora con Ableton. Mi ha dato la possibilità di mettere in atto le mie idee: da solo non sarei mai riuscito a fare certe cose.

Quindi per tornare alla mia domanda, diciamo che il tuo stile è fondato sul suono.
Assolutamente. Suono e timbro sono fondamentali, mi servono per creare spazi e ambienti. Lavoro molto in questa direzione.

Michele Rabbia (foto di Flavien Prioreau)
Michele Rabbia (foto di Flavien Prioreau)

Dove nasce il tuo fascino per i musicisti nordici?
Penso che sia semplicemente una connessione su un piano prettamente stilistico. A quei musicisti, da Eivind a Arve Henriksen, riconosco una grandissima capacità di evocazione, sono dei maestri nel creare degli ambienti, landscapes di suoni. Diciamo che tra me e loro c’è stata subito una grande attrazione. Se non erro, la prima volta che ho suonato con Eivind è stata in trio con Stefano Battaglia, e con lo stesso trio abbiamo anche registrato un disco. Eivind è stato il primo nordico con cui ho collaborato, ma conoscevo musicalmente molto bene anche Arve Henriksen, Jan Bang e Christian Wallumrød. Il fatto di viaggiare regolarmente in Europa mi ha permesso di entrare in contatto con tanti altri musicisti.

A proposito di «altri musicisti», hai approffittato dell’invito del francese Régis Huby, violinista del Trio iXi, per contribuire a creare il sestetto Unbroken, insieme ad Aarset, Bang e allo stesso Trio iXi. Come procede la collaborazione?
Molto bene. È un bel gruppo, la commistione è buona. Al centro del sestetto c’è il trio d’archi, totalmente acustico, composto da Régis, Guillaume Roy alla viola e Atsushi Sakaï al violoncello, e attorno ci siamo noi con l’elettronica. Anche in questo caso la musica è improvvisata. Mi è sempre piaciuto − e ho avuto la fortuna di farlo – mischiare un po’ le carte, uscire dalla zona di comfort e provocare dei rencontres, come dicono qui in Francia. Unbroken, per esempio, nasce da un’idea di Regis e mia, e coinvolge sensibilità agli opposti. Da un lato ci sono le personalità forti dei nordici, che lavorano su una specifica concezione del suono, e dall’altro un trio tipicamente francese, che suona in maniera densa e virtuosistica.

Immagino che, quando ci si rende conto dall’interno che un incontro funziona, la soddisfazione è doppia.
È chiaro. La sfida è trovare un punto di incontro. Con Unbroken, dopo il primo concerto al Triton, ci siamo subito detti che bisognava continuare.

Non ti sei mai precluso incontri con musicisti di altre culture. Vorrei affrontarne uno, abbastanza recente: il duo con Roscoe Mitchell.
È stata un’esperienza meravigliosa che spero possa proseguire. Mi era già capitato di suonare con grandi personalità in formazioni più allargate: ma con Roscoe, in una situazione intima, un dialogo diretto come il duo, è stata tutt’altra cosa. Ho avuto davvero l’impressione di essere al fianco di un gigante, un maestro con la M maiuscola, di quelli che hanno tracciato un solco profondo nella musica di questi ultimi decenni. In ogni nota emessa c’è racchiusa una vita intera, spesa e vissuta per inseguire un ideale artistico. Non avevo mai avvertito prima di allora una sensazione simile. E questa sensazione si è rafforzata ancor di più leggendo il libro della sua vita, scoprendo quello che ha fatto, le difficoltà che ha attraversato, le esperienze con l’AACM e via dicendo. Mi sono reso conto che in quelle note c’è tutto: forza, onestà, ricerca.

Michele Rabbia, Gianluca Petrella, Eivind Aarset «Lost River»
Michele Rabbia, Gianluca Petrella, Eivind Aarset «Lost River»

Ti ho visto suonare come sideman nel trio Dadada di Roberto Negro e nel quartetto Equal Crossing di Huby, e ambedue le volte ho avuto la netta impressione che suonassi più la batteria che le percussioni. Come mai?
Discorso delicato. La difficoltà è questa: quando entri a far parte di un gruppo si hanno sempre delle aspettative nei tuoi confronti, e il leader in questione ti fornisce, in linea di massima, un’idea di quello che vorrebbe da te. Nel ruolo di sideman non posso che essere accondiscendente con il leader di turno e andare incontro alle sue richieste.

Quindi la batteria ti serve per un primo approccio?
Diciamo di sì, ribadisco però che non mi considero un batterista. Subentra anche un aspetto pratico. Non sempre posso portare con me tutto quello di cui avrei bisogno, mentre una batteria si trova sempre e si può sempre personalizzare. Negli anni mi sono reso conto che i primi concerti con un nuovo gruppo, come quelli cui tu hai assistito, sono per me un momento di osservazione per cercare di individuare spazi e contesti in cui poter integrare i miei suoni, sia acustici sia elettronici, all’interno di un nuovo progetto. Per questo la batteria rimane uno strumento che utilizzo per necessità, ma cerco sempre di personalizzarla e adattarla alla mia visione musicale.

Frequenti anche ambienti legati alla danza o alla musica contemporanea: penso per esempio alla collaborazione con il contrabbassista Daniele Roccato. Anche lì l’improvvisazione è al centro del discorso, ma cosa cambia?
Con Daniele – e anche Virgilio Sieni – il set che utilizzo ruota attorno a una grancassa orizzontale che uso come tavola di risonanza, per cui gesto e azione musicale sono completamente diversi, rivolti verso un tipo di richieste che sono molto lontane da quelle del jazz. È vero, con Daniele si improvvisa sempre. Ma il carattere delle improvvisazioni e completemente diverso da quello che si instaura, ad esempio, all’interno di Dadada o con Andy Sheppard. Recentemente Daniele ha trascritto per tre contrabbassi una delle messe di Johannes Ockeghem. Io e Dominique Pifarély abbiamo il compito di improvvisare alla fine di ogni spezzone trascritto. È un progetto che spero di registrare presto. In generale, il fatto di poter suonare nei contesti più disparati mi dà grande soddisfazione.

E nel «Pergolese»?
Un’altra cosa ancora, mi sono limitato ad aggiungere colore alla musica. Il programma del «Pergolese» non ha avuto bisogno di un grande lavoro sugli arrangiamenti, ma ha richiesto un apporto significativo dalle personalita coinvolte: Maria Pia De Vito alla voce, François Couturier al piano, Anja Lechner al violoncello. Ultimamante mi sento sempre più vicino al mondo della musica classica e contemporanea. Sono molto attratto da un certo tipo di sonorità e dagli archi. Per questo ti parlavo del sestetto Unbroken, ma vorrei anche citare il trio Codex-III con Régis e Bruno Chevillon.

Hai menzionato Zach. Chi ha contattato chi per «[so-nò-ro]»?
Lo avevo sentito con il quartetto Dans les arbres e mi era piaciuto tantissimo, così l’ho contattato. Siamo abbastanza diversi ma usiamo la stessa strumentazione: rullante ed elettronica. Ed è stato divertente, perché né io né Ingar sapevamo di utilizzare lo stesso set. Tra di noi c’è stata subito una grande affinità, come capita spesso quando ci si rivolge a qualcuno che proviene da un ambiente che non ti è estraneo. «[so-nò-ro]» è la prima parte di un doppio lavoro sulle percussioni che Cam Jazz ha deciso di produrre. Devo ringraziare Ermanno Basso per l’opportunità che mi ha dato. Al duo seguirà il trio insieme allo svizzero Julian Sartorius e all’austriaco Martin Brandlmayr, batterista dei Radian, che abbiamo registrato qualche mese fa.

In mezzo a tutto ciò c’è ancora spazio per la collaborazione con Battaglia?
Abbiamo suonato in trio con Theo Bleckmann lo scorso anno, al festival di Ravello, con un programma curato e arrangiato da Stefano sui Quattro quartetti di T.S. Eliot. La storia con Stefano dura da quasi vent’anni, e se capita l’occasione siamo ben contenti di rivederci. Come strumentista, e per il pensiero musicale che ha sviluppato, Stefano rimane un punto di riferimento fondamentale.

Luca Civelli

[da Musica Jazz, giugno 2019]