L’album «Core/ coração» della cantante Maria Pia de Vito è dedicato al Brasile, con la benedizione di Chico Buarque – che troviamo anche in un brano – e la sorprendente decisione di tradurre dal napoletano al portoghese
«Core/Coraçao» è un album che ha avuto una gestazione lunga e complessa. Mi sono avvicinata al Brasile tempo fa, grazie all’associazione Napoli-Bahia che mi chiese di mettere a confronto il mondo napoletano con l’universo baiano. Così ho realizzato il progetto Transito Atlantico. Poi, nel luglio 2010, mi chiamò Guinga per chiedermi se volessi collaborare con lui a causa dell’indisponibilità di Lula Galvão. Solo che, all’epoca, il mio portoghese parlato non era all’altezza. Così, durante le prove, mi venne in mente di improvvisare dei testi in napoletano e Guinga sbarrò gli occhi dicendo: «Allora facciamo tutto così!». Il concerto andò benissimo e, in seguito, Guinga mi chiamò a suonare con lui in Brasile. E anche laggiù le nostre esibizioni furono accolte con grandissimo favore di pubblico e di critica. Nel frattempo, stavo preparando con Huw Warrren «Pata pata» nel quale volli inserire dei brani tradotti in napoletano. Entrai quindi in contatto con Chico Buarque de Hollanda per chiedergli l’autorizzazione a tradurre i suoi brani. La sua reazione all’ascolto di Olha Maria (diventato in napoletano Curre Maria) fu entusiastica. Gli era piaciuta fin da subito la parola «malombra». Io gli chiesi se potevo scrivergli ancora e lui mi esortò a farlo: c’è un messaggio, che ho anche inserito nelle note di copertina di «Core/Coraçao», in cui Chico scrive: «Così imparo un pocu di napolitana», firmato Francisco. Gli dissi che mio nonno, di nome Francesco, veniva chiamato Ciccillo. E lui mi rispose che anche un amico dei suoi genitori si chiamava Ciccillo (si trattava del ben noto industriale italo-brasiliano Ciccillo Matarazzo); insomma, da quel momento in poi ha sempre firmato come Ciccillo. In seguito mi sono occupata di altri progetti ma, quando trovavo un brano di Chico che mi ispirava, lo traducevo e glielo inviavo. Il tutto, quindi, con un ritmo molto lento e un lasso di tempo molto consistente. Questo lento, ma piuttosto costante, scambio epistolare (Chico è una persona correttissima e risponde quasi subito alle mail: un vero signore) è stata una lezione: di poesia, di portoghese, di letteratura. Sapevo, in cuor mio, che un giorno tutto ciò sarebbe diventato qualcosa di concreto. Nel frattempo ho collaborato ancora con Guinga, anche nel suo disco «Porto da madama», dove ho cantato tre brani in portoghese. In questi anni, quindi, il lavoro è cresciuto. Ho conosciuto Roberto Rossi e mi sono entusiasmata per questo percussionista alla Naná Vasconcelos e così, con Roberto Taufic e Gabriele Mirabassi, oltre a Huw Warren, è nata l’attuale formazione. L’occasione di definire il percorso mi è stata data grazie alla «carta bianca» offertami dall’Opéra di Lione, dove abbiamo tenuto un concerto poi eseguito anche a Ravello in prima italiana. Ma in entrambi i casi eravamo in quartetto: Roberto Rossi è arrivato in un secondo momento proprio perché avvertivo l’esigenza di qualcosa che completasse il suono con delle coloriture.
E per la pronuncia come hai fatto?
Ho preso lezioni di portoghese ma anche di portoghese cantato, nel senso che Taufic e Mirabassi mi ascoltavano quando cantavo, correggendo la pronuncia. Ho studiato, e tanto. Anche perché sapevo che nel disco di Guinga vi erano Maria João e Monica Salmastro, oltre a Esperanza Spalding. Ho continuato a collezionare brani in lingua portoghese che mi portavano a pensare e costruire qualcosa che, in seguito, si è materializzata nel disco. Devo dire che è il disco più pieno di parole che abbia fatto in vita mia! E vi improvviso molto poco: non è da inserire propriamente nel solco jazzistico perché tiene conto della canzone e vuol mettere a fuoco due mondi diversi, anche se il napoletano ben s’apparenta con il portoghese. Qui ho fatto anche una scelta di sonorità – quella di non cantare mai a voce piena – per evitare un eccesso di sentimentalismo, perché l’asciuttezza del portoghese, a confronto con il napoletano, poteva tradire un’eccessiva enfasi.
Cosa c’è di brasiliano a Napoli e cosa di napoletano in Brasile?
Caetano Veloso diceva che i napoletani e i baiani sono popoli impertinenti; impertinenti perché hanno visto qualsiasi cosa, quindi ci sono anche melanconia, lirismo, fatalismo. Il napoletano lo si distingue dal resto d’Italia per l’approccio culturale e una forza straordinaria, capace di dilagare in ogni territorio. Il brasiliano è una lingua musicale, così come il napoletano. Nella tradizione napoletana c’è un sacco di ironia, ma c’è anche la tragedia; in quella brasiliana spesso coincidono: si possono ascoltare certi samba che a una musica ritmata e felice associano testi tragici, forti e significativi. Come, per esempio, in O meu guri, da me tradotta con O’ piccerillo, che narra la storia di una madre che non s’accorge che il figlio sta diventando un delinquente e, anche dopo morto, continua a non capire. E Chico ha voluto cantare una strofa in napoletano, tra l’altro molto divertente, perché quando doveva pronunciare la parola burdello si metteva a ridere.
Secondo quali criteri hai scelto i brani di questo disco?
La scelta è partita dalla poetica nella traduzione. Ho cercato di fare delle traduzioni il più letterali possibile, accedendo alla licenza poetica là dove non era possibile dare con una traduzione letterale. Ho cercato anche di rendere la cantabilità di alcune vocali, mantenendo fede al testo originale. Ci sono dei brani come Construção, che avevo in mente di tradurre da tempo ma senza il coraggio di farlo, perché è un vero e proprio monumento della musica brasiliana. Ho iniziato a tradurlo per poi tenerlo nel cassetto per circa sei mesi. Ma sono rimasti fuori tanti brani. Una parte del progetto con Guinga e altre composizioni come Renata Maria, da me tradotta in napoletano, che ho registrato per «InventaRio», il secondo album dedicato a Ivan Lins.
Secondo la tua esperienza, è più difficile tradurre dal portoghese al napoletano o viceversa?
Il napoletano è una lingua che ha molte immagini. In questo caso, invece, parliamo della lingua di Chico Buarque, Geraldo Carneiro, Leila Pinheiro, quindi una lingua colta e zeppa di significati criptici. Per questo ho rivolto a Chico molte domande per conoscere il significato intrinseco delle parole usate. Immagino, quindi, che anche il processo inverso sia ricco di tali insidie.
Tu hai fatto della ricerca in ambito musicale la tua ragione di vita artistica. Quanto è importante per un musicista fare ricerca?
Io sento un’esigenza che parte da un desiderio, che è quello di sorprendere me stessa. E questa è la benedizione del jazz. Quando ho iniziato, l’esigenza era di sorprendermi in un assolo; poi, è diventata un’esigenza progettuale. Sono alla ricerca di un fuoco e vado a ricercare da esperienze varie, dal passato. Questo è il mio filo conduttore e mi accosto con un certo rispetto alle altre tradizioni. Mi piace la flessibilità che deriva dal jazz e cerco di applicarla. Mi sento un’apprendista e voglio imparare.
Come hai lavorato in fase di arrangiamento?
Mi spiego con un esempio. Per Construção mi ronzava in testa un samba di Tom Zé, che si può ascoltare nella parte della chitarra insieme al coro, e pensavo alla storia raccontata dal brano: l’operaio che cade dal ponteggio e la crudeltà delle frasi di Chico, volte a sottolineare l’indifferenza della gente difronte alla tragedia. Mi è venuto in mente che ci sono delle tammurriate napoletane veramente cattive; e ho pensato a come applicare a Construção un’introduzione cinica. Mi sono occupata di molte cose, ma l’arrangiamento vero e proprio è opera di Roberto Taufic, una mano santa! Tanto che anche Egberto Gismonti si è complimentato con lui.
Compare anche l’ensemble vocale Burnogualà: ce lo presenti?
Il gruppo è nato cinque o sei anni fa al conservatorio Santa Cecilia; poi, con il mio passaggio al Saint Louis, è stato integrato fino a diventare la formazione attuale, venti voci più pianoforte, contrabbasso e percussioni. Burnogualà deriva dalle Moresche di Orlando di Lasso. E’ lingua canuri, quella parlata dagli schiavi e dai liberti nella Napoli del Cinquecento, e significa «siamo gente di Burno per Allah»; un double talk, un linguaggio coniato appositamente per non essere capiti dai padroni.
La tua discografia è corposa. «Core/Coraçao» quale posto occupa?
È un disco il cui aspetto principale sta nella poesia e nel racconto, con l’emozione che scaturisce dalle parole e dalla musica. Per la prima volta mi sono posta come interprete delle parole, come cantante e non compositrice o improvvisatrice. In questo senso è un lavoro diverso da tutti i miei altri.
Alceste Ayroldi