Nell’eccezionale umanità di Max Roach spiccava una consapevolezza, quasi una missione: tese sempre a rivendicare la dignità della sua musica e della sua gente.
Lo ha detto Billy Hart, uno degli innumerevoli batteristi che da quel maestro hanno avuto diretto o indiretto insegnamento: «A qualsiasi grande batterista io abbia chiesto chi gli avesse insegnato questa o quella cosa, la risposta è stata semplice: «Max»; ed è stato perentorio il romanziere (lui pure batterista) Rafi Zabor: «Su nessun altro strumentista l’influenza di un solo uomo è stata tanto decisiva quanto quella di Max Roach sui batteristi». Ma non su questi ultimi soltanto, potremmo aggiungere, per via di quella sua tecnica ai limiti dell’impossibile: le inusitate complicazioni ritmiche, le idee nella costruzione delle frasi erano un vero esempio di «composizione spontanea». Per non dire che Roach è stato un dono della storia per l’intera comunità di quanti amano il jazz. Dall’ascoltarlo, ognuno di noi ha sempre tratto la sensazione di avere incontrato una personalità di stampo superiore.
La sua vita fu tra le più intense, gloriose e anche meglio frequentate: vi trovi tante altre maestà, da Coleman Hawkins quando Max era giovanissimo a Charlie Parker poco dopo, da Clifford Brown a, via via, tutti i grandi jazzisti che vollero averlo di sostegno, da Sonny Rollins a Cecil Taylor, arrivando al Duke Ellington di «Money Jungle» ma anche ai drammaturghi e coreografi con cui tanto egli collaborò. Ma non è il caso di ripercorrere la stellare serie di dischi e concerti che tanto grande artista ha lasciato come traccia del suo passaggio sul pianeta. Vediamo piuttosto come la sua dipartita, avvenuta dieci anni fa, abbia fatto toccar con mano, per molti forse più che in sua vita, quanto eccezionale fosse anche l’uomo. Nel carattere emergeva un preciso, costante sentimento: era l’orgoglio, beninteso nel senso più positivo di questo terribilmente ambiguo termine. Era, infatti, un orgoglio «giusto», poiché esercitato pretendendo da sé stesso comportamenti durabilmente civili e mai «a corrente alternata» nei confronti degli altri, ma del pari esigendo che fosse riconosciuta la dignità della sua persona, della sua arte e della sua gente. A differenza di altri jazzisti, Roach non si atteggiò mai a bohémien dell’arte, ma anzi curava di frequentare (lo ricorda bene il grande produttore Giovanni Bonandrini) gli alberghi migliori e i ristoranti di qualità. Non era spocchia, quell’amore per il bello, il confortevole e, diciamo pure, il dispendioso. Tutti i suoi tratti agivano su piani elevati, si sarebbero potuti scambiare per professorali, con molti punti di contatto con quelli di un John Lewis, altro luminoso esempio di intellettuale afroamericano.
Nessuno di Roach ricorda un gesto sgarbato. O forse ce ne fu uno, a sentire l’episodio raccontato dal critico Francis Davis, dopo un’indagine che fece su arte e vita di Bud Powell (non traendone conclusioni favorevoli sul carattere del magnifico pianista): «Nella sua prima seduta (10 gennaio 1947, con Curly Russell al contrabbasso) il trio di Powell incise otto brani. Ne erano previsti soltanto quattro, ma tutto era andato così scioltamente che il produttore chiese di poterne fare altri quattro, cioè due 78 giri in più. Il leader accettò ma Roach, con piena ragione, disse che allora ai musicisti si sarebbe dovuta dare paga doppia. Al che Powell esplose: «Ma di che ti lamenti? Tu tieni soltanto il tempo. Sono io a fare tutto il lavoro». Certo, se ascolti il drumming di Roach, non è che si limiti a «tenere il tempo». I due stavano per venire alle mani e il produttore li dovette dividere, ma poi quei quattro brani supplementari vennero registrati senza il minimo intralcio». Come si vede, non è un episodio disonorevole per Roach, che peraltro continuò a far parte del trio di Powell per almeno un lustro. Non teneva rancori, lui. È che ognuno degli aspetti della personalità di Max Roach andava in definitiva a coincidere con quella forma d’orgoglio di cui s’è detto, così lontana dai complessi di inferiorità e frustrazione che (come sappiamo da tante biografie) colpivano i jazzisti afroamericani, anche i più grandi. Quell’orgoglio lui seppe tener sempre vivo, lo pretendeva da sé e anche dalla propria gente, in ogni momento, anche quelli più bui e tormentati del pregiudizio razzista. Era come una missione.
Come punto centrale di questa concezione e di questo attivismo di Roach si suole indicare quello storico disco registrato fra il 31 agosto e il 6 settembre 1960, il memorabile «We Insist: Freedom Now Suite»: sia perché nessun’altra opera legata a Max Roach sollevò mai tanto scalpore, sia perché si trattava di un «messaggio» esplicito e d’alto spessore. Con l’aiuto di solisti quali Booker Little e Julian Priester, ma soprattutto della stupendamente espressiva voce di Abbey Lincoln e dell’intervento del vecchio suo leader Coleman Hawkins, Roach abbracciava a 360 gradi un orizzonte storico: dalla tratta degli schiavi fino a più recenti vittime, quelle dell’apartheid in Sud Africa.
Coautore per i testi di questa potente denuncia era il poeta Oscar Brown Jr., che non fu tuttavia molto d’accordo con il peso che Roach diede al lavoro e ai suoi significati, tanto che i due decisero di non rivolgersi mai più parola; e ovviamente ancora più ostili, benché negli Stati Uniti quello fosse l’anno in cui maturava l’elezione di John Kennedy, furono i benpensanti in genere e l’industria discografica. Anche la critica si divise in due opposti partiti. Roach non si lasciò intimidire. Già in quella stessa estate 1960 era stato alla base, assieme al vecchio amico Charles Mingus, di quel festival «ribelle» che a Newport osò sfidare la più ricca e vezzeggiata rassegna degli Stati Uniti come protesta per la faziosità delle sue scelte. E ora, di fronte allo «scandalo» suscitato da «We Insist! Freedom Now Suite», non esitò a dire in un’intervista a Down Beat: «Non suonerò mai più qualcosa che non abbia un significato sociale. Noi jazzisti americani di discendenza africana abbiamo dimostrato oltre ogni dubbio di essere sui nostri strumenti dei maestri. Ora quanto dobbiamo fare è impiegare la nostra abilità per raccontare la drammatica storia del nostro popolo e tutto ciò che abbiamo attraversato». Sono parole note, indimenticabili. Meno noto, benché citato da Ian Carr nel suo libro su Miles Davis, è invece un episodio che s’inquadra nella perenne battaglia di Max Roach e che riguarda, addirittura, come controparte, il grande trombettista e amico, e come sede la famosa, signorile Carnegie Hall. Là il 19 maggio 1961 Miles entrava per la prima volta, per un concerto (con l’orchestra di Gil Evans) in favore di un ente, l’African Research Foundation, in vista di aiuti medici al Tanganica. La serata era grandiosa, e fu anche registrata dalla Columbia prima che fosse interrotta da un incidente politico. Mentre Miles era in assolo su Someday My Prince Will Come, entrò sul palcoscenico Max Roach, con un cartello su cui aveva scritto «Africa for Africans! Freedom Now!»: si sedette sulla scena, tra il più vivo imbarazzo generale, e Davis, stizzito, se ne andò. Poi Roach gridò, mentre era portato via: «Dite a Miles che mi dispiace, ditegli che gli voglio bene!». Come spiegazione del clamoroso episodio disse poi che, secondo voci, la Foundation in realtà stesse facendo piuttosto gli interessi delle società diamantifere sudafricane (curiosa la tesi di Carr: in fondo con quel gesto Roach un contributo al jazz lo diede, perché fece nascere un nuovo Miles, e un critico presente in effetti scrisse che, già quando fu convinto a riprendere il concerto, «sul palco tornò un musicista diverso, teso a swingare con quella che Gerry Mulligan ha definito «violenza controllata»). Molti grandi artisti del jazz – compreso proprio Miles Davis – sentirono lo stesso impulso di Roach, operando di conseguenza dentro e fuori la musica, ma forse nessuno con gli stessi tratti di forza e nobiltà. Quell’orgoglio di sé e dei suoi che spingeva l’uomo e l’artista emerse anche quando Roach rievocò le umili origini e la vita nell’esteso ghetto che era il quartiere di Bedford-Stuyvesant a Brooklyn (Spike Lee fece in tempo a descriverlo nel film Do The Right Thing). Raccontò un giorno Roach: «La mia famiglia si trasferì dalla Carolina del Sud a Bed-Stuy nel 1928. Nonostante il crash dell’economia sopravvenuto l’anno dopo, e pur essendo noi poverissimi e privi addirittura dei diritti civili, si era molto orgogliosi. Nessuno che facesse il furbo, tutti erano onesti. E si andava in chiesa». Dove la madre cantava il gospel.
Da metà anni Quaranta, la casa in Monroe Street del giovane Roach era ben nota ai ragazzi che arrivavano a New York sperando di farsi strada nel jazz e che al collega appena un po’ più anziano di loro, ma già abbastanza affermato, chiedevano aiuto. Lo ha ricordato per esempio (anche nell’autobiografia African Rhythms) il pianista Randy Weston, il quale dice che là era spessissimo lo stesso Miles Davis. E addirittura in quella casa di Roach abitava George Russell, «che già stava elaborando il suo Cubana Be Cubana Bop che poi Dizzy Gillespie avrebbe reso famoso». In aiuti ai giovani colleghi, certo Max Roach è sempre stato generoso, forse ricordando quanto gli avesse all’inizio giovato quello straordinario caso d’essere stato visto nel 1940, a sedici anni, nell’orchestra di Duke Ellington, per tre serate al Paramount Theater: «I grandi batteristi erano quasi tutti sotto le armi», spiegò lui cinquant’anni dopo «e quando Sonny Greer si ammalò io ebbi il suo posto perché sapevo leggere la musica. Da quel momento, tutti cominciarono a chiamarmi: Gillespie, Henry Allen, Hot Lips Page… Fossi o no capace di suonare, pensavano a me perché ero stato con il master». Sul modo in cui Roach trattava i giovani, una curiosa testimonianza è data da Pete La Roca: «Il mio primo incontro con Max fu quando presi il suo posto in un concerto in un club di Brooklyn. Ruppi almeno tre pelli, ma quando l’indomani gli telefonai per scusarmi mi disse: «Don’t worry, a me le regalano. Ah, Sonny Rollins cerca un batterista: ti interessa?». Fu per lui che cominciai a suonare fuori del mio quartiere».
Un aspetto dell’attenzione posta da Roach sulle nuove leve del jazz e sull’insegnamento venne in evidenza verso la metà degli anni Novanta, quando fu invitato a presentare un programma didattico a Detroit, nell’ambito del festival collegato a quello svizzero di Montreux. Scelse come titolo «The Transparent Sound» e, come fece notare David Finkel, «non spese il suo tempo a mostrare la propria prodigiosa tecnica; aiutò invece gli allievi batteristi ad apprendere alcuni fondamentali poliritmi. E dimostrò come l’ottenere il «suono trasparente» – facendo sì che ogni parte della batteria suoni con chiarezza – esige pressioni sottilmente differenti tra una mano e l’altra, al contrario della tecnica classica in cui a entrambe si chiede una forza precisamente eguale». Eppure lui, anche se arrivò a insegnare in università prestigiose come quella del Massachusetts, rifiutava di essere considerato un «maestro». Lo disse a Claudio Donà per l’inserto dedicatogli da Musica Jazz nel marzo 1987: «A chi mi chiede di insegnare la tecnica delle percussioni rispondo che nessuno lo ha fatto per me. Bisogna soprattutto ascoltare i grandi maestri, nei dischi e nei concerti. Io ho imparato ascoltando Baby Dodds, Sidney Catlett, Chick Webb. Cercavo di rubare i loro segreti osservandone attentamente ogni movimento». E se di una lezione ricevuta parlò, fu per confidare (a Leonard Feather) quella di Lester Young, quando da giovanissimo si trovò a lavorare con lui al Birdland: «Dato che Pres e Jo Jones erano assieme. nell’orchestra di Count Basie, suonai tutti i vecchi trucchi di Papa Jo. Finita la serata, nel salutarlo, Pres mi diede una di quelle succinte lezioni nel suo personale linguaggio: “Non puoi raggiungere la gente fin quando non scrivi la tua canzone”. È una grande lezione. Qualcosa che ti resta dentro finché vivi: questa musica ti permette, anzi vuole che tu sia un individuo, e faccia ciò che è tuo».
Questa visione del jazz è riassunta anche da ciò che Roach replicò a chi osò rimproverarlo, «lui che aveva suonato con Charlie Parker…», di aver lavorato in duo con musicisti come Anthony Braxton. Tuonò: «Una persona come Anthony Braxton è più simile a Parker di una che suoni “come” Charlie Parker. Bird era creativo e differente, e guardava in sé stesso. Sapeva quanto Hodges, Benny Carter e tutti gli altri avessero fatto. Quelle erano le fondamenta, e Bird costruì su quelle. Oggi ci sono alcuni come Phil Woods che preservano la tradizione, e poi ci sono quelli che spingono più oltre, che perpetuano il continuum cercandovi cose. Cecil Taylor è più simile ad Art Tatum di uno che suoni come Tatum. Magari non sempre tutto questo vien fuori, ma significa creatività».
Gian Mario Maletto