Cagliari, dal Mississippi al Sahara, Corey Harris incontra Farees

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Corey Harris e Farees in concerto al Fabrik di Cagliari (Foto di Daniele Fadda)


Dal cuore dell’Africa al Delta del Mississippi. E’ musica per gente di cuore quella di Farees e Corey Harris fotografati nel live “Sahara to America” viaggio di andata e ritorno alle fonti del blues. Quelle nate dai canti dolorosi e malinconici di spirituals e gospel che in questo inedito incontro tra due musicisti straordinari cercano le comuni sorgenti nei suoni sahariani. Sì, perché proprio nel conturbante universo di quella regione nordafricana che alcuni studiosi collocano la culla della musica del diavolo. Il loro è un racconto ravvicinato che prende vita in un intenso concerto di oltre un’ora e trenta nello spazio off del Fabrik a Cagliari, per iniziativa di Cagliari Blues Radio Station e Liberafest che con coraggio hanno allestito questo live event in questi tempi maledettamente difficili per la musica suonata dal vivo e un genere particolarmente amato da queste parti. La Sardegna infatti, non è solamente terra di jazz ma anche territorio presidiato dagli appassionati del blues chenella regione hanno rassegne molto seguite, nonché un consistente numero di musicisti di buon livello.

In primo piano a destra il Bluesman Corey Harris. Sullo sfondo Farees (Foto di Gianfilippo Masserano)

Esiste insomma, uno zoccolo duro che permette di assistere a incontri come quello proposto in questo scorcio di autunno: due musicisti di pregio, ma di differente estrazione, che hanno scelto di confrontarsi ciascuno con la propria personalità e bagaglio, senza preconcetti con un formidabile senso di apertura. Il risultato è suggestivo, a tratti coinvolgente. Un esperimento ancora in fase iniziale dove però la determinazione e la voglia di proseguire qualche tratto comune sembra molto forte. Partendo a ritroso, dall’America, ecco Corey Harris, rappresentante dell’ultima generazione blues, assai popolare tra gli appassionati del genere. Originario di Denver, Colorado, dalla metà dei Novanta, assieme a fuoriclasse come Keb Mo, è protagonista di una musica di forte impatto contraddistinta dal ritorno in primo piano della chitarra acustica. Diventato assai noto nel 2003 come uno dei protagonisti delle miniserie televisive realizzate dal regista Martin Scorsese, e dedicate alla musica blues, proprio nel suo album d’esordio, “Between Night and Day”, prodotto da Larry Hoffman ripropone senza fronzoli originals di Muddy Waters, Fred McDowell e Charlie Patton, il padre del “Delta Blues”. Alla sua uscita discografica ci fu persino qualcuno che gridò al miracolo (il “New York Times”) proprio per quel modo diretto di riproporre brani della tradizione. Nei primi anni Duemila Harris inizia a frequentare l’Africa suonando con musicisti come Alì Farka Tourè (ma l’anno successivo partecipa in America anche a un album tributo dedicato a Johnny Cash) incidendo “Mississippi to Mali”.

Un primo piano del Bluesman americano Corey Harris (foto Alessandro Carboni)

Curioso e aperto ai confronti Harris collabora anche con musicisti apparentemente distanti come il mitico folksinger inglese Billy Bragg. Harris è comunque talento che risplende di luce propria. Basta ascoltarlo dal vivo. Ha una voce profonda in grado di far risuonare tutte le sfumature riprese dal grande patrimonio vocale afroamericano. Dagli spiritual al blues senza uguali di Johnson fino agli epigoni: da Taji Mahal a B.B King. Conquista all’ascolto sin dalle prime note, cullando con melodiose nenie ed emozionando con aspre, rabbiose song. Inevitabile l’incontro con Farees, musicista mediterraneo e nordafricano che, vivendo al centro di un ricco e movimentato incrocio culturale fatto di suoni, melodie e differenti lingue mostra una originale capacità di fare sintesi restituendo dal vivo una musica fortemente emozionale. Diretto e sanguigno Farees, tuareg da parte di madre (berbera) e italo tedesco per via paterna, è un poeta dell’incontro musicale. Chitarrista di livello con spiccato senso del ritmo, molto abile sulla tastiera dove passa con disinvoltura dal fingerpicking al bottleneck, possiede un approccio squisitamente multiculturale. Conosce cioè a menadito la tradizione dei padri del blues americano che intreccia in modo originale con il suo background culturale e musicale: uno tra i più ricchi dell’Africa.

Il chitarrista salariano Farees in primo piano. Sullo sfondo suona le percussioni Corey Harris (Foto Daniele Fadda)

E’ qui d’altra parte che possiede le sue radici: nella grande regione sahariana, in prossimità del Mali, sacra fonte di musica e ritmo. E’ la terra dell'”assouf” dove molti vedono le ancestrali origini del blues, luogo per elezione del “desert blues” dei vari Tinariwen e altri che negli ultimi anni hanno fatto conoscere al mondo un patrimonio poco conosciuto. Fatto di canti, balli e, musica naturalmente. Nelle sue canzoni Farees echeggia tutto ciò dando voce a chi lotta contro il razzismo e l’ingiustizia sociale. Fedele alle radici, eppure sensibile anche alle evoluzioni più recenti della scena maghrebina. Farees ha suonato anche di recente in diversi tour come session man accanto a Terakaft e Tartit, prendendo parte tempo fa anche al mitico “Festival du Desert” con i Tinariwen. E’amato da musicisti come Ben Harper e Taj Mahal e collabora anche con i Calexico. Pochi giorni fa, il 23 ottobre, è stato pubblicato il singolo “Y’All Don’t Know What’s Goin On” inciso da Farees assieme alla celebre band tex mex con base in Arizona. Farees canta e suona la chitarra accompagnato dalla robusta sezione ritmica e fiati dei Calexico. Nei versi di questo brano il musicista sahariano prende di mira i più problematici e pericolosi luoghi di confine dove avvengono le immigrazioni. Un tema particolarmente a cuore al chitarrista sahariano che affronta anche in “Border Patrol”, il suo nuovo album in uscita il prossimo novembre.

Farees e Corey Harris in concerto al Fabrik (Foto di Alessandro Carboni)

L’approccio alla chitarra di Farees come si è visto nel live del Fabrik è istintivo, in grado di trasformare lo strumento in una macchina da guerra sonora. Il sound, arricchito da umori hendrixiani esibisce trame inedite dove fa capolino _ anche quando è alle prese con un brano di Blind Willie Johnson _ la particolare energia elettrica degli uomini blu. Una forza che sa di antico: un canto levato al cielo che imita la forza del vento e sprigiona il calore del sole. Il blues di Farees è così: doloroso e potente, senza compromessi, capace di raggiunge direttamente il cuore. Blues primigenio se si vuole. E la potenza di questi suoni, il fantasmatico bagaglio della musica dell”“assouf” (in lingua Tamashek indica solitudine, nostalgia, ma anche il dolore che non è fisico, cioè proprio dell’anima) non solo dialoga con il blues del Delta messo in campo dal grande Harris, ma con questo si interfaccia strettamente e, incredibile magia, genera _quando i due intrecciano le loro chitarre _ un sound inedito, trascinante e senza tempo. Proprio per questo il loro live è imperdibile: fa accadere qualcosa che prima non c’era. Non dura tantissimo ma è come un raggio verde all’orizzonte del mare. Unico e prezioso: da coltivare. Come un filo interrotto fosse collegato di nuovo, mette in relazione mondi lontani, facendo scomparire in pochi secondi. Il set vive questi momenti di intesa, fatti di melodie iterative e di ipnotiche dance, come un viaggio nel tempo, testimonianza di un evento da ripetere ancora. Per il resto il concerto lascia ampi spazi alle esibizioni di ciascuno, da una parte Corey con il suo repertorio di originals riletti con una voce dai bassi profondi e dall’altra Farees alla chitarra elettrica come alla steel guitar che lega i blues del Mississippi alle roots del deserto.

Farees accompagna il Bluesman americano Corey Harris suonando il flauto nel live di Cagliari (Foto Alessandro Carboni)

E sono da parte di entrambi omaggi alla maestria dei grandi come Skip James (“Special Rider”) dove, negli arpeggi iniziali sembra di percepire gli echi di kora dei griot africani. Si apre con Farees che arpeggia la chitarra, appunto come fosse una kora, liberando una melodia avvolgente, oppure accompagnando con un flauto lo sviluppo di “Black Woman’s Gate”, brano che Harris pubblicò nel 2003 del disco “Fulton Blues”. Il set è un saliscendi continuo di emozioni dove i due musicisti si passano la palla con evidente complicità. Scorrono melodie avvolgenti dal sapore mediterraneo (“Mama Africa”), richiami forti alla musica del Delta (“Lynch blues”), un blues sahariano trascinante come “Derhan” e altri inarrivabili pezzi da leggenda: da “Candy man” (di Taj Mahal) a “Twelve Gates to the city” (di Blind Boy Fuller) e una sontuosa “Mannish Boy” di Muddy Waters. Un set davvero indimenticabile.