Prima uscita ufficiale di un favoleggiato show dei R.E.M. sotto mentite spoglie dei Bingo Hand Job, nel periodo migliore della loro storia
Un’altra volta parlerò (male) del Record Store Day, quella cerimonia per vinilisti radicali e rigattieri di modernariato che ogni primavera celebra la bellezza del tempo musicale che fu e l’amore accanito di un popolo di discomani a occhio sempre più esiguo. In questa sede parlerò invece (bene) di un album che esce proprio in occasione dell’avvenimento, un doppio vinile in tiratura limitata, com’è abitudine di una tale festa fifty-fifty (metà sinceri sempliciotti, l’altra metà furbastri patentati). L’album è un live dei R.E.M., marzo 1991, uno dei due show al Borderline di Londra condotti non con la sigla ufficiale ma sotto le mentite spoglie dei Bingo Hand Job, un settetto che oltre ai quattro membri originali comprendeva gli amici Peter Holsapple, Billy Bragg e Robyn Hitchcock. Il gioco prevedeva un travestimento anagrafico: Michael Stipe era per l’occasione «Stinky», Peter Buck «Raoul», Mike Mills «Ophelia» e Bill Berry «The Doc», mentre gli ospiti, in ordine, comparivano come «Spanish Charlie», «Conrad» e «Violet». Pur con quell’escamotage, le possibilità di essere scambiati davvero per una giovane band di sconosciuti erano pari a zero, e non per nulla i bagarini vendevano i biglietti per le due serate previste a 150 sterline al pezzo.
I R.E.M. compivano dieci anni in quei giorni, e vivevano la loro stagione più fulgida. Si erano fatti notare come giovani studenti del profondo Sud americano (Athens, Georgia), provando le loro canzoni in una vecchia chiesa sconsacrata e girando su un pullmino scassato su cui l’imberbe Stipe leggeva On The Road di Jack Kerouac. Sfoggiavano idee e fobie, accesi amori di underground e fantasie futuriste; e con quel bagaglio, passo dopo passo, avevano elaborato un personalissimo sound in cui visioni psichedeliche Quicksilver andavano a mischiarsi a dannazioni Velvet e alla poesia fonetica di Stipe, impegnato a rendere il meno intelligibili possibile i testi in una fascinosa schiuma sonora. Un ibrido non facile all’ascolto ma perfettamente in sintonia con i tempi; era la musica ormonale e scorbutica della nuova generazione anni Ottanta, che non rinnegava il passato ma lo piegava accanitamente, e a volte sgraziatamente, alle proprie esigenze. Secondo una scuola talebana di appassionati, i primi cinque album sono la Verità Rock della band, puri ruvidi & intricati – da «Murmur», 1983, a «Document», 1987. Ma l’affermazione è rischiosa, perchè in nome della presunta «impurità» si rinnegano dischi fantastici come «Green», «Out Of Time», «Automatic For The People», quelli che seguirono fra il 1988 e il 1992. C’era stato un cambio di casa discografica nel frattempo, da un’etichetta indipendente come la IRS alla major Warner Bros., e già questo aveva indispettito i fans; ma i R.E.M. avevano reagito nel migliore dei modi, mantenendo vive ispirazione ed energia, sostituendo la ugly beauty delle prime canzoni con una nuova luminosa idea di bellezza, inventando un credibile folk rock per l’ultimo scorcio di secolo.
Gli show a nome Bingo Hand Job si situano in quest’angolo temporale. È il marzo 1991, «Out Of Time» è uscito da una settimana e i R.E.M., in barba al manuale del Grande Complesso Rock, hanno deciso di non tenere show promozionali. Il successo all’apparenza non li scalfisce, ma in fondo in fondo sembra che vogliano scrollarselo di dosso, giocando una serie di tiri paradossali. Suonare in incognito è uno di questi, e si noti che da pochi mesi è uscito un progetto laterale del gruppo avvolto nella stessa ambiguità: Peter Buck e compagni, senza Stipe e con Warren Zevon, si presentano per l’occasione come Hindu Love Gods. Ma, quale che sia la sigla, i R.E.M. non rinunciano al loro stile, a quell’irresistibile mix di ballate metropolitane e folk pop rock delle praterie che batte nelle loro menti e sanno sfogare convincentemente. Gli show del Borderline sono di quella fatta, con il bonus di una rilassatezza sconosciuta ai concerti ufficiali, con toni più acustici che elettrici, con tutte le pause del mondo e un repertorio che a volte sembra trovato per caso lungo la via. Le canzoni dal nuovo album sono solo cinque, e non tutte quelle di maggior presa: c’è Radio Song però mancano Shiny Happy People e Losing My Religion, non si capisce se per una forma di snobismo o per capriccio, a marcare lo show come ancor più «alternativo». In compenso ci sono classici del passato che arrivano al cuore di chi ascolta con dolcezza (The One Of Love) o come una puntura (Disturbance At The Heron House), e non manca la Love Is All Around dei Troggs da tempo estratta dal juke box dei Sessanta per affettuose rievocazioni. Il doppio vinile scorcia un po’ lo show e salta qualcosa, va detto, ma non si perde il finale: una sorprendente divertente Moon River, quell’Henry Mancini per Colazione da Tiffany che quasi certamente avrà fatto felice la signora Stipe ma chissà se anche i talebani R.E.M. di cui sopra.
I R.E.M. non si trasformarono più in Bingo Hand Job, però continuarono gli anni felici. «Automatic For The People» completò una mirabile trilogia e poi la band tenne botta almeno fino a «Up», alle soglie del nuovo millennio. Gli ultrà R.E.M.-iani non lo ammetteranno mai ma lì iniziò una crisi che si risolse solo con la drastica decisione di farla finita; la musica si era persa in una cerebrale roomful of mirrors, aveva smarrito spontaneità ed energia, non riusciva più a comunicare con il selvatico istinto delle origini né con la raffinata tecnica della maturità. Con la sensibilità e la intelligenza che li ha sempre distinti, Stipe e compagni capirono che bisognava tornare a un rock «istintivo, trafelato, anche arrabbiato – riducendo tutto all’osso, musica e parole, semplificando il passaggio dalla testa agli strumenti». Così fecero con i due ultimi album, «Accelerate» e «Collapse Into Now», ma dopo aver raddrizzato le cose si chiamarono fuori. Era il 2011.
Il vinile dei Bingo Hand Job è una preda difficile, il tempo di andare in stampa con questo articolo e non si troverà più, come accade per tante uscite del Record Store Day. Più facile mettere mani e orecchie su un box uscito da poco, «R.E.M. At The BBC», dove in otto CD e un DVD è raccontata la storia della band presso l’emittente di Stato britannica lungo quasi tutto l’arco della loro avventura. Ci sono gli implumi ragazzini di «Reckoning», 1984, le star di «Out Of Time» due giorni prima del concerto al Borderline, i costipati maestri del 2003 e 2008; che suonano al volo da John Peel o da altri benevolenti dj ma, anche e soprattutto, si offrono in concerto. Il cofanetto ne riporta cinque, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Quello di Glastonbury 1999 si dilunga per ventun brani e due cd ed è uno spettacolo nello spettacolo.
Una volta Michael Stipe spiegò in modo forte e conciso la filosofia sua e della band: «Mi piace l’idea di una musica che parli la lingua dei sogni e nello stesso tempo rifletta il mondo in cui ci muoviamo, il tempo che abitiamo.» Per quello credo che i R.E.M. si siano sciolti e non ritorneranno mai insieme; perchè non si sentivano più all’altezza di una simile promessa, e le alternative erano ben poca cosa. Non valeva la pena resistere solo per puntiglio o per diventare i Rolling Stones del futuro. Non sarebbe stato dignitoso, non era da R.E.M.
Riccardo Bertoncelli