Umbria Jazz 2023, prima parte

Il nostro inviato Paolo Romano è a Perugia per seguire la nuova edizione di Umbria Jazz. Ecco la prima delle sue corrispondenze.

743
Nduduzo Makhathini © Ndumiso Mtshali

«Esplorare l’improvvisazione come pratica profetica, arrendersi alla musica. Ci sono storie transatlantiche che viaggiano e restano impigliate nella vita delle persone, filtrano nel tempo, si tramandano anche quando non lo sappiamo. Ecco: improvvisare significa attivare la memoria collettiva, entrare in un flusso di coscienza condiviso, partecipare sé stessi agli altri e viceversa».

Nduduzo Makhathini scatta la prima fotografia di questo cinquantesima edizione di Umbria Jazz con una sensibilità sciamanica e uno sguardo sulla storia, che definisce il non perimetro di una rassegna lontanissima da capelli brizzolati e prolassi di tessuti, orientata com’è – per sua natura – a incamerare visioni e suoni oltre la cronaca del qui e ora. Il pianista sudafricano, già ospite di Musica Jazz in una lunga intervista dello scorso dicembre, ha sorriso e tratti delicati, abbraccia chiunque gli sorrida e lo ringrazi per la sua musica: lo scambio, l’interconnessione con il pubblico sono lo spirito che lo fa muovere nella sua performance estemporanea, dove coinvolge nel canto tutti: «cantare, suonare insieme sono una delle espressioni più potenti del senso di esistere», dice.

Nduduzo Makhathini © Hugh Mdlalose

Eccezion fatta per il «fuori pista» di tutto riguardo di Bob Dylan, che ha sedotto i suoi incrollabili fan all’Arena Santa Giuliana la sera precedente, Umbria Jazz 2023 parte proprio dalla Sala Podiani, nel cuore del Palazzo dei Priori di Perugia, dove, al livello sopra il piano, viene inaugurata una incredibile Mostra fotografica dei più prestigiosi e noti reporter del genere, che racconta, ancora più dei volti, le anime che sono transitate in una città evidentemente destinata ad ispirare.

In fondo, il Corso Vannucci dove si passa e si ripassa in uno struscio ininterrotto durante i giorni e le notti del Festival è intitolato al Perugino, un altro anniversario onusto che rintocca nel ‘23 la cinquecentesima campana dalla scomparsa. Vittoria Garibaldi, storica dell’arte nata nel capoluogo umbro, scrive di lui: «la sua arte è fatta di armonie e silenzi, di colori dolcemente sfumati, di prospettive attentamente studiate, di equilibrio ideale», che se non si stesse parlando di pittura si potrebbe incollare a una faccia del poliedro del jazz.

Alla fine del Corso, invece, ci sono i Giardini Carducci, dove si è arrivati ai playoff, per così dire, del Conad Jazz Contest, giunto anch’esso alla decima edizione, e che chiama a raccolta i migliori giovani talenti internazionali tra i 18 e i 28 anni, liberi da contratti discografici, per soffiare ancora più forte nelle vele della promozione e dell’istruzione musicale per i migliori. Dalla terrazza dei Giardini è probabile che il vecchio Giosuè, oggi busto, nel 1906 abbia iniziato a scrivere il suo Canto dell’amore: «Sale un cantico solo in mille canti», dice in endecasillabo, dando uno slogan prima del tempo a Umbria Jazz, che quello alla fine fa: dare voce ad una pluralità di espressioni nella cornice del linguaggio musicale che fu afroamericano, prima di riflettersi e rifrangersi in immagini originali oltre le geografie natali.

Se si ricorre a citare l’arte figurativa del Perugino o Carducci è perché nella loro arte risiede parte viva dello spirito che presiede da cinquant’anni questa rassegna internazionale. D’altro canto, a porsi l’obiettivo di ricordare chi è passato di qui, si finirebbe per recitare un elenco telefonico, pur se di formato deluxe; è facile: di qui sono passati tutti, ma proprio tutti i musicisti che hanno reso il jazz patrimonio immateriale dell’umanità (ufficialmente riconosciuto nel 2011 dall’Unesco, grazie agli sforzi straordinari di Sua Maestà Herbie Hancock, ancora una volta presente e attesissimo nel programma di questa edizione). Grazie al cielo, però, è stato realizzato un bel cofanetto antologico (triplo cd o triplo vinile) per la Warner, certo non completo ma con esecuzioni rare di Miles Davis, Sonny Rollins, Stan Getz, Chet Baker, Dizzy Gillespie e moltissimi altri.

Herbie Hancock © Elena Carminati

Chissà se nell’estate del 1973, quando iniziarono a comparire i manifesti sui muri delle città umbre, qualcuno avrebbe scommesso sulla ripetibilità dell’esperimento, fortemente voluto dalle amministrazioni comunali di Perugia e Terni, che accolsero l’intuizione di Carlo Pagnotta e Alberto Provantini. A Terni, al tempo, era sindaco Dante Sotgiu, vulcanico promotore di novità e con una biografia passata dai campi di prigionia a Tobruk al Partito Comunista, sotto la cui bandiera ottenne l’elezione nel 1970, abbandonando temporaneamente l’insegnamento nelle scuole, lui – raccontano – era convintissimo della bontà dell’idea di sottrarre il jazz alle élite e restituirlo alla gente.

«Si chiamava Umbria Jazz, si sarebbe svolto dal 23 al 26 agosto in tre città della regione e avrebbe avuto alcune caratteristiche più uniche che rare, soprattutto per un festival jazz», racconta Gian Luca Laurenzi, Presidente della Fondazione di Partecipazione UJ, «le location erano piazze e parchi; i concerti erano gratuiti; il festival era itinerante (ogni sera una città diversa)».

Ora, tanto per marcare diacronicamente una linea su su fino a quell’anno, andrà ricordato che Presidente degli Stati Uniti era Richard Nixon, mentre in Argentina stava per diventare presidente Perón; nelle televisioni americane si trasmetteva La famiglia Addams, mentre a marzo i Pink Floyd pubblicavano «The Dark Side of the Moon». In Italia, nei giorni in cui debuttò Umbria Jazz, non s’ascoltava altro che Pazza Idea di Patty Pravo e Perché ti amo dei Camaleonti, all’ombra del governo Rumor.

Mille vite fa di sicuro, che però sono il capo dal quale s’è iniziata a dipanare un’altra storia con epicentro Perugia: il racconto virtuoso di un idioma in movimento, dentro i cui codici si sarebbe potuto trovare il racconto di tutto il male e tutto il bene di cui è capace l’umanità, proprio come suggerito dalle parole di Nduduzo.

Certo è che quel famoso venerdì 24 agosto, sotto il segno della Vergine, Umbria Jazz partì in modo abbastanza disgraziato a causa del maltempo e proseguì peggio. Il meteo storico ricorda nella zona di temporali, fulmini e saette, con venti oltre gli 80 km/h che fece saltare due eventi di punta di quella prima edizione: Giorgio Gaslini e Jackie McLean.

Ma fu abbastanza clemente da consentire l’esecuzione ad artisti come Mal Waldron, Sun Ra, Thad Jones & Mel Lewis, Weather Report e Dee Dee Bridgewater, in barba all’idea che avanguardia, sperimentazione e sonorità classiche non hanno una feroce forza attrattiva verso il pubblico, che si fidelizzò con tale evidenza da non lasciar dubbi sull’organizzazione di una successiva edizione: quella del 1974, per gli appassionati dei vecchi filmati, in cui un giovane ma tetragono Keith Jarrett rendeva stracolma la piazza e il corso di Perugia, abbandonandosi in una improvvisazione per piano solo lunghissima e strepitosa, mentre – ci si tenga forte, conoscendo l’uomo di poi – frotte di fotografi assiepavano il palco, praticamente fin sotto i suoi piedi, per scattare immagini entrate nell’immaginario collettivo.

Ma di aneddoti, storie, volti s’affolla la memoria di chi questo Festival frequenta da anni, decenni o addirittura da quando nacque cinquant’anni fa. È la forza collaterale di Umbria Jazz, infatti, quella di chiamare inevitabilmente a raccolta, oltre ai musicisti, un indotto, anzi una fiumana di addetti ai lavori e semplici appassionati da tutto il mondo che, tra un concerto all’altro, corroborano e fanno pulsare una comunità vivace (e come tutte le comunità non esente da invidie, dicerie, grandi slanci, amicizie, amori e odi) aggiungendo dettagli, memorie, giudizi splendidamente arbitrari, preludio di guerre di genere sulla falsariga del «meglio i Beatles o i Rolling Stones».

Fa parte del gioco, fa parte di una storia bellissima che Musica Jazz, d’altro canto, racconta fin dai primi vagiti.
Paolo Romano