Umbria Jazz Winter 30
Orvieto, 28 dicembre 2023 – 1 gennaio 2024
Prima Parte
Trent’anni sono parecchi. Tanti se si pensa a un festival di musica jazz; musica che non sembra ancora appartenere completamente al codice italiano. E Umbria Jazz appare essere una rarità (unitamente a qualche altro sodalizio sparso nello Stivale) perché si estende in tre stagioni.
La consacrazione della bella e accogliente Orvieto arriva nel 1993. La cittadina umbra, dal magnificente Duomo, ha degli ottimi contenitori culturali, che ben si prestano allo svolgimento di attività concertistiche di pregio. Ed è così che Carlo Pagnotta e il suo staff danno inizio a un cammino che mette Orvieto al centro del mondo jazzistico. Per questa edizione il weekend lungo di Capodanno (dal 28 dicembre all’1 gennaio) ha visto ancora una volta il Teatro Mancinelli, il Palazzo del Capitano del Popolo, il Palazzo dei Sette e il Museo Emilio Greco accoglienti scenari del jazz senza frontiere spazio-temporali. E se, a prima vista, qualcuno aveva storto il naso nel leggere i nomi in cartellone, si è dovuto ricredere per la qualità dell’offerta e le gustose sorprese che sono state riservate al sempre più numeroso pubblico.
Cinque giorni di festival per circa 140 ore di musica, ben ventidue gruppi, quasi ottanta eventi e, grosso modo, 140 artisti che si sono esibiti durante la kermesse. A suggellare il trentennale, anche una evocativa mostra dei manifesti che hanno fatto da vessillo a tutte le passate edizioni.
La formula è sempre la medesima (forma vincente, non si tocca) con concerti sparsi, sia per orari che per luoghi, dalle 11 circa con i Funk Off che hanno quotidianamente inondato di ottima musica e allegria le strade del centro storico orvietano (mattina e pomeriggio); per poi passare agli appuntamenti di mezzodì al museo Emilio Greco, con seguito alle 15. E poi il Palazzo dei Sette che ha ospitato il duo Filippo Bianchini e Luca Mannutza, gli spumeggianti Sticky Bones, il country rock del Lovesick Duo, il combo ben rodato di Nick The Nightfly e, per i concerti di mezzanotte, il quintetto Dear Dexter, ovvero: Piero Odorici, Daniele Scannapieco, Paolo Birro, Aldo Zunino e Xaver Hellmeier. E ancora, Lorenzo Hengeller e Accordi Disaccordi. In pratica, dalle 11 alle 24 e oltre una grande, quotidiana maratona di musica.
L’overture della manifestazione si è tenuta al Palazzo del Popolo, sala 400 e ha avuto come protagonista il gruppo vincitore del Conad Jazz Contest: Kaleidoscope Quartet e, a seguire, il Berklee/Umbria Jazz Clinics Award Group 2023, che hanno confermato la bontà del lavoro svolto da parte delle due istituzioni anche nell’ambito della didattica. Insomma, la nuova leva jazzistica promette bene: se la stessa promessa fosse anche mantenuta in termini di pubblico, ovvero se i giovani affollassero le sale da concerti di jazz così come i seminari e i contest, sarebbe fantastico.
Le serate al teatro Mancinelli si aprono con il trio del pianista Alessandro Lanzoni, completato da Matteo Bortone al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria e la guest Francesco Cafiso al sassofono contralto. Un’ora abbondante in cui i temi di Charlie Parker la fanno da padrone e, di conseguenza, le sgroppate di Cafiso, che si alterna ai lunghi assolo del leader del trio. Nel mentre anche un brano di Bortone (Salon Malaga) che rompe gli schemi dell’alta velocità ritmico-armonica impressa da pianoforte e contralto.
Il secondo set è per Cécile McLorin Salvant. Con accanto il fedele amico Sullivan Fortner al pianoforte, coopta le abili grazie flautistiche di Alexa Tarantino (di cui diremo anche in seguito), la maestria chitarristica di Marvin Sewell e una ritmica al fulmicotone: Yasushi Nakamura al contrabbasso e Keita Ogawa alla batteria.
La cantante di Miami è in particolare stato di grazia. Non tergiversa, non si perde in maliziosi virtuosismi vocali, ma canta da far impallidire tutti quanti. Tiene la scena da grande diva, chiacchiera in un discreto italiano, affascina il pubblico con il suo charme, ma anche con una voce che non ammette maldicenze. E sciorina un repertorio che drappeggia la sua autorevolezza di interprete e di leader. C’è Kurt Weill con Bertolt Brecht nella Pirate Jenny dall’Opera da Tre Soldi, c’è Sting con Until che si veste di mistero, l’Africa con lo sprechgesang che sorride al rap. E poi ci sono le sue belle composizioni come Fog, che attraversano le porte del tempo jazzistico per indicarci nuove direzioni.
Ma è tutto il lavoro di Cécile McLorin Salvant ad andare in questa direzione. La sua voce prende Ella Fitzgerald, Abbey Lincoln e Billie Holiday e le porta a passeggio nel terzo millennio, senza dover rimpiangere nessuno. Al suo fianco un drappello di grandi musicisti, a partire da Sullivan Fortner e il suo non-divismo: lacera la barriera del suono con impennate solistiche e fa fare pace al mondo con le sue note cesellate e morbide come il velluto. Alexa Tarantino, sassofonista e flautista, qui tocca il solo flauto liberando una ricca gamma di timbri e belle multifonie. L’approccio ritmico, armonico e melodico di Marvin Sewell conferiscono maggiore eleganza alla ricca materia sonora. Yasushi Nakamura non la manda a dire, e se è vero che sa fare il dispensatore di tempo, è altrettanto vero che libera degli assolo stordenti per purezza del suono e precisione alchemica. Keita Ogawa sembra che sia in grado di suonare tutto ciò che sente in relazione con la musica che ascolta, ma lontano dalle convenzioni e dai vincoli ritmici.
L’esibizione del sestetto si è ripetuta fino all’1 gennaio incluso, fatta eccezione per la giornata del 30 dicembre. Chi scrive ha assistito anche al concerto del 29: Cécile e i suoi compagni non si sono risparmiati e hanno offerto al pubblico un ricco carnet con un repertorio del tutto diverso rispetto al precedente.
La giornata del 29 si apre al Museo Emilio Greco con il duo Steve Wilson e Lewis Nash, già più volte ospite a Umbria Jazz, ma sempre capace di stupire e ammaliare il numeroso pubblico intervenuto. La loro performance si ripeterà, quotidianamente, fino al termine della kermesse. Un duo simbiotico, che si trova a meraviglia da circa vent’anni. Due autorevoli rappresentanti del proprio strumento che si incontrano, da vecchi amici, e decidono di sfoderare le armi, ma non per dar luogo a un singolar tenzone, ma per sugellare un’amicizia e un rapporto professionale meraviglioso. Sciorinano la loro arguzia attraverso The Mooche di Duke Ellington, Jitterbug Waltz di Fats Waller, poi Horace Silver, una bellissima, appassionante medley di brani di Thelonious Monk, per poi proseguire con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, John Coltrane e altri. La semplicità del duo è tanto appassionante quanto quello che riescono a sviluppare dal punto di vista armonico: acquarelli di illuminata bellezza, un dialogo continuo e immediato che i nostri lettori già ben conoscevano dal cd allegato nel 2015 alla nostra rivista (a sua volta registrato a Orvieto a fine 2013) e che è appena stato ristampato dalla Red Records.
Nel pomeriggio alcune repliche: il bello di Umbria Jazz Winter è quello di consentire a tutti di poter assaporare i concerti tutti, senza rischio di smarrirne qualcuno. C’è il sestetto di Cécile McLorin Salvant al Mancinelli, preceduto dal combo Dear Dexter; a palazzo del Popolo è in scena il trio di Lanzoni con Cafiso.
La sera lo stage del Mancinelli accoglie prima il quartetto di Fabrizio Bosso dedicato a Stevie Wonder. Con il trombettista piemontese, ci sono Julian Oliver Mazzariello (pianoforte e tastiera), Jacopo Ferrazza (basso e contrabbasso) e Nicola Angelucci (batteria); ospite d’onore Nico Gori (sassofoni e clarinetto). Il quartetto declina per intero l’album dedicato al leggendario musicista del Michigan, non risparmiandosi: tra melodie ben definite, personali armonizzazioni e torridi assolo che sottolineano, se ce ne fosse ancora bisogno, la statura tecnico-musicale di Bosso. Il volume sonoro elevato, l’attacco dirompente, la diteggiatura impeccabile a cavallo tra il bebop e l’hard bop, gli arpeggi fioriti ma non sofisticati. Nico Gori fa il suo ingresso con Cherie mon amour e mette in chiaro che anche lui si cimenterà nelle battle dei soliloqui.
Il secondo set è il fiore all’occhiello di questa trentesima edizione del festival umbro, una produzione originale rivolta a Wayne Shorter: Joe Lovano & Umbria Jazz Orchestra, con gli arrangiamenti e la direzione di Michael Gibbs e con la partecipazione di Steve Wilson, Peter Washington e Lewis Nash. Un’ora e mezza di un flusso musicale nel quale troneggia la figura di Lovano e i suoi assolo, con anche la complicità di Wilson. I brani scorrono con una certa lentezza, in alcuni casi arrovellati e fin troppo farciti di soliloqui, alcune volte eccessivamente verbosi. La adamantina bellezza di Lady Day, ma anche lo chapeau a Carla Bley e Gary Burton con Mother of the Dead Man, e poi Misterioso, Don’t Explain, si affiancano a un’altra perla siglata da Lovano, Bird’s Eye View e alla bella composizione d’antan (1975) di Gibbs: Tunnel of Love. L’orchestra è solida, attenta e regge benissimo tutto.
Molti episodi sono, però, appannaggio del combo spontaneamente creatosi nelle mani di Lovano e Wilson, con Washington e Nash che tengono botta sempre e comunque. E anche il pubblico fa la sua parte nel mantenere alta l’attenzione per oltre tre ore di musica, senza contare la consistente pausa dovuta al cambio palco.
Alceste Ayroldi
Le foto sono state gentilmente fornite dall’ufficio stampa di Umbria Jazz.
La seconda parte sarà pubblicata sabato 6 gennaio