Roberto Cacciapaglia: Diapason

di Giancarlo Spezia

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Roberto Cacciapaglia

Ripercorriamo con il poliedrico compositore milanese Roberto Cacciapaglia un’intensa carriera iniziata nei primi anni Settanta

Vorrebbe riassumere il suo percorso artistico, a partire dai fermenti di musica elettronica che popolavano gli anni Settanta?
Al Conservatorio di Milano studiavo composizione e successivamente musica elettronica, con tutta l’influenza rappresentata dallo studio di Fonologia Musicale della RAI di Milano, fondato da Luciano Berio e Bruno Maderna. Io ho studiato con Angelo Paccagnini, che aveva preso il loro posto in quegli anni. C’era poi l’influenza di Stockhausen, che ho conosciuto personalmente, e della scuola di Darmstadt. A me interessava molto l’elettronica americana, in particolare Morton Subotnick. Insomma in quegli anni c’erano davvero molte influenze diverse. All’epoca studiavamo sui nastri con i Revox in abbinamento ad altre elettroniche come i modulatori ad anello, e usavamo degli strumenti che poi sono stati anche adottati nella musica rock, da Brian Eno ai Pink Floyd. Ritengo di essere stato in Italia tra i primi a sperimentare queste tecniche, tanto che ho pubblicato un album con musicisti tedeschi tra cui Rolf-Ulrich Kaiser, che era anche il produttore del gruppo dei Tangerine Dream, e ho collaborato anche con i Popol Vuh, coi quali ho tenuto dei concerti alla Statale di Milano nell’inverno del 1975.

In una sola risposta, quindi, ha già individuato parecchi riferimenti importanti per la sua opera.
Il mio primo album si intitolava «Sonanze» ed è stato tra l’altro il primo disco quadrifonico pubblicato in Italia. Esaminato da un punto di vista più concettuale «Sonanze», nella mia idea di studente di conservatorio, appena ventenne ma già con parecchie esperienze alle spalle anche nell’ambito del rock, era di cercare una modalità espressiva che andasse oltre la divisione di queste due anime della musica, le dissonanze della musica accademica che arrivava appunto dalla scuola di Vienna e dalla dodecafonia e le assonanze, così le chiamavo io, della musica «di comunicazione» come il rock dei Pink Floyd, di Jimi Hendrix e dei Beatles, che erano all’epoca i punti cardinali di un’espressione artistica rivolta al ricambio generazionale. Nella mia testa mi sentivo già partecipe di queste due anime e non volevo tenerle divise, tendendo viceversa a unirle e integrarle nello sviluppo di una musica il più possibile disancorata, senza gerarchie, divisioni. Mi sentivo figlio di un’epoca che poteva integrare e trascendere i generi, al punto che poi nei negozi di dischi non sapevano come classificare i miei album e li mettevano nel jazz, nella contemporanea, nel pop: allora non c’erano ancora tutte queste dettagliatissime sottosezioni che si trovano oggi.
Ho vissuto tante esperienze, in quell’epoca, per esempio con Giacinto Scelsi che andavo a trovare a Roma per approfondire l’aspetto più esoterico della musica, per esempio Pitagora e il suo circolo dei Pitagorici, che ritenevano la musica l’essenza dell’Universo; il mito di Orfeo che incantava i delfini e faceva danzare gli alberi col potere del suono… Su tutto questo non ho mai smesso di lavorare, così come ho voluto aprofondire le modalità espressive sia dei monaci tibetani sia degli sciamani delle tribù dei native Americans.

Quindi potremmo ragionevolmente dire che, nella sua attività, non ha mai perso di vista l’aspetto esoterico della musica.
Senza dubbio: l’elemento esoterico fa parte del mio bagaglio culturale e anche del significato che do alla mia musica, che per me non è fine a se stessa ma è uno strumento di evoluzione. Per esempio il diapason, che dà il titolo al mio ultimo album, è un simbolo molto simile allo scacciapensieri, che era lo strumento raffigurato sulla copertina del mio primo lp «Sonanze». Il diapason è la sorgente del suono e simbolicamente trascende spazio e tempo per arrivare all’essenza: naturalmente l’essenza del suono è l’essenza dell’essere umano, e il diapason ha il potere di fare entrare in libera vibrazione i corpi sonori che sono nelle sue vicinanze. Una sensazione molto bella, che ho potuto avvertire in Siberia ma anche a New York e nel resto degli Stati Uniti, in Irlanda e oggi in Italia. Insomma, credo che in tutto il mondo esista un pubblico consapevole di poter avere molto dalla musica, e che in essa vede nella stessa una porta d’accesso a una migliore consapevolezza di sé. Certo, nella vita caotica e superficiale in cui siamo immersi non è semplice, ma il suono può attivare un circuito che ci permette di rientrare in una dimensione intima, e mi piace pensare che, con il mio lavoro di musicista, io possa offrire il mio contributo.

Roberto Cacciapaglia
Roberto Cacciapaglia

Nell’ambito di questo apprezzamento globale della sua musica si inseriscono spesso riconoscimenti di un certo livello; per esempio, l’Expo di Milano le ha commissionato la composizione dell’inno dedicato all’Albero della Vita.
Sono stato coinvolto direttamente da Marco Balich, che dell’iniziativa è stato ideatore, regista e produttore artistico. Con Marco ci conosciamo da tanti anni, in passato abbiamo lavorato ad Abu Dhabi e a Dubai con i musicisti delle Oasi: nessuno di loro parlava inglese e noi non parlavamo arabo, eppure è nata un’intesa totale che ha prodotto esiti entusiasmanti. Quindi Balich mi ha proposto di scrivere questa cosa per l’Expo e devo dire di aver apprezzato subito l’idea iconica dell’albero, perché nella mia visione le radici dell’albero rappresentano la consapevolezza di doverci ricollegare alle nostre origini. E poi il tronco: per la coreografa Martha Graham rappresentava il nostro modo di incedere, la colonna vertebrale. Infine la sua alta chioma e la fioritura rappresentano il futuro, le tecnologie, quello che ci aspetta e che non conosciamo: in fondo, un senso di stupore. Il mettere insieme tutti questi presupposti, il tentare di costruire un’icona che rappresentasse l’Expo e le sue aspettative, ecco, tutto questo l’ho vissuto come una sfida. E, con mia gioia, il pubblico ha gradito. Abbiamo lavorato come se si trattasse di un’opera senza libretto, affrontando il lavoro da un punto di vista sia emotivo sia architettonico. Per decenni c’è stata un’enorme ribellione nei confronti della melodia, ma nella mia consapevolezza essa ha un senso molto preciso perché è il veicolo dell’emozione, che sia suonata su un flauto di Pan o cantata nelle arie d’opera. La Storia ci insegna che, in Italia, l’opera lirica è stata un enorme veicolo di consapevolezza culturale: nell’Ottocento, anche chi era analfabeta conosceva a memoria un’opera dopo l’altra. E lo stesso vale per la canzone napoletana o il folk irlandese: la melodia attraversa i secoli e rappresenta per noi l’emozione, dove invece la armonia, la costruzione armonica architettonica è più un aspetto mentale dell’uomo, mentre il ritmo rapprersenta la fisicità. Chiunque fa yoga sa che siamo costituiti da corpo, emozione e mente, e io dirigo il mio lavoro in questo senso, verso una musica che riesca a contenere questi aspetti senza censurarne alcuno.

Credo che la sua musica abbia molti livelli di lettura: è comprensibile da chiunque ma al suo interno, nella sua levigatezza, ha come folate trasversali venate di tensione, che sembrano rivolgersi a un pubblico molto evoluto. Le viene naturale scrivere così, oppure si tratta di qualcosa di deliberato?
Questa è una domanda importante. Quando compongo e anche quando suono dal vivo parto sempre da un silenzio interno e quindi cerco di creare spazio. A volte dico che per me stare al pianoforte è come essere a occhi chiusi davanti a uno specchio, e se raggiungo dentro di me un certo stato di rilassamento, ciò che produco sa raggiungere chi ascolta. È l’alchimia di collegarsi al singolo, di raccogliere e catturare come un magnete l’ascoltatore, non certo per dominarlo ma per entrare in contatto con le sue parti più profonde. Che tutto questo avvenga a livello più o meno cosciente non importa, perché il potere del suono va oltre la mente.
Come nella Bibbia, il suono abbatteva le mura di Gerico, anche questo è un modo simbolico di parlare dell’abbattimento del pensiero: il suono può eludere la mente per un attimo e portarci al «quarto tempo». Intendo con questo termine – è capitato a tutti – l’esperienza di perdere per un istante la cognizione del passato, del presente e del futuro e avere l’impressione che tutto l’universo stia cambiando, ma poi, tac! in una frazione di secondo ecco che torniamo alla percezione ordinaria: per me il suono ha questo potere. A volte sento dire che la mia musica rilassa e ne sono contento, perché con le tensioni non si va lontano, però mi preme puntualizzare che il rilassamento non serve ad addormentarsi ma a svegliarsi, a essere consapevoli di ciò che succede dentro e fuori di noi.

Ci parla del suo rapporto con Terry Riley?
L’ho conosciuto negli anni Novanta all’Aterforum di Ferrara, cui entrambi eravamo stati invitati. In quell’occasione avevo eseguito il mio Transarmonica, una composizione per archi, mentre assieme a Riley abbiamo eseguito In C, il suo brano simbolo, riunendo sul palco il mio ensemble più lui e i suoi due musicisti. Questa storica registrazione è stata poi pubblicata non moltissimo tempo fa su un album in Russia. Anche Riley, uno dei creatori del minimalismo, discende dal misticismo che ha assorbito dalla musica indiana, dai raga, che sono basati sulla ripetizione; per me, nell’ambito del minimalismo, rimane lui il musicista più legato alle emozioni rispetto a strutturalisti come Philip Glass, John Adams, Steve Reich.

I suoi progetti?
Ho quindici date in Italia, poi in primavera torneremo in Russia mentre in estate avremo otto date in Cina. In autunno ripartirò per gli Stati Uniti, da cui sono appena rientrato dopo un tour che ha avuto un’accoglienza fantastica.

Giancarlo Spezia

[da Musica Jazz, aprile 2019]