Nick Mason, il leggendario batterista, si rimette in gioco, con un incredibile allineamento astrale: Pink Floyd, Robert Wyatt, Carla Bley, Spandau Ballet.
Guai a dire che Nick Mason è il minore dei Pink Floyd. Non è giusto, non è vero, anche se è innegabile che la partita del tifo tra appassionati si giochi tra David Gilmour e Roger Waters, anche se parlando di mitologia nessuno ha mai raggiunto lo status di semidio come Syd Barrett. Nella storia della band, lunga più di mezzo secolo pur con varie pause e singhiozzi, Mason è sempre stato partecipe, attento, creativo, con il limite della seconda fila a cui lo consegnava il suo strumento, la batteria. È stato anche il più saggio e posato, un diplomatico very british, e non pensate sia una dote da poco. Mentre Gilmour e Waters, parenti serpenti, duellavano e si tormentavano come i figli del master di Ballantrae, lui volava alto, smussava, appianava, ben sapendo che il patrimonio Floyd appartiene al gruppo e solo al gruppo, nessuno può pensare di ereditare da solo, come a suo tempo già insegnarono Lennon e McCartney.
Personalmente l’ho incontrato una volta, una dozzina d’anni fa, trovandolo proprio come me lo ero figurato: un gentiluomo assennato, garbato e rispettoso, con un formidabile antidoto ad ambizioni e vanità musicali rappresentato dalla smodata passione per le auto da corsa. Era venuto in Italia a presentare il suo libro sui Pink Floyd, Inside Out, ancora oggi un riferimento per chi vuole saperne del gruppo; e con calcolato distacco me ne raccontò la storia, l’idea originaria che fosse una biografia collettiva, il suo sforzo per raccogliere e ordinare i materiali, il prevedibile finale in cui il signor W disse bianco, il signor G disse nero e lui si trovò a mezz’aria con i suoi faldoni. Poco male, gli venne in soccorso la saggezza che dicevamo: così scelse di firmare il libro solo lui, con tanti saluti alla compagnia. La mossa credo sia servita a qualcosa, se è vero che la mostra recente l’hanno sottoscritta tutti.
In sintonia con il carattere e i modi che abbiamo detto, Mason non ha avuto una carriera
stressante. È stato ferocemente sul pezzo dagli inizi a «The Wall», una quindicina d’anni, poi ha avuto molto tempo libero e ha trovato il modo di coltivare anche qualche progetto extra – sempre con calma però, senza impiccarsi. Ora prova a stupirci perché, alla veneranda età di settantaquattro anni, torna sulle scene con un fitto tour come non faceva da decenni, in giro per l’Europa, alla testa di una band che ha voluto battezzare con il nome della composizione che più gli è cara, Nick Mason’s Saucerful Of Secrets. Il profilo rimane basso, il timido Nick non ha alcuna intenzione di estendere la guerra dei Roses degli ex compagni rivendicando l’eredità; ma alla lunga dev’essere scattata anche in lui la voglia di mettere il cappello su certe memorabili canzoni che hanno marchiato l’immaginario del nostro tempo. Chi ha visto i quattro show di lancio nei suburbi londinesi, tra il 20 e il 24 maggio, è rimasto entusiasta dell’energia e del gusto giocoso dello spettacolo; e una felice frase dell’inviato del Daily Telegraph mi ha fatto intuire un altro perchè di questa uscita a sorpresa – alla fine di due ore così, cito a memoria, uno finisce per domandarsi se davvero il rock sia progredito tanto da dov’era negli anni Sessanta.
I Saucerful Of Secrets sono stati agli Arcimboldi di Milano il 20 settembre, schierati con una formazione che fa già discutere perchè il cantante è Gary Kemp, ex idoletto degli Spandau Ballet, non proprio un culto psichedelico. Ma questa è cronaca, mentre di Mason vorrei fare un po’ di storia, e raccontare per esempio quei progetti extra Pink a cui prima si accennava. Sono tre album a suo nome usciti negli Ottanta, trascurati all’epoca, dimenticati per anni, alcuni mai pubblicati in cd e ora recuperati per il mondo digitale e, soprattutto, accomodati in un elegante cofanetto di tre cd o tre vinili dal titolo «Unattended Luggage». Sono operine minori, certo, ma la prima ha una storia e una luce proprio particolare. Di tutti i Pink Floyd, Mason negli anni Settanta fu il più curioso di quanto accadeva intorno a lui. Era già celebre e avrebbe potuto fare il VIP, solo con le primedonne di quell’ambientino che era la più decantata Londra di sempre. Invece frequentava la provincia e l’underground, e si innamorava di progetti strani che non avrebbero mai incontrato le classifiche. Più che suonare la batteria gli interessava produrre, nel senso di modellare il suono, di condizionare il mood con la sua testa che prima di molte altre aveva navigato gli spazi infiniti, in interstellar overdrive. Così produsse i dimenticati ma valorosi Principal Edwards Magic Theatre, due album, e affiancò l’amico Robert Wyatt nella sua avventura più bella e gloriosa, «Rock Bottom»; senza mancare di onorarlo in scena quando Richard Branson inventò un commovente concerto al Royal Theatre di Drury Lane, otto settembre 1974, in occasione del ritorno sulle scene di Wyatt dopo l’ incidente che lo aveva costretto sulla sedia a rotelle. Poi altre scelte insolite, ogni tanto: i Gong (in declino) di «Shamal», i Damned (giusto per scrollar di dosso la nomea di dinosauro) di «Music For Pleasure».
Ma la carta più bella Nick il cercatore la pescò non come produttore bensì come avventizio, quando nel 1976, per attrazione credo dell’amico Robert, finì per orbitare vicino al pianeta Watt, l’etichetta discografica fondata qualche anno prima da Carla Bley e dal suo compagno di allora, Michael Mantler. Il nome di Mason compare, seppur in corpo due e con la misteriosa dicitura «additional speakers», in un egregio lp del 1976 intitolato «The Hapless Child»: storie tra il sulfureo e il surreale dell’impagabile Edward Gorey musicate da Mantler con l’aiuto di una formazione stellare – Wyatt, Carla Bley, Steve Swallow, Jack DeJohnette, Terje Rypdal. Dopo quel primo aggancio, Mason rimase in contatto con Mantler e lo seguì in altre avventure, quelle volte con le bacchette, da «Something There», 1982, a «Concertos», 2008, passando per un pregevole live 1987 con un’altra eletta compagnia (Jack Bruce, Rick Fenn, Don Preston, John Greaves).
Mason capì da subito, dagli enigmatici «additional speakers», che quella era la strada giusta per smarcarsi dai Pink Floyd senza abiurarli, per riaffermare lo spirito di curiosità e di esperimento che aveva animato le prime opere della band e che i compagni, ahiloro, avevano smarrito per strada. Così nell’autunno 1979 si rivolse alla famiglia Mantler per organizzare il primo lp da leader, rivelando una volta di più il suo paradossale talento. Mentre di solito è la star a invitare ospiti alla festa di un disco fortemente voluto e concepito in proprio, nell’occasione i ruoli si invertivano; l’ospite era Mason, invitato come batterista e co-produttore in un album di otto brani composti tutti da Carla Bley. Facile fare i maliziosi e sospettare che si trattasse di un puro trucco commerciale, schermando il nome non così popolare della signora dietro una firma ben più celebre; tra l’altro, Mason stesso con onestà lo ha riconosciuto in una nota del suo librone, «per comodità di pubblicazione e perché le prenotazioni da parte dei negozi sarebbero state maggiori». Resta comunque il fatto che «Fictitious Sports», così l’album venne a chiamarsi, ha una sua bella originalità che lo distacca dalle altre opere della Carla Bley Band e in particolare da quelle dell’epoca, «Musique Mecanique» e «Social Studies». Un disco di canzoni riflessive stralunate e scoppi di jazz cabaret, secondo il gusto di madame fin dai giorni di «A Genuine Tong Funeral»: con la voce di Robert Wyatt che illumina almeno due brani da antologia, Siam e I Am A Mineralist, e la policroma orchestra della famiglia Mantler con Chris Spedding, Gary Valente, Howard Johnson, Steve Swallow, più Mason naturalmente, che con passione e ironia sbuffa, rotola, gorgheggia, stride fin dall’inizio, quando rumorosamente proclama di non trovare la chiave d’accensione (Can’t Get My Motor To Start).
«Fictitious Sports» non ebbe purtroppo riscontro, in una stagione che riservò a Mason anche l’amarezza dello sfascio Floyd (con un album, poi, «The Final Cut», che nessun revisionismo critico riuscirà mai a redimere). Erano gli Ottanta e iniziò un’altra vita per Nick, che nella sfida all’OK Corral tra Waters e Gilmour si schierò con quest’ultimo e contribuì alla seconda, più asfittica vita Floyd. Anche per via di quella bassa pressione, piano piano gli passò la voglia di musica: meglio le Ferrari, e la Carrera Panamericana, e gli articoli appassionatamente scritti per rivista di motori fino a un libro, Into The Red, edito ben prima della storia Floyd. Fece un’eccezione sul finire del decennio, quando con l’amico Rick Fenn, uno dei 10cc invasato anch’egli di auto da corsa, registrò un lp e alcune colonne sonore che furono puntualmente malmenate dagli appassionati Pink e dalla stampa. Il cofanetto che dicevamo, «Unattended Luggage», riporta parte di quel materiale, confidando in una maggiore clemenza degli appassionati, oggi che il mito Floyd risplende e abbaglia. Chissà. La colonna sonora, «White Of The Eye», è frammentaria e dispersiva mentre l’album vero e proprio, «Profiles», ha un suo gusto frizzante, un luccichio che potrebbe piacere a chi ricorda con nostalgia gli Ottanta e quella ingenua fede nell’elettronica finalmente domata e alla portata di tutti, diventata elettrodomestica. Niente a che vedere con i Pink Floyd, a ogni modo, e men che meno con «Fictitious Sports», che resta un piccolo tesoro nascosto e uno dei segreti meglio conservati della scena Brit di quegli anni.
Riccardo Bertoncelli